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venerdì 19 ottobre 2018

OCCHI CHIUSI SPALLE AL MARE - Donato Cutolo

Distacchi

Titolo: Occhi chiusi spalle al mare
Autore: Donato Cutolo
Editore: Spartaco
Anno: 2017
Genere: Romanzo
Pagine: 143

Il catanese Donato Cutolo, in poche pagine, ci regala una storia delicata e tenera affrontando varie tematiche che vanno dall’analisi di un rapporto padre-figlio assai complesso al tema dell’immigrazione clandestina.
Sono le cinque e ventiquattro di un mattino di giugno. La città dorme, regna  un profondo silenzio tranne che per il rumore del SUV condotto da Piero. Il suo cuore batte all’impazzata all’interno dell’abitacolo. Tensione e sudore. Sente di potercela fare, sente di poter arrivare puntuale a quello che è l’appuntamento più importante della sua vita in un palazzo abbandonato. Lì, lo attendono una donna e un bambino: Jasmine e Yousself. Ha paura, Piero. Tanta paura. È solo la terza volta che usa la macchina di suo padre, l’ingegner Mauro Righieri, l’uomo che, a parer del figlio, non era mai stato bambino, l’uomo adulto da sempre. Sono le 5.30 e Piero perde il controllo del veicolo. Si sveglierà in un letto di ospedale, in una stanza dalla mura bianche, nel reparto di terapia intensiva. Immobile, fermo, occhi chiusi. A un certo punto scorge gli occhi di suo padre là fuori dalla stanza. Suo padre, quel concentrato di ”ammonizione e autorità” ben distante dalla dolcezza di Viola, sua madre, andata via troppo presto: Piero era solo un bambino di nove anni…
“Non era mai a suo agio, lui, cresciuto tra l’intimità delle passeggiate con sua madre e i forti conflitti di quest’ultima con suo padre. L’ingegnere in casa era un estraneo, apriva bocca solo per inveire contro Viola o impartire ordini a lei e a suo figlio, con una violenza tale da impaurire e segnare Piero, giorno dopo giorno sempre più schivo e insicuro. Molto spesso e con una remissività insolita per un bambino di quell’età, obbediva rassegnato ai comandi e si defilava in camera sua quando la discussione tra i genitori diventavano accese.” (Pag. 23)
Quarto romanzo dello scrittore e compositore Donato Cutolo, Occhi chiusi spalle al mare dipinge, con una prosa essenziale e delicata, il quadro di un rapporto padre-figlio dominato dall'assenza di amore. Piero, orfano di madre, è schivo, chiuso nel suo mondo entro i confini delineati da un padre autoritario e privo di slanci affettivi. Ma la vita offre sempre qualche possibilità anche sotto forma di casualità: sarà infatti il caso a fornire a Piero l’opportunità di esprimersi, di essere se stesso e di offrirsi a qualcuno che di opportunità ne ha avute ben poche. E sarà quel caso che permetterà al giovane di staccarsi dal modello paterno con coraggio e, soprattutto, con estrema sensibilità. E sarà possibile vivere con gli occhi aperti e con il viso rivolto al mare. Ambientato in un’isola immaginaria del sud, Isonta, destinazione ideale per gli sbarchi clandestini, l’opera rispecchia argomenti di forte attualità, con il grande merito di essere descritti senza un filo di retorica. Il romanzo è anche accompagnato dalla colonna sonora di Rita Marcotulli con la voce di Sergio Rubini, scaricabile sul sito dell’editore, che aiuta a dare una voce altra ai protagonisti e a rendere ancora più vivide e materiali le immagini.

Altri libri:
Gli amici nascosti, Cecilia Bartoli

martedì 24 aprile 2018

QUANDO ERAVAMO ORFANI - Kazuo Ishiguro


Titolo: Quando eravamo orfani
Autore: Kazuo Ishiguro
Editore: Einaudi
Anno: 2017
Genere: Romanzo
Pagine: 332
Traduzione: Susanna Basso

Ishiguro si rivela sempre scrittore raffinato, anche se – a onor del vero – questo romanzo, pur pregevole, l’ho trovato, in alcuni punti, poco convincente, ingenuo quasi

Nell’estate del 1923 il giovane Christopher Banks, dopo aver terminato gli studi a Cambridge, decise di stabilirsi a Londra, nonostante la zia lo volesse con sé nello Shorphire. Il suo sogno, coltivato fin dall’infanzia e simbolicamente rappresentato da una lente di ingrandimento che i compagni di scuola gli regalarono anni addietro e dalla quale mai si separerà, di divenire investigatore, è ora una realtà. Piano, piano il suo nome diviene noto grazie ai casi che, man mano, risolve. I misteri e la ricerca della verità sono i suoi obiettivi principali. Già, i misteri. Uno in particolare. Uno che riguarda la sua famiglia, la sua infanzia. È quello il mistero che lo ossessiona. Perché tutta la sua esistenza pare non riuscire a smuoversi davvero, ad avere un senso, fintanto che non comprenderà le ragioni vere per le quali i suoi genitori furono rapiti a Shangai. Da quello strano rapimento derivò il suo viaggio, ancora bambino, verso l’Inghilterra, presso la zia. Ma lui ha deciso che tornerà lì, a Shangai, troverà il nascondiglio nel quale si trovano i suoi genitori, rivedrà il suo amico d’infanzia, Akira, perché è certo, il nostro Bansk che Akira si trovi ancora lì visto che ne era innamorato. Sarà quella la sua indagine più importante e seria della sua vita…
Kazuo Ishiguro insignito, lo scorso anno, del Premio Nobel per la letteratura, ancora una volta   conferma, con questo romanzo, la maestria, la delicatezza e la raffinatezza della sua scrittura sempre precisa, attenta e priva di sbavature.. Non ci sono grandi eroi tra le pagine, ci sono personaggi che vagano, ancorati a un passato che non hanno ben inquadrato, che errano con una bagaglio fatto di sogni, di paure, di desideri, tanti desideri. E quello di vagare, senza avere una dimora fissa, pare essere il destino di chi, come il protagonista, ma anche come Jennifer, è orfano: chi è orfano non ha una dimora, continua a cercare, indizi, verità, per colmare vuoti, per ricostruire, a piccoli passi, frammenti di vita passati divenuti, con il tempo, sfumati, poco precisi. Tale ricerca, quasi ossessiva, accompagna il giovane Bansk che vive nel presente, ma è sempre proiettato nella sua infanzia, nei ricordi, come se non avesse un’epoca, un posto suo. Per quanto si resti affascinati dalla bellezza della scrittura, per quanto il tema di fondo sia appassionante, non mancano delle ingenuità, delle coincidenze improbabili oltre che dei colpi di scena poco credibili, se non proprio irreali che, di fatto – è spontaneo il confronto – rendono quest’opera distante da Quel che resta del giorno, che conserva intatto il podio.


venerdì 20 aprile 2018

LEGGENDA PRIVATA - Michele Mari


"Nacqui in inverno"

Titolo: Leggenda privata
Autore: Michele Mari
Editore: Einaudi
Genere. Romanzo
Anno: 2017
Pagine:171


Leggenda privata è il primo romanzo che leggo di Michele Mari, autore che mi ha sempre incuriosito tanto. Sono rimasta folgorata dallo stile di Mari tremendamente originale, alto, mutevole. Rimane impresso senza dubbio.

Nacqui d’inverno, al nostro discontento. Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine; la bio-vita, la polpa; il mondo, il deserto, ove tallotta uno scorpio, un crotalo, un formicaleone; oppure il sitibondo che ti amputa e scortica per succhiarti la fibra: «Ma prendi i miei fiori» gli dici col pensiero, «alliétati di quella fragranza»: macché, vuole attingere al bio, colui, né più né meno degli Accademici; e tu resti poi monco, fiorito ma monco, e ludibrio alla famiglia dei cactus e degli alberi tutti. (incipit)

Alla mezzanotte lo scrittore Michele Mari è stato convocato nella Sala del Camino. Era buio, ma lui sentiva la presenza di tutti loro. Quello che Gorgoglia gli ha chiesto la sua autobiografia. Ma come la mettiamo con l’altra autobiografia già commissionatagli, la settimana precedente, dall’Accademia dei Ciechi? E no! Ha precisato Quello che Gorgoglia: questa dovrà essere diversa, totalmente nuova e solo un fatto potrà essere ripetuto: l’essere egli nato da un amplesso abominevole. “Scrivi” continuano a ripetergli. E il povero Michele ha paura, ha il sospetto che potrebbero anche affidare l’intera faccenda a Quella dalle Orbite Vuote e questo proprio non lo sopporterebbe. Proprio no. E scrive della sua nascita, avvenuta in inverno, otto mesi dopo il concepimento e il numero otto, si sa, è simbolo di aberrazione. Ma egli non fu mostro, però fu mostruoso fu il rapporto che intrattenne con se stesso. Poi di cosa potrebbe parlare per rimanere nel concetto di “bio”? Di Ovidio il bidello? O dello studio o del fatto che egli fu cupo e spinoso come un cactus e produsse dei fiori cibandoli delle sue stesse polpe? E tutti quei grumo-nodi irrisolti? Il grumo-nodo padre? Il grumo nodo madre?...

"Il fatto è che scrivo al ribasso. Non invento, non enfatizzo: grado della mitopoiesi molto vicino allo zero. Semmai ometto, attenuo, eufemizzo. Ma questi mostri vogliono il carnevale, l’euforia della forma: per cogliermi lì, ignudo sotto un travestimento così sfarzoso da non poter diventare una seconda pelle. L’idea è che l’ingombro del travestimento sia tale da trasformarsi in una prigione." (Pag. 99)

Michele Mari torna in libreria con una autobiografia definita horror. In uno scenario tra il fantastico e il grottesco, l’autore scava nel proprio passato, per affrontare paure e mostri più o meno malvagi. E sono proprio gli anni della giovinezza – tema peraltro non nuovo nelle opere del Mari – quelli nei quali si trova precipitato, per merito o colpa degli Accademici, per impelagarsi nel suo labirintico passato di dubbi, fobie, ma anche amore e cercare di dipanare quelle matasse – o meglio grumo nodi – da cui ha origine la sua natura quasi scissa: una madre la cui divisa era la tristezza e un padre, il noto designer Enzo Mari, ingombrante e immenso.  È un romanzo crudo, ma anche crudele, feroce, senza orpelli nel quale l’autore si trova a fare i conti con la sua infanzia perché benché, come il medesimo ha dichiarato “piena di traumi e di lutti” rimane per lui la “cosa più significativa”  che ha vissuto. E le sue parole colpiscono e feriscono perché prive di addolcenti, di anestetizzanti neppure blandi. Entra a testa alta nel suo passato, nei suoi conflitti familiari, nelle sue guerre, senza alcuna corazza. Coraggiosamente. Il tutto con il suo stile originale, fuori da schemi preconfezionati nel quale si passa, con nochalance, da un registro linguistico ad un altro e con l’uso sapiente di una lingua che risulta, ad ogni pagina, fertile, ricca e variegata. Il libro è inoltre intervallato da una trentina di fotografie  in bianco e nero che accompagnano e esplicano la lettura degli eventi narrati, ma che – in qualche modo- parlano da sole.

venerdì 6 aprile 2018

TERREMOTO - Chiara Barzini

Scosse e crescite

Titolo: Terremoto
Autrice: Chiara Barzini
Genere: Romanzo
Editore: Mondadori
Anno: 2017
Pagine. 336
Traduzione: Chiara Barzini – Francesco Pacifico

Con un titolo evocativo la Barzini ci porta nel movimentato, ma anche confuso, triste, malinconico mondo dell’adolescenza. Protagonista è Eugenia che si ritrova non solo a vivere quella complicata fase della vita (ho ancora ricordi terribili della mia adolescenza), ma per di più in un ambiente lontano da quello in cui è cresciuta perché costretta a seguire i suoi genitori in America.

 “Stavo guardando mia nonna, seduta a gambe incrociate e tette nude sulla spiaggia di El Matador, a Malibu, quando mi ricordai che da piccola io e lei pomiciavamo. Lei tirava fuori la lingua e io gliela dovevo leccare. Lo chiamava il gioco del lingua a lingua. Un raviolo molliccio le usciva di colpo dalla bocca in cerca di compagnia. Non potevo dirle di no. L’odore della sua saliva mi repelleva e il gioco non mi piaceva, ma mi era stato detto di farlo lo stesso perché lei era vecchia e io bambina. Andammo avanti così fino ai miei otto anni. La visione dei suoi seni nudi e penduli sulla spiaggia, quel giorno, mi sembrò fuori luogo come la sua lingua nella mia bocca anni prima. Era sempre tutto così nella mia famiglia. Non facevamo mai le cose come si deve
(Incipit)

Nel 1992 la giovane Eugenia si trasferisce, al seguito della famiglia, da Roma a Hollywood “per diventare ricchi e famosi” disse il padre, ma il genitore, inseguendo con quel trasferimento il sogno di diventare un grande regista, scordò di dirle che sarebbero andati a vivere nella San Francisco Valley. Ed ecco la famigliola italiana, con nonna al seguito, nelle strade americane. Il primo acquisto sarà una Ford Thunderbird decapottabile. Eccola Eugenia, nella Valley così lontana da quei fotogrammi di Hollywood che i suoi genitori avevano promesso sarebbero diventati la sua vita. La Valley è un luogo sconsolato, le cui strade hanno poco di accogliente. Poi c’è la scuola, con i metal detector, la diffusa paura delle gang: Eugenia, isolata, in quell'edificio affollato da migliaia di studenti si sente sperduta. È sola. Il suo modello di vita, consolatorio e salvifico, diviene la Vergine Maria alla quale si rivolge, dal giorno del trasferimento, per avere rassicurazioni materne, quelle che Serena, la madre, non riesce a darle perché troppo impegnata. Perché sempre altrove, con lo spirito. Ed è proprio a Maria che  si rivolge il primo giorno di scuola, con il terrore che le stringe il cuore e le rebook pumpins ai piedi “Maria, questo è il giorno più importante della mia vita (…) non voglio dover cercare un bagno. Ho paura di chiedere dov’è. Ti prego fa che non debba fare pipì”…

Terremoto, scritto in inglese poi tradotto in Italiano, è un romanzo sull'adolescenza che, in qualche modo, ha dei punti di contatto con l’esperienza personale dell’autrice poiché che, anch'ella, come Eugenia ha vissuto, da giovane, il trasferimento dall’Italia. L’adolescenza è, per definizione, una fase complessa, ma diviene ancor più difficile in queste pagine dal momento che ad essa si accompagna un traumatico distacco, non voluto ma subito. Lontana da tutto, lontana da tutti, Eugenia è sola, tremendamente sola, con due genitori hippie, preoccupati solo di far un film, quasi dimentichi della sua esistenza, sordi alle sue richieste. Eugenia combatte, con la tristezza nel cuore, fa di tutto per farsi accettare, si costruisce un immaginario costume di gomma che la proteggerà da quella vita. Piccola e inadeguata, diversa, con le reebok ai piedi quando tutte le altre ragazze avevano i tacchi. Cerca calore, amici, qualche parvenza di amore e qualcosa trova, personaggi spezzati come lei: Alo l’indiano con il cancro alla gola, Henry con l’orecchio mozzato, l’amico necrofilo, il persiano vittima di una gang. Un romanzo amaro, un vero terremoto, appunto, soprattutto interiore, spesso silenzioso, non urlato, appena accennato, ma lacerante. Non manca anche la tenerezza e lo spazio per un amore, quello per Deva, bella e diafana, in una terra dove per il romanticismo non c’è posto. La Barzini è riuscita a descrivere in modo incisivo l’ansia e la sofferenza del distacco, le difficoltà del crescere, il dolore di chi non ha punti di riferimento, alternando pagine altamente appassionanti -bellissima la parentesi della vacanza della protagonista in una piccola isola italiana e meravigliose le descrizioni dei paesaggi e della natura - a pagine con tono decisamente più basso.

Altre recensioni:
L'estate di Ulisse Mele, Roberto Alba
Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, Eric-Emmanuel Schmitt
Montedidio, Erri De Luca
Velvet, Mary Gaitskill

giovedì 15 marzo 2018

L'ALBERO DI GIUDA - Silvana Grasso


Il capitale

Titolo: L’albero di Giuda
Autore: Silvana Grasso
Editore: Marsilio
Anno: 2011
Genere: Romanzo
Pagine: 297



Una bella sorpresa questo romanzo perché vivace, frizzante, ironico, ma – a suo modo – anche triste e melanconico.

Sicilia, Bulalà. Alle sei e tre quarti del 15 giugno  Sasà Azzarello, arrivava, puntuale come sempre, alla cancellata della Villa Comunale. Lì, in quella Villa, luogo d’incontro con i suoi amici – o quasi amici, o forse per niente amici – il settantenne Sasà sente, ogni volta, il respiro del mare. Certo, non tutti potevano sentirlo quel respiro: bisognava averci l’anima, bisognava non essere bestiacce con il cervello crudo. Un’anima fine ci voleva, come la sua che non solo il respiro, ma anche il cuore del mare sentiva e ciò in barba alle amarezze che la vita gli aveva donato. E quelle bestiacce dei suoi amici, che di fine non avevano proprio nulla, figuriamoci l’anima, gli ripetevano quanto cretino fosse. No! Non era il mare quello: erano le ciminiere quelle che sentiva. Ma Sasà, intelligente com’era, lo capiva che erano solo degli invidiosi, in  particolare il logorroico Cataratta che ci moriva d’invidia. Ed era anche normale: Sasà è colto, laureato figlio del direttore didattico. Sasà che tutti a Bulalà, chiamavano il filosofo. Per sfotterlo, certo, ma filosofo lui lo era. E il vecchio settantenne ogni volta si riprometteva di non incontrarli quegli avvelenati di invidia , ma poi si ritrovava nel cancelletto della villa perché, in fondo, quei maledetti erano meglio della solitudine, sempre meglio dei ricordi della sua triste vita…

Pubblicato per la prima volta con Einaudi nel 97 poi con Marsilio nel 2011 L’albero di Giuda -tra l’altro vincitore del premio Napoli e del Premio Vittorini nel 1997 – è un romanzo ironico, frizzante, e surreale nel quale, con il veicolo della comicità e del paradosso, si affrontano tematiche forti. Sasà, il protagonista, ormai anziano, ripercorre gli anni della sua vita passata, marchiati dall’infelicità, per scelta propria e altrui, per destino, per mancanza di coraggio, per un arrendersi al corso degli eventi. Si parla di amore, quello grande di Sasà per la friulana, un amore contrastato dal padre, figura dominante, si parla del rapporto padre-figlio nel quale il genitore pretende, e si impegna alacremente in questo, per scrivere la vita del figliolo: decidendo, sin dalla nascita, il suo ruolo nel mondo, la sua intelligenza e, naturalmente, il possesso –tra le gambe – di quel preziosissimo “capitale” perché lui è figlio del direttore didattico!  Tutto nella norma in quella realtà descritta dalla Grasso nella quale la virilità è bene assoluto per quanto poi si tratti solo di virilità solo illustrata e decantata, ma mai dimostrata nel concreto nei fatti. A fine lettura rimane un senso di amarezza perché, alla resa dei conti, nessuno ha vissuto davvero la vita che voleva o, ancor peggio, nessuno ha compreso cosa effettivamente volesse dalla vita…ma, poi, volevano davvero qualcosa? Ampio spazio, in questo assurdo quadro, trovano i ripetuti e costanti pensieri di morte: Sasà, per tutta la vita, ha sognato il suicidio ponendo in essere tentativi sfioranti il grottesco. E solitudine tanta e, poi, la vecchiaia il decadimento, la sordità, i passi lenti, il balbettio. Il tutto narrato con toni comici, divertenti, amari con un uso largo del dialetto che colora e vivacizza.


lunedì 5 febbraio 2018

UN DILEMMA - Joris-Karl Huysmans


Brutto posto, il mondo
Titolo: Un dilemma
Autore: Joris-Karl Huysman
Editore: Kogoi
Anno: 2014
Genere: Romanzo breve
Traduzione:Laura Minuto
Pagine: 122


Huysmans è un autore che ho amato molto in gioventù da quando, per la prima volta, lessi il suo capolavoro, Controcorrente. Era il mio periodo “francese” che, a dire il vero, è durato decenni. La passione per la letteratura francese, comunque, mi è rimasta e quando, per caso, ho avuto l’occasione di leggere questo piccolo romanzo non potevo lasciarmela sfuggire. E sì, quell’amore del passato per i francesi è riemerso con questo Huysmans non ancora decadente, lontano da quel linguaggio forbito e dai virtuosismi linguistici di Controcorrente,  ma sempre  capace di farmi adorare le sue parole. A concludere l’opera anche l’articolo Il mostro angosciante quanto basta.
Una improvvisa e violenta febbre tifoidea ha condotto a miglior vita il giovane Jules. Suo padre, il signor Lambois, incontra, presso la sua abitazione, Le Ponsart notaio nonché zio del defunto. Già, perché se tutto andrà liscio, e il giovane è morto intestato, ci sarebbero cinquantamila franchi a testa dell’eredità. Ma bisogna prima vedere se Jules abbia fatto testamento e lasciato una parte dei beni “a una certa persona”. Quella donna, quella sgualdrina che il signor Lambois incontrò nell’abitazione del figliolo con la quale conviveva e che si prendeva cura di lui. Certo lui gli disse che si trattava della domestica, ma il signor Lambois mica ci credette. E ora, a quanto pare, quella femmina, aspetta un figlio. Suo nipote. Per fortuna però che al mondo esiste il notaio Le Ponsart. Quella donna? Un piccolo inconveniente, un problema risolvibile e, addirittura, con poca spesa: basteranno cinquanta franchi. Sarà anche sua cura recarsi dalla donna, Sophie, per risolvere di persona la questione. La porrà di fronte a una scelta, una scelta ammantata dalle sue conoscenze nel campo del diritto, chiaro. Una scelta tra due opzioni, sarà Sophie a scegliere quella più vantaggiosa. Questo è il dilemma…
Pubblicato a puntate su una rivista nel 1887 Un dilemma in realtà è stato scritto nel 1884 anno nel quale Huysmans scrive Controcorrente romanzo-capolavoro nonché manifesto del decadentismo. Inevitabile pertanto un confronto tra le due opere e, in particolare, dei due personaggi cardine: il Des Esseint di Controcorrente, da un lato incarna – e realizza - la volontà di fuggire dal mondo ”costituito per la maggior parte da imbecilli e mascalzoni” rinchiudendosi nella sua raffinata tebaide e, dall’altro, la povera Sophie de Il dilemma che non è altro che una vittima, bersaglio ambito della crudeltà e della falsità della società borghese simboleggiata dal perfido notaio che ha in sé la totale assenze di scrupoli e di sentimenti. È il denaro il motore del mondo e, se per averlo, è necessario fare delle vittime non rileva. Un romanzo-specchio della crudeltà umana, della sete di potere nel quale pare vi sia poco spazio per la bontà. Un romanzo, peraltro, non ancora del tutto decadente, nel quale è ancora presente un Huysmans naturalista (basti pensare alle descrizioni dettagliate degli arredi delle case o, anche, dei lineamenti dei protagonisti), un Huysmans che, in qualche modo e anche se non del tutto, rimane legato a Zola nonostante “vi erano molte cose che Zola non poteva capire”. Il volume contiene anche l’articolo Il mostro tratto dalla raccolta più ampia Certains che è una disamina ammaliante, conturbante e inquietante di alcune opere d’arte e, in particolare, di alcune litografie di Redon. Se scopo di tale articolo era quella di ridarci le opere d’arte sotto la veste di incubi, non v’è dubbio che Huysmans ci sia riuscito.

venerdì 28 luglio 2017

IL SENSO DELLA LOTTA - Nicola Ravera Rafele

Titolo: Il senso della lotta
Autore: Nicola Ravera Rafele
Editore: Fandango
Pagine: 438
Genere: Romanzo

Corre tutte le mattine del lunedì, del mercoledì e del venerdì. Ne ha bisogno per non vivere in “uno stato di perenne stordimento”. Il pomeriggio lo trascorre in redazione, al Corriere della Sera e quando termina non torna mai a casa, esce ogni sera: per annientarsi perché “la consapevolezza è sempre stato un problema”. Neanche le droghe hanno funzionato. Corre anche quel giorno, un giorno diverso: il fiato gli si annoda in gola, il cuore inizia a palpitare, cade non tanto per il dolore, ma solo per la paura. “Musso Tommaso nato a Parigi il 2.1.1979?” questo gli chiede il medico con i suoi occhi neri con la bocca senza labbra: è il dottor Pinto. Gli chiede se suo padre ha mai avuto problemi di cuore. “Mio padre è morto nel 1983” risponde lui. E poi, il medico, gli dice di aver conosciuto suo padre e anche sua madre. È strano perché Tommaso non ha mai incontrato persone che conoscessero i suoi genitori. Per anni, Tommaso, ha reagito alle domande con un silenzio ostile, scontroso. D’altronde non è questo che succede agli orfani per terrorismo?. Il tempo è stato il suo alleato, lo ha aiutato a esercitare l’arte del distacco, a guardare le foto dei genitori solo di rado, tanto che i due genitori hanno perduto ai suoi occhi una connotazione familiare, sono diventate solo macchie ed è difficile “emozionarsi per l’assenza di una macchia”…

“Per tanti anni ho reagito alle domande con un silenzio scontroso.
Il pensiero di loro era una mosca da scacciare. A sentirli nominare avevo l’impressione di uno strappo in una rete, uno strappo che andava immediatamente ricucito. O il mondo intero poteva collassare in quella falla, sparire per lasciarmi a passeggiare nello spazio vuoto. È questo che succede agli orfani? O solo agli orfani per terrorismo?
(Pag. 23)

Nicola Ravera Rafele è uno scrittore precoce ha, infatti, esordito a soli 15 anni con Infatti purtroppo. Diario di un quindicenne perplesso e torna in libreria con il suo terzo romanzo nel quale tesse un intreccio tra la vita privata di Tommaso, figlio di terroristi, abbandonato all'età di quattro anni, e un’epoca storica che ha cambiato l’Italia. Attraverso la voglia di scoprire il passato dei suoi genitori, Tommaso, ricostruisce i sogni di un’epoca, i deliri di onnipotenza di una generazione che ha fatto della ribellione e del rifiuto del sistema il suo cavallo di battaglia, battaglia nella quale, alla fine, non si comprende quali e se ci siano stati vincitori. La sete di verità, la voglia di comprendere chi veramente fossero quei giovani che abdicarono al ruolo di genitori per la lotta armata,  spinge il protagonista a toccare argomenti dolorosi, a vedere l’imponente ruolo di quegli ideali ma anche la caduta degli stessi e udirne il rimbombo dell’ultimo tonfo. Tommaso bambino, bambino particolare che cerca protezione, sicurezza. Nella normalità.

“Quell'equilibrio silenzioso mi sembrava la migliore garanzia di protezione. Era il senso della durata. Mi piaceva fare i compiti perché fare i compiti faceva somigliare ogni giorno al precedente. Non ero un bambino a caccia di avventure. Mi spaventavano i rumori improvvisi, e se vedevo un film che faceva paura ero capace di non dormire per tutta la notte, e questo succcedeva quanto i miei coetanei già usavano il cinema horror come scusa per abbracciare la compagna di banco nel buio della sala.” (Pag. 31) 

Due generazioni a confronto per le quali capirsi sembra quasi impossibile. Impossibile capire un abbandono a quattro anni. Impossibile capire che possano esistere cose più importanti di un figlio. Ottima prova narrativa, per quanto il romanzo non riesca a mantenere per intero un livello alto, tra i dodici candidati al premio Strega e non rientrato nella cinquina, offre uno spaccato dell’Italia degli anni di piombo che  viene ricucita pazientemente, pagina dopo pagina, ricordo dopo ricordo, frammento dopo frammento dal tenace Tommaso per il quale a un certo punto la verità assume i connotati di un’ossessione. Perché conoscere è necessario, a un certo punto, per conoscere se stessi e capire cosa ci facesse un bimbo di soli quattro anni lontano dai suoi genitori.


mercoledì 10 maggio 2017

LA FIGLIA DEL FUORILEGGE - Maria Venegas

Bajaron al Toro Negro.

Titolo: La figlia del fuorilegge
Autore: Maria Venegas
Editore: Bollati Boringhieri
Anno: Anno 2014
Genere: Romanzo biografico
Traduzione: Manuela Faimali
Pagine: 376

Come un dondolio, talora lieve, talora pesante, tra odio e amore. Tra rabbia e comprensione. Tra indifferenza e voglia di conoscere. Intenso.

New York. Maria riceve una telefonata dalla sorella la quale le comunica che il loro padre, José, è stato vittima di un’imboscata, Maria continua a sfogliare il menù che ha davanti agli occhi e, distrattamente, chiede alla sorella se il padre sia morto. Già quel padre che anni prima lei, e il resto della sua famiglia, ha deciso di eliminare dalla propria vita, quel padre violento, aggressivo, che sparava in aria durante la notte, quello stesso padre che ha ucciso il fratello di sua moglie. Ma anche quel padre che la esortava a difendersi, a non farsi sottomettere, quel padre che, con vanto, la mostrava ai suoi amici elogiandone il coraggio. Nonostante l’odio e la rabbia accumulati nel corso degli anni e nonostante le ferite subite, Maria – ormai divenuta donna - deciderà di recarsi in Messico dove si trova il “fuorilegge”…

Maria Venegas, messicana emigrata negli Stati Uniti all’età di quattro anni, ha messo nero su bianco  le vicende della sua vita in un memoriale sincero e, spesso, crudo come solo la verità sa essere. L’opera è un alternarsi di passato e presente e mette a fuoco aspetti non solo della propria vita ma anche, e soprattutto, della vita avventurosa e fuori dalle regole di suo padre. E se, in una prima fase, il sentimento dominante è quello della repulsione, dell’odio nei confronti del genitore si assiste, successivamente, a un ammorbidimento delle rigide posizioni iniziali dovuto alla forza, spesso dirompente, dell’amore e dei legami di sangue. Quasi a voler dimostrare come nei rapporti familiari  - per quanto difficili possano essere -si tenda, comunque, a scavare a fondo senza sosta in virtù di una molla, che sia essa l’amore filiale o la pietas, che porta ad andare avanti, a proteggere e, forse solo, a conoscere meglio il genitore. Un romanzo vero, intenso e carico di fascino che regala continuamente al lettore emozioni forti.

Altri libri:
Occhi chiusi spalle al mare, Donato Cutolo

domenica 2 aprile 2017

LA PIÛ AMATA - Teresa Ciabatti

Titolo: La più amata
Autore: Teresa Ciabatti
Editore: Mondadori
Anno: 2017
Genere: Romanzo

È da febbraio che avevo in mente di leggere La più amata. Curiosità, ma non solo: era qualcosa di più, forse la sensazione che sarebbe stata una bella lettura. In effetti, lo è stata. Ci vuole molta forza e molta determinazione nel tornare indietro, nel ripercorrere il mondo incantato (o creduto tale, spesso) dell’infanzia per riscriverlo, riviverlo e capirlo. Libro duro, crudele e, indubbiamente, coraggioso.

Lei, Teresa, ha quarantaquattro anni e tutto quello che è lo deve a suo padre: egoista, superficiale, anaffettiva, diffidente, asociale. Lei credeva che suo padre la amasse immensamente, credeva di essere l’amore della sua vita e, soprattutto, era convinta del fatto che lui le raccontasse tutto, invece non le aveva raccontato nulla. Lui, il padre, è Lorenzo Ciabatti, primario chirurgo presso il San Giovanni di Orbetello, conosciuto semplicemente come il Professore. Lui, un santo, un benefattore. Tutti gli devono qualcosa, qualcuno gli deve tutto. Lui che provava un certo ribrezzo per gli africani, non per razzismo – figuriamoci il Professore un razzista!- ma semplicemente perché i neri sono esseri inferiori, chiaro no? Lui, vendicativo, calcolatore. Lui ateo che credeva solo negli uomini, o meglio, nella superiorità di alcuni uomini. Lui e il suo misterioso  anello d’oro con zaffiro da quattro carati. Lei, Teresa, dopo 26 anni dalla morte del padre -un dio quell’uomo, dicevano- decide di scoprire chi veramente fosse quell’uomo…

 “lo amo davvero? Non lo so, non sono abituata a valutare ciò che amo per i viventi”

Quanto coraggio serve per mettere a nudo un idolo soprattutto se quest’idolo è il proprio genitore? Indubbiamente molto e di certo non ne è mancato a Teresa Ciabatti, scrittrice e sceneggiatrice, nella sua ultima fatica. Usando la scrittura a mo’ d’arma tagliente ripercorre gli anni della sua infanzia e della adolescenza per far emergere la verità intorno a suo padre, l’idolo appunto. Una ricerca della verità che ha il sapore di una vera e propria ossessione. Pare che per l’autrice nessuno sia intoccabile, tantomeno quel dio in terra da tutti osannato. E alla dimensione intima e familiare, quei “Ciabatti per i quali i bambini non esistono” né esistono abbracci o carezze, si aggiunge un frammento di storia italiana, dell’Italia dei misteri e dei personaggi che li hanno creati e alimentati e nei quali nuotava il Ciabatti padre. Un libro crudo, crudele senza alcuna pietà. Per nessuno, neanche per se stessa: egoista, madre inadeguata, asociale, senza alcun rapporto con il fratello. Non è lei la buona e il resto del mondo i cattivi, sarebbe stato troppo semplice.Pagina dopo pagina le parole della Ciabatti divengono dardi infuocati che lasciano il segno. Già dalla sua uscita si vociferava una candidatura del romanzo al Premio Strega e, proprio in questi giorni, la candidatura è divenuta ufficiale a seguito della presentazione ad opera di Stefano Bartezzaghi e Edoardo Nesi.


venerdì 15 luglio 2016

CHIRÙ - Michela Murgia

"Affinità"
Titolo: Chirú
Autore: Michela Murgia
Editore: Einaudi
Anno: 2015
Pagine: 200
Genere: Romanzo


Mi incuriosiva molto leggere l’ultimo romanzo della Murgia soprattutto per le recensioni contrastanti lette in giro. Due i blocchi contrapposti: da un lato quelli che “manca una trama”, o anche “è un esercizio di stile”, dall'altro quelli che “è bellissimo”. Aggiungerei il terzo blocco: quelli –adorabili come l’eritema - che non hanno letto, non leggeranno il romanzo “ché tanto è brutto” Ma dove sta la verità? Non c’è una verità, chiaro. C’è però una storia, d’amore, di sentimenti certo. E c’è l’uso sapiente, scelto, delle parole che emerge in ogni riga. E poiché credo  che l’uso delle parole faccia la differenza in uno scrittore (ma guarda un po’!) io l’ho apprezzato.

"Chirù venne a me come vengono i legni alla spiaggia, levigato e ritorto, scarto superstite di una lunga deriva."
Sardegna, Cagliari. Eleonora, attrice di teatro affermata, ha trentotto anni quando incontra il diciottenne Chirú. Il giovane, quel giorno, è convinto, perché così qualcuno erroneamente gli ha fatto credere, di dover suonare il violino nel palco accanto a lei durante lo spettacolo. Eleonora gli spiega come preferisca recitare in silenzio. Al termine della rappresentazione quel giovane, vestito da adulto, con le braccia fin troppo lunghe e con appresso il suo violino, con il candore dei suoi anni chiede all’attrice se può seguirla a cena. Lei accetta. La loro non fu un’immediata affinità elettiva, lei semplicemente “lo riconobbe dall’odore delle cose marcite che gli veniva da dentro” forse perché quell’odore Eleonora lo  conosceva bene: era lo stesso suo. A tavola, tra altre persone che paiono quasi sfumate, i due conversano, ma lei vuole sapere esattamente cosa ci faccia lui con lei e Chirú, con sfrontatezza, afferma di volere che lei lo accompagni “anche se non sapeva dove andare” perché la donna conosce tante cose e lui vuole imparare, e tanto. Un allievo. Ancora? Sarebbe giusto? Sono passati ben otto anni dall’ultima volta che Eleonora ha preso con sé il suo terzo e ultimo allievo, o meglio quello che credeva fosse l’ultimo: ora ci sarà Chirú, il quarto…

Dopo Accabadora che le valse, tra gli altri, il premio Campiello l’autrice sarda torna, dopo sei anni, in libreria con un nuovo romanzo anch’esso ambientato prevalentemente in Sardegna seppur lontano dalle atmosfere ancestrali e magiche dell’opera precedente. Romanzo scritto in un momento particolare e di certo difficile della sua vita privata, "non è un libro autobiografico, ma racconta molto della mia vita" ha, infatti affermato la Murgia, Chirú, suddiviso non in capitoli, ma in 17 lezioni e un compimento finale, si presenta fortemente crudo nell’offrirci un percorso di formazione e di acquisizione di consapevolezza del sé alla luce di una introspezione intensa e anche dolorosa. La Murgia l’ha definito un “romanzo politico” tutto incentrato com’è sul concetto di potere che domina i rapporti umani, primi fra tutti quelli familiari, la figura del padre di Eleonora ne è l’emblema, ma sono impregnate di potere tutte le relazioni sentimentali, senza dimenticare che ogni relazione è, comunque, sentimentale, dirà Eleonora. Politico anche perché l’autrice, sempre attenta al problema delle donne, detronizza l’uomo per affidare stavolta il ruolo di mentore a Eleonora "infelice con classe", una donna la quale incarnerà la maestra intesa in senso ampio affiancando il giovane nella vita. E l’insegnamento non è solo un dare, non è mai –né mai può essere- unidirezionale: è un filtro a maglie larghe che permette un interscambio tra docente e discente quasi che, a un certo punto, i ruoli paiono confondersi. Una storia dal punto di vista dell’intreccio narrativo priva di eventi eclatanti, lineare, tutta basata sull’interiorità dei protagonisti e sul ruolo delle parole che paiono frutto di una scelta minuziosa e attenta, mai frutto della casualità, pesate una per una, accarezzate e adagiate delicatamente nella pagine per creare immagini eleganti e sonorità raffinate. Una curiosità: nella fase immediatamente precedente all’uscita del libro la Murgia ha aperto una pagina Fb a nome di Chirú, il quale ha interagito con i lettori e proposto il suo punto di vista, i suoi dubbi, le sue paure, scavalcando le pagine del libro per diventare, seppur in modo atipico,  “reale”. 


venerdì 20 novembre 2015

BASTARDIA - Hélia Correia

IL MARE, SUO PADRE
Titolo: Bastardia
Autore: Hélia Correia
Editore: Caravan
Anno: 2011
Genere: Romanzo
Pagine: 95
Traduzione: Serena Magi - Vincenzo Barca

Un libro piccolo, dalla copertina con le tonalità del blu e del viola, che pare un dipinto nel quale l’immaginazione, il mito e i sogni si fondono per lasciarci una storia ricca di fascino. Un libro sulle possibilità, sul coraggio di abbandonare il noto e tuffarsi nell’ignoto, per cercare i sogni e ritrovarsi.

Nella seconda metà dell’Ottocento, nella terra di Portogallo,  un piccolo e povero paesino della provincia lusitana impone ai suoi abitanti la tradizione la tradizione, non formalmente dichiarata, di non abbandonare il luogo natio. Così è per tutti. O meglio, per  quasi tutti: infatti, la vita pare offrire una sorte diversa a un giovane nato da una madre sterile in virtù del sortilegio di Pilar la strega.  Il giovane è Moséis Duarte, ossessionato dal mare, suo padre, e dalle sirene, sue sorelle, intraprenderà il viaggio che lo porterà ad abbandonare il suo villaggio e le braccia calorose e protettive di sua madre per recarsi, in un primo momento, a Leira dove suo zio lo attende per offrirgli un lavoro, un’occasione…


"Quando un uomo incontra una sirena la delusione è irrimediabile"
(Incipit)

La Correia, grande autrice contemporanea portoghese, dispone le sue parole, come note su un immaginario pentagramma,  producendo una incantevole melodia dai toni fiabeschi. Melodia intrisa di realismo magico, di simbolismo, di superstizione, di slancio verso sogni fuoriusciti da qualche cassetto dimenticato aperto.  In questa melodia, dolce e amara al tempo stesso come quello delle sirene, muove i suoi passi Moséis, personificazione dell’anelito verso l’ignoto, raffigurato dal mare pensiero dominante,  da quella “linea all’orizzonte”. La sua ricerca è indubbiamente faticosa, ma necessaria per trovare se stesso.  Nel mondo nato da tali note tutto – ma proprio tutto -può accadere, anche di trovarsi entro scenari propri di altri romanzi. Non è un caso che Moséis, giunto a Leira si trovi in un luogo quasi sconvolto dalla vicenda di padre Amaro, quello stesso padre Amaro de Il crimine di padre Amaro di De Queiroz. Perché storie  e personaggi si possono confondere e non è raro che personaggi di storie lette altrove, possano entrare, non con forza, ma con naturalezza, in altre storie: in questa, per fare un esempio. Data questa premessa non è bizzarro, anzi risulta cosa normale, immedesimarsi in Moséis che, in qualche modo, incarna quell’ansia dell’uomo traducentesi in desiderio di fuga che ci avviluppa quando la vita pare stringerci con i suoi lacci troppo stretti,  quando vogliamo allentare quella morsa che ci toglie il respiro e scegliamo l’ignoto, qualunque cosa esso sia, di qualunque sostanza esso sia fatto, preferendolo a ciò che quotidianamente viviamo e talora  odiamo.