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venerdì 20 aprile 2018

LEGGENDA PRIVATA - Michele Mari


"Nacqui in inverno"

Titolo: Leggenda privata
Autore: Michele Mari
Editore: Einaudi
Genere. Romanzo
Anno: 2017
Pagine:171


Leggenda privata è il primo romanzo che leggo di Michele Mari, autore che mi ha sempre incuriosito tanto. Sono rimasta folgorata dallo stile di Mari tremendamente originale, alto, mutevole. Rimane impresso senza dubbio.

Nacqui d’inverno, al nostro discontento. Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine; la bio-vita, la polpa; il mondo, il deserto, ove tallotta uno scorpio, un crotalo, un formicaleone; oppure il sitibondo che ti amputa e scortica per succhiarti la fibra: «Ma prendi i miei fiori» gli dici col pensiero, «alliétati di quella fragranza»: macché, vuole attingere al bio, colui, né più né meno degli Accademici; e tu resti poi monco, fiorito ma monco, e ludibrio alla famiglia dei cactus e degli alberi tutti. (incipit)

Alla mezzanotte lo scrittore Michele Mari è stato convocato nella Sala del Camino. Era buio, ma lui sentiva la presenza di tutti loro. Quello che Gorgoglia gli ha chiesto la sua autobiografia. Ma come la mettiamo con l’altra autobiografia già commissionatagli, la settimana precedente, dall’Accademia dei Ciechi? E no! Ha precisato Quello che Gorgoglia: questa dovrà essere diversa, totalmente nuova e solo un fatto potrà essere ripetuto: l’essere egli nato da un amplesso abominevole. “Scrivi” continuano a ripetergli. E il povero Michele ha paura, ha il sospetto che potrebbero anche affidare l’intera faccenda a Quella dalle Orbite Vuote e questo proprio non lo sopporterebbe. Proprio no. E scrive della sua nascita, avvenuta in inverno, otto mesi dopo il concepimento e il numero otto, si sa, è simbolo di aberrazione. Ma egli non fu mostro, però fu mostruoso fu il rapporto che intrattenne con se stesso. Poi di cosa potrebbe parlare per rimanere nel concetto di “bio”? Di Ovidio il bidello? O dello studio o del fatto che egli fu cupo e spinoso come un cactus e produsse dei fiori cibandoli delle sue stesse polpe? E tutti quei grumo-nodi irrisolti? Il grumo-nodo padre? Il grumo nodo madre?...

"Il fatto è che scrivo al ribasso. Non invento, non enfatizzo: grado della mitopoiesi molto vicino allo zero. Semmai ometto, attenuo, eufemizzo. Ma questi mostri vogliono il carnevale, l’euforia della forma: per cogliermi lì, ignudo sotto un travestimento così sfarzoso da non poter diventare una seconda pelle. L’idea è che l’ingombro del travestimento sia tale da trasformarsi in una prigione." (Pag. 99)

Michele Mari torna in libreria con una autobiografia definita horror. In uno scenario tra il fantastico e il grottesco, l’autore scava nel proprio passato, per affrontare paure e mostri più o meno malvagi. E sono proprio gli anni della giovinezza – tema peraltro non nuovo nelle opere del Mari – quelli nei quali si trova precipitato, per merito o colpa degli Accademici, per impelagarsi nel suo labirintico passato di dubbi, fobie, ma anche amore e cercare di dipanare quelle matasse – o meglio grumo nodi – da cui ha origine la sua natura quasi scissa: una madre la cui divisa era la tristezza e un padre, il noto designer Enzo Mari, ingombrante e immenso.  È un romanzo crudo, ma anche crudele, feroce, senza orpelli nel quale l’autore si trova a fare i conti con la sua infanzia perché benché, come il medesimo ha dichiarato “piena di traumi e di lutti” rimane per lui la “cosa più significativa”  che ha vissuto. E le sue parole colpiscono e feriscono perché prive di addolcenti, di anestetizzanti neppure blandi. Entra a testa alta nel suo passato, nei suoi conflitti familiari, nelle sue guerre, senza alcuna corazza. Coraggiosamente. Il tutto con il suo stile originale, fuori da schemi preconfezionati nel quale si passa, con nochalance, da un registro linguistico ad un altro e con l’uso sapiente di una lingua che risulta, ad ogni pagina, fertile, ricca e variegata. Il libro è inoltre intervallato da una trentina di fotografie  in bianco e nero che accompagnano e esplicano la lettura degli eventi narrati, ma che – in qualche modo- parlano da sole.

giovedì 15 marzo 2018

L'ALBERO DI GIUDA - Silvana Grasso


Il capitale

Titolo: L’albero di Giuda
Autore: Silvana Grasso
Editore: Marsilio
Anno: 2011
Genere: Romanzo
Pagine: 297



Una bella sorpresa questo romanzo perché vivace, frizzante, ironico, ma – a suo modo – anche triste e melanconico.

Sicilia, Bulalà. Alle sei e tre quarti del 15 giugno  Sasà Azzarello, arrivava, puntuale come sempre, alla cancellata della Villa Comunale. Lì, in quella Villa, luogo d’incontro con i suoi amici – o quasi amici, o forse per niente amici – il settantenne Sasà sente, ogni volta, il respiro del mare. Certo, non tutti potevano sentirlo quel respiro: bisognava averci l’anima, bisognava non essere bestiacce con il cervello crudo. Un’anima fine ci voleva, come la sua che non solo il respiro, ma anche il cuore del mare sentiva e ciò in barba alle amarezze che la vita gli aveva donato. E quelle bestiacce dei suoi amici, che di fine non avevano proprio nulla, figuriamoci l’anima, gli ripetevano quanto cretino fosse. No! Non era il mare quello: erano le ciminiere quelle che sentiva. Ma Sasà, intelligente com’era, lo capiva che erano solo degli invidiosi, in  particolare il logorroico Cataratta che ci moriva d’invidia. Ed era anche normale: Sasà è colto, laureato figlio del direttore didattico. Sasà che tutti a Bulalà, chiamavano il filosofo. Per sfotterlo, certo, ma filosofo lui lo era. E il vecchio settantenne ogni volta si riprometteva di non incontrarli quegli avvelenati di invidia , ma poi si ritrovava nel cancelletto della villa perché, in fondo, quei maledetti erano meglio della solitudine, sempre meglio dei ricordi della sua triste vita…

Pubblicato per la prima volta con Einaudi nel 97 poi con Marsilio nel 2011 L’albero di Giuda -tra l’altro vincitore del premio Napoli e del Premio Vittorini nel 1997 – è un romanzo ironico, frizzante, e surreale nel quale, con il veicolo della comicità e del paradosso, si affrontano tematiche forti. Sasà, il protagonista, ormai anziano, ripercorre gli anni della sua vita passata, marchiati dall’infelicità, per scelta propria e altrui, per destino, per mancanza di coraggio, per un arrendersi al corso degli eventi. Si parla di amore, quello grande di Sasà per la friulana, un amore contrastato dal padre, figura dominante, si parla del rapporto padre-figlio nel quale il genitore pretende, e si impegna alacremente in questo, per scrivere la vita del figliolo: decidendo, sin dalla nascita, il suo ruolo nel mondo, la sua intelligenza e, naturalmente, il possesso –tra le gambe – di quel preziosissimo “capitale” perché lui è figlio del direttore didattico!  Tutto nella norma in quella realtà descritta dalla Grasso nella quale la virilità è bene assoluto per quanto poi si tratti solo di virilità solo illustrata e decantata, ma mai dimostrata nel concreto nei fatti. A fine lettura rimane un senso di amarezza perché, alla resa dei conti, nessuno ha vissuto davvero la vita che voleva o, ancor peggio, nessuno ha compreso cosa effettivamente volesse dalla vita…ma, poi, volevano davvero qualcosa? Ampio spazio, in questo assurdo quadro, trovano i ripetuti e costanti pensieri di morte: Sasà, per tutta la vita, ha sognato il suicidio ponendo in essere tentativi sfioranti il grottesco. E solitudine tanta e, poi, la vecchiaia il decadimento, la sordità, i passi lenti, il balbettio. Il tutto narrato con toni comici, divertenti, amari con un uso largo del dialetto che colora e vivacizza.


giovedì 8 marzo 2018

LETTERE AD AMELIA ROSSELLI - Alberto Moravia


Limiti e sogni

Titolo: Lettere ad Amelia Rosselli
Autore: Alberto Moravia
Editore: Bompiani
Anno: 2010
Pagine: 366
Genere: Saggio 
Curatore: Simone Casini


Moravia mi riporta al passato, agli anni del liceo.
Infatti, in quegli anni, lessi tutti i suoi romanzi. Tutto nacque per caso quando presi nella biblioteca della scuola i due volumi dei Racconti e da lì, acquistai, piano piano, tutti i suoi romanzi che, gradualmente, allineavo nella mia piccola libreria. Certo, non mi son rimasti tutti nel cuore, ma Gli indifferenti, be’ Gli indifferenti è speciale.

Negli anni della sua tormentata adolescenza, spesso trascorsa a Cortina immobilizzato nel letto di un sanatorio, un giovane studia, scrive racconti, scrive poesie, e soprattutto scrive lettere a sua zia. Il giovane è Alberto Pincherle, meglio conosciuto come Alberto Moravia,  e sua zia è Amelia Rosselli, madre di Nello e Carlo. Scrive per parlare della sua solitudine, dei suoi studi, dei suoi progetti e dei suoi desideri troppo spesso accantonati a causa della tubercolosi ossea che lo imprigiona e gli impedisce di fare quei voli che ogni giovane desidererebbe. Lettere che, ad un certo punto si interrompono, precisamente da quel  funesto 9 giugno 1937, giorno in cui, a Bagnoles-de-L’Orne, i fratelli Rosselli vengono assassinati…

I Pincherle e i Rosselli, due famiglie profondamente diverse e fortemente unite da un sincero legame d’affetto. Due ambienti differenti, forse troppo rigido e poco stimolante quello dei Pincherle, ricco di sensibilità civile e preparazione politica quello dei Rosselli. Da queste sessanta lettere, curate da Simone Casini, emerge uno spaccato dei rapporti familiari di uno dei più grandi scrittori del novecento. 
Emerge, gradualmente, la sua crescita sia come uomo sia  come scrittore. Una adolescenza fatta di limiti tutti prevalentemente legati alla sua malattia che lo costringe a ripetuti ricoveri e all’immobilità forzata. Un giovane che cresce con una sensibilità fuori dal comune e che trova in Amelia Rosselli, donna intelligente e forte, uno stimolo a non arrendersi. Amelia, in qualche modo, è stata la sua musa ispiratrice ed è Moravia stesso a riconoscere come i suoi progressi, in gran parte, sono dovuti a questa donna che gli “ ha messo le ali”. È in questi anni che Moravia inizia a scrivere Gli indifferenti che sarà pubblicato nel 1929, all’età di ventidue anni, il suo romanzo realistico nel senso non di minuziosa descrizione degli eventi, ma di abile scavo compiuto al fine di comprendere le ragioni profonde dei fenomeni. Le Lettere ad Amelia Rosselli sono anche uno scorcio di storia italiana, dell’Italia dominata dal fascismo. E grazie soprattutto all’opera esegetica di Casini è possibile far luce - senza i luoghi comuni che spesso hanno accompagnato tale vicenda  - sul silenzio che Moravia serbò dopo il 9 giugno 1937 quando i suoi due cugini furono assassinati in Francia, su mandato del regime italiano. Accusato e biasimato per quel silenzio, tacciato di opportunismo, Casini ci permette di comprendere meglio la posizione dello scrittore e in particolare i suoi rapporti con i Rosselli e la sua “non-opposizione” al regime. Forse una sorta di diffidenza da parte di Moravia nei confronti dello stile di vita della famiglia dei cugini che in qualche modo vedeva come ingenui e sentiva, in modo contraddittorio, come gli antifascisti fossero perdenti. La sua vita familiare lo portava a una sorta di ribellione o di rivolta non certo alla lotta civile, inoltre si innesta un altro sentimento forse una sorta di risentimento verso quei cugini che lo prendevano un po’ in giro e lo consideravano un ragazzino. Certo è che la corrispondenza con la zia riprenderà dopo molti anni, quando Moravia, già adulto, cercherà di spiegare, in modo quasi laconico quel silenzio e il dolore per la perdita degli amati cugini. La  raccolta di lettere è accompagnata anche da alcune poesie giovanili che contribuiscono a fornici un ritratto ad ampio spettro di un grande intellettuale dello scorso secolo.

Leggi anche:
Le lettere mai arrivate, Mauricio Rosencof


lunedì 7 luglio 2014

FONTAMARA - Ignazio Silone

E poi più nulla

Titolo: Fontamara
Autore: Ignazio Silone
Editore: Mondadori
Anno: 1988
Pagine: 182


Son tornata sulle bellissime pagine di Fontamara dopo circa vent’anni . Un emozionante salto nel passato, un risentire profumi e sensazioni vecchie. Capita, però, che il vecchio e il nuovo si mescolino tra di loro e dalla loro unione nasca un sentimento molto vicino all’amarezza. È stato come percepire, oggi come ieri e forse come domani, quanto le cose, alcune cose, non siano destinate a mutare radicalmente. Spesso, nulla cambia. O cambia male.
I soprusi, pur mutando d’abito, a seconda del contesto storico o politico o sociale, rimangono in nuce identici. In eterno.
L’uomo è un lupo non nel momento in cui volge gli occhi allo specchio, ma nel momento in cui volge lo sguardo sui suoi simili. Vecchia massima e verità incontestabile.
Così i valori, se tali possono essere definiti, rimangono anch’essi immutati : sete di potere, di denaro, avidità che mostrano, incontrovertibilmente, la piccolezza di quel misero essere che è l’uomo.
Uomo essere dotato di…
Munito di…
Fornito di…
Superiore a... (sic)
Ma, in fondo, sempre pronto a sopprimere chi è più debole.
Altra verità dolorosa: l’incapacità, quasi innata, dei miseri di elevarsi, di riscattarsi, in quanto marchiati a fuoco con il simbolo indelebile della povertà. Nessun riscatto. Nessuna vittoria. Tutto è perduto.

Fontamara è un piccolo villaggio dell'Italia meridionale.
Un minuscolo puntino. Una piccola macchia d’inchiostro per i cartografi, ma un intero universo per i cafoni che ci vivono. Là c’è un mondo intero nel quale si dipanano vicende comuni a tutti gli esseri umani: nascite, morti, dolori, affanni, amori, lavoro, promesse, sogni.
Fontamara, da anni, da secoli, da sempre, è uguale a se stessa. La stessa pioggia, lo stesso vento, lo stesso cibo, la medesima miseria. E le ingiustizie.
Fontamarà è un universo a sé. Diverso dal resto del mondo. Isolato. Invisibile. Il ciclo vitale si muove sordo all'evoluzione, a qualsiasi tipo di evoluzione: scientifica, politica,economica, religiosa, sociale.
Paese invisibile in generale. Visibile in particolare. Le ingiustizie e i soprusi lo scorgono e lo catturano. È la sua condanna, da padre in figlio per giungere ai nipoti, ai figli dei nipoti e così via in una spirale della quale non si vede la fine.
E in questo microcosmo che pare dimenticato da Dio e da tutti i santi del paradiso, timidamente nascono, comunque, delle piccole fiammelle di ribellione. Nonostante nella gerarchia sociale i cafoni costituiscano l'ultimo anello della catena talmente distante dal primo che li rende, a dir poco, futili poiché , come Silone insegna
« In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo.
Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si può dire ch'è finito. »

E, nonostante, solo poco prima della fine ci siano questi miseri cafoni, germoglia l’idea e la voglia di ribellarsi a quel sistema che ha fatto dell’ingiustizia il suo manifesto programmatico.
Ai Fontamaresi viene tolta l’acqua necessaria per irrigare la loro fonte di sostentamento: la terra. Lì iniziano a lottare, a muoversi, a urlare, a volere un bene che ritengono di loro proprietà. Perché l’acqua è vita. Lottano per quella fondamentale risorsa naturale e raggiungono un accordo, grazie al sostegno del cosiddetto amico del popolo, un avvocato (che non fa onore alla categoria).
L'accordo, apparentemente, risulta equo. Maledetta ignoranza!
Infatti, l’acqua verrà ripartita con le seguenti modalità: tre quarti al ricco proprietario e gli altri tre quarti (?!)ai cafoni.
A questo ennesimo imbroglio ne seguiranno altri (l'acqua rimarrà di proprietà del ricco podestà " non per cinquant'anni ma per dieci lustri" - sic) che non impediranno, comunque, la presa di coscienza, seppur timida e non supportato da un adeguato sostrato culturale, dell’esistenza di diritti riconosciuti all’essere umano in quanto tale.
Presa di coscienza che culminerà, a titolo emblematico, con il sacrificio di Berardo Viola. Lo stile di Silone è semplice, essenziale, vicino alla lingua parlata. Infatti, lo scrittore abdica al suo ruolo di cronista, per far parlare i protagonisti, Giuvà, la moglie e il figlio che, da soli, divengono la voce di quel popolo che sono i cafoni di Fontamara.