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venerdì 4 ottobre 2019

L'ISOLA DEI PESCECANI - Paola Ravani


Di sogni e prigioni
Titolo: L’isola dei pescecani
Autrice: Paola Ravani
Editore: Einaudi ragazzi
Anno: 2019
Pagine: 156
Genere: Ragazzi
Età: dai 12 anni

"L'isola dei pescecani, affusolata e panciuta in lontananza, assomigliava a uno squalo con la bocca spalancata, pronto ad azzannare con i denti aguzzi chiunque si avvicinasse" (Incipit)
Due giovani fratelli, Ruben e Babila, vivono nell’isola blu. Hanno, come tutti nella loro terra, il terrore dell’Isola dei pescecani che si scorge in lontananza “mai dirigere la prua verso l’isola dei Pescecani” ripetevano, da tempo immemore, gli anziani. Un monito, quello. Una regola di vita. Un insegnamento da non trasgredire. Ma, nonostante ciò, i genitori di Babila e Ruben violarono quel precetto e si avventurano in mare, diretti verso l’isola del terrore, per non fare mai ritorno nella loro terra. Lasciando, sulla terraferma, due orfani. Ruben e Babila hanno sogni, tanti, ma paiono destinati, come tutti, a non poter mai abbandonare il luogo natio. Ruben dovrà fare il pescatore, così vuole la tradizione. Dovrà abbandonare il sogno di divenire musicista? E sua sorella Babila dovrà rinunciare al suo smisurato amore per i libri? Rinunciare a fare l’insegnante? Pare proprio di sì. Ma un giorno qualcosa di inaspettato potrà sconvolgere quegli equilibri….
L’isola dei pescecani ha il sapore e i profumi dei vecchi libri d’avventura che hanno costellato la nostra infanzia. Ruben e Babila ci conducono nel loro mondo, ristretto, nel quale comunque i sogni mettono radici. I due condividono la quotidianità nella loro isola avulsa dal resto del mondo, condividono il dolore per la perdita dei loro genitori. Attorno a loro ruota una serie di personaggi: amici, nemici, animi divorati dall’avidità, ma anche anime delicate e gentili, il tutto nella tradizionale dicotomia buoni-cattivi. Ma nell’intreccio narrativo domina su tutto la natura, con la sua fauna e il suo mare, madre e matrigna, selvaggia e buona e, in particolare, l’isola, intesa in senso fisico ma anche metaforico, isola che protegge, ma che può essere anche carcere.  La Ravani è riuscita, indubbiamente, a ben orchestrare una storia avvincente, all’insegna dell’avventura nella quale dominano il coraggio, la voglia – quasi la necessità – di un riscatto, ma anche all’insegna dei grandi sentimenti, dell’amore in senso lato, inteso come amore familiare, fraterno, come amicizia. Un romanzo ricco di forti messaggi sulla opportunità, talora, di non temere ciò che non si conosce, un invito a osare perché non sempre ciò che temiamo è davvero così orribile. Un libro sulla Natura, sulla crudeltà della medesima, ma – alla fin dei conti – in una ipotetica bilancia sarà sempre la cattiveria umana a superare quella della natura.


mercoledì 11 settembre 2019

VIVERE CON I LIBRI - Alberto Manguel

Amore

Titolo: Vivere con i libri
Autore: Alberto Manguel
Editore: Einaudi
Anno: 2018
Genere: Saggio letteratura
Traduzione: Duccio Sacchi
Pagine: 128

La sua ultima biblioteca, composta da trentacinquemila volumi, si trovava in Francia, a sud della Loira, in un granaio adibito appunto a biblioteca all’interno di una antica canonica in pietra. Erroneamente aveva pensato come, una volta sistemati i libri, anche lui avrebbe trovato il proprio posto: i fatti, invece, lo smentirono quando dovette abbandonare la Francia per trasferirsi in America e, di conseguenza, imballare di nuovo quei libri e fare una selezione. La biblioteca francese ospitò i suoi libri per quindici anni e fu organizzata in base a mere “esigenze e pregiudizi personali”. In quegli scaffali non mancavano anche i libri brutti che, appunto, conservava qualora gli fosse servito un esempio di libro brutto! Nella sua vita ha sempre avuto una biblioteca personale. La prima, a due, tre anni, era una mensola affissa sopra il suo letto, a Tel Aviv, poi a Buenos Aires, in età adolescenziale, e a Londra, a Milano, a Tahiti. Ma cos’è, in fondo, una biblioteca? Indubbiamente, un luogo di memoria e ogni volta che, dalle casse, si estraggono i libri si crea un rituale di rimemorazione, in quel momento si evocano, per dirla con Benjamin “non pensieri, ma immagini, ricordi”. Al contrario, mettere i libri negli scatoloni è un esercizio di oblio. Le biblioteche contengono pezzi noi, sono autobiografiche e, imballarle, in qualche modo, significa redigere il necrologio di noi stessi…

Alberto Manguel, scrittore e bibliotecario argentino nonché lettore e amico di Borges, racconta, in queste gradevoli pagine, di quel momento della sua vita in cui si è trovato, causa l’ennesimo trasloco, a dover lasciare la Francia e, quindi, a dover imballare i numerosi volumi della sua biblioteca che credeva, una volta tanto, definitiva. Troviamo il suo universo tutto incentrato su un incommensurabile amore per i libri strumenti fondamentali strumenti di conoscenza del mondo. Manguel parla di se, della sua infanzia, della sua devozione alle biblioteche che, nel corso degli anni, ha costruito, della sua ritrosia a prestare i libri, delle modalità di catalogazione dei libri improntate a criteri del tutto personali, confessa la sua predilezione per la sezione dedicata ai dizionari che, come per tutti quelli della sua generazione, sono stati, in fase giovanile, oggetti magici sia perché, in essi, era contenuta la totalità del linguaggio comune sia perché essi contenevano una risposta a ogni domanda. Un’ode alla biblioteca che si traduce, di fatto, in una appassionata dichiarazione d’amore eterno alla parola scritta, a quei volumi contenenti sempre “promesse di conforto” ma anche possibilità di conversazioni illuminanti intervallata da piacevoli digressioni ruotanti sempre intorno al mondo delle lettere, della scrittura e degli scrittori.


giovedì 29 agosto 2019

IL NOSTRO PRIMO, SOLENNE, STRANISSIMO NATALE SENZA DI LEI - Franco Stelzer

 Cucinar ratti

Titolo: Il nostro primo, solenne stranissimo natale senza di lei
Autore: Franco Stelzer
Editore: Einaudi
Anno: 2003
Genere: romanzo
Pagine: 126 


Era il primo Natale che trascorrevano senza di lei. Entrarono con quel grosso tacchino, con un rametto di rosmarino infilzato nel buco del culo, con le cosce ornate da ciuffetti di carta, bellamente adagiato su un vassoio colmo di patate. Così lo presentarono alla tavolata dei parenti. Ma quel tacchino, dal prominente ventre, non era ben cotto, anzi era proprio crudo… Avevano la loro postazione: un buco aperto, faticosamente, in un pannello. E, con desiderio, attraverso quell’ingegnoso foro, osservavano le imprese erotiche della loro zia. C’era l’emozione, ma anche la paura di essere scoperti che, sicuramente, avrebbe comportato, l’immediato loro trasferimento in un collegio o in un istituto penale! Ma quel giorno in quell’alcova succedeva qualcosa di nuovo: la zia urlo, al suo uomo, “basta!”. E lui, lo spione, ebbe, per la prima volta, un pensiero filosofico: tutto finisce… Problema: come si cucina un ratto? Lo si lascia prima in salamoia? O lo si griglia fresco, fresco? Bisogna impanarlo? Suo zio riteneva che i ratti fossero buoni in tutti i modi…Dopo lunghe trattative con i proprietari presero in affitto la casa al mare. Rispolverarono le stoviglie, fu fatta la spese e si passò alla distribuzione delle stanze. A lui toccò lo zio e, dal suo leggero odore di colonia, il ragazzo comprese come, in quella settimana, sarebbe accaduto qualcosa di interessante…
Franco Stelzer affida alla voce e agli occhi dei bambini il compito di narrarci nove storie per dipingerci il loro mondo. Un mondo variegato e ricco nel quale trovano spazio emozioni, sentimenti diversi, ilarità, stupore, curiosità. Ci sono bambini che acquistano e cucinano un tacchino “per salvare la loro solitudine”, per riempire il vuoto di quel primo Natale senza un affetto. Bambini che si pongono grandi e piccole domande: come il capo fa la pipì. Bambini che danno voce a ricordi comuni a tutti: un panino in spiaggia, la sabbia sulle mutande. Quei ricordi, insomma, che hanno carattere universale esattamente come quel momento, quasi inevitabile, nel quale amaramente si comprende come certe cose non potranno più ritornare, alcune persone ci lasceranno, certi sapori – anno dopo anno – saranno sempre diversi. Perché tutto finirà travolto da una cappa di nebbia, tutto si offuscherà nell’esatto momento in cui si comprenderà come ogni cosa è destinata a finire. E rimarrà, sempre e comunque, quel filo di nostalgia a ricordarci che quel passato, fatto di nonni, di zie eroticamente attive o di zii che si mangiavano topi, è davvero esistito e, in parallelo, cresca il numero dei Natali con sempre più “senza”.


venerdì 23 agosto 2019

SEMPRE CARO - Marcello Fois

Titolo: Sempre caro
Autore: Marcello Fois
Editore: Einaudi
Anno: 2015
Genere: Romanzo
Pagine: 100

Si diceva che Bustianu, dopo pranzo, stesse andando a fare una passeggiata: il “sempre caro”. Così la chiamava, proprio come la poesia di Leopardi. E con “sempre caro” egli non intendeva il colle, intendeva proprio prendersi un po’ di fresco in altura e godersi il panorama. Si diceva che Bustianu fosse pensieroso e ciò poteva solo significare che avesse tra le mani una causa complessa e che, pare, non volgesse al meglio. Stava difendendo un giovane, Zenobi, bello come il sole che si era messo nei guai: accusato di aver derubato degli agnelli per poi rivenderseli. E nulla, quella causa non andava proprio bene, dato che il giovine si era dato alla latitanza. E, no, ripeteva zia Rosina, madre di Zenobi, che non poteva aver fatto una cosa simile suo figlio: lei lo conosceva bene. E poi, c’era anche la storia di Sisinnia, bella come una madonnina, e pare che tra lei e il giovane latitante ci fosse del tenero. E pare ancora che il padre di lei, della madonnina, fosse pure contento di quella simpatia tra i due. E allora, perché Zenobi avrebbe dovuto rubare gli agnelli proprio a Casula Pès, padre di Sisinnia? Perché?...

Sempre caro fa parte del progetto letterario di Marcello Fois mirante a creare una saga con personaggio fisso e di cui costituisce il primo volume, seguito da Sangue dal cielo e L’altro mondo, tutti editi da Einaudi. Il protagonista Bustianu trova la sua origine in un personaggio realmente esistito: il grande avvocato, poeta e intellettuale nuorese Sebastiano Satta. La storia raccontata rispecchia lo schema tipico del giallo: delitto-indagine- individuazione del colpevole, ma si arricchisce di nuovi elementi tanto da potersi indubbiamente definire un giallo atipico che fuoriesce da quelli che sono i rigidi confini di tale genere. Un romanzo di più ampio respiro quindi, innovativo sia per l’impianto narrativo sia, e soprattutto, per lo stile e per l’uso attento e originale della lingua utilizzata dall’autore. In primis, risulta strutturata su più voci che si alternano senza sovrapporsi: un primo narratore che ci presenta Bustianu; Bustianu stesso che ci racconta la storia dal suo punto di vista e, infine, un terzo narratore. Voci con tre registri narrativi diversi e che, talora, attingendo all’oralità, tessono un romanzo intricato, poetico, con bellissime descrizioni che restituiscono immagini di paesaggi agresti, ma anche riflessioni sulla società sarda dell’ottocento, sul ruolo-missione dell’avvocato, sul concetto di giustizia. Su tutto domina la lingua utilizzata da Fois: si passa da interi periodi in sardo a singoli lemmi e anche, traduzioni letterali in italiano, di modi di dire o espressioni tipicamente sarde. Un romanzo sui generis come lo definisce Camilleri nella prefazione che, nel concentrarsi sul concetto di lingua dell’autore, richiama, a proposito, le parole di Sergio Atzeni: “quando cerco una parola che abbia un suono diverso, che porti a una specificazione più precisa, uso il sardo. Credo che questo sia il contributo che ogni etnia regionale dovrebbe portare”.

sabato 20 aprile 2019

STORIE DI PRIMOGENITI E FIGLI UNICI - Francesco Piccolo

Dal lato della strada


Titolo: Storie di primogeniti e figli unici
Autore: Francesco Piccolo
Editore: Einaudi
Anno: 2015
Genere: Racconti
Pagine: 128

Quando era piccolo, su indicazione della madre, doveva tenere suo fratello per mano: cosa buona e giusta, per carità! Un po’ più strano, però, era il fatto che la madre precisasse come lui, in quanto fratello maggiore, dovesse stare dal lato della strada dove, guarda caso, passavano le macchine… Ah, le caramelle Charms! Un tempo, prima che togliessero loro i coloranti, studiava con Francesca, con quelle caramelle arcobaleno sulla scrivania e, di tanto in tanto, ne mangiavano una, scegliendone con cura il colore. Inevitabilmente arrivava il momento nel quale litigavano: l’ultima charms al lampone. Poi tutto si sbiadì, tutte uguali, tutte beige. Ma questo accadde dopo… Santino aveva otto anni quando, con la sua famiglia tornò dall’Africa. E il primo periodo, il piccolo, a ogni risveglio, credeva di sentire sua madre dire “vai a prendere l’acqua dal pozzo.” Poi si ricordava di essere in Italia, si ricordava che tutto era diverso… Chi abita al Sud dimentica gli ombrelli. Quelli del Sud si sorprendono quando piove, non hanno dimestichezza con la pioggia. E anche lui, puntualmente, dimenticava gli ombrelli. Continuava a disseminare ombrelli per la città, nonostante sua madre gli ripetesse sempre di stare attento. Ma lui non poteva farci niente….

Nove sono i racconti che compongono questa esilarante raccolta data alle stampe, per Feltrinelli, nell’anno 1996 e che segna la data dell’esordio narrativo di Francesco Piccolo. Nove piccole grandi storie, nove “debutti nella vita” come li definisce lo stesso autore, accomunati dal tema dell’essere figli unici o primogeniti, con le annesse sfortune e fortune del caso. Con il suo stile ironico, divertente e indubbiamente trascinante, l’autore ci apre le porte al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, prendendo spunto da eventi comuni, quotidiani che, senza mai cadere nella banalità, di fatto ci inducono talora a riflettere, talora a sorridere, talora a immergerci in episodi della nostra infanzia. Sì, perché è questo che fa Piccolo: scegliere e catturare piccoli dettagli, all’apparenza non rilevanti, e costruirci su delle belle storie, infarcendole con una buona dose di ilarità e che, alla fine, e inevitabilmente rimangono nel cuore. Nove storie che colpiscono e che regalano, seppur in misura diversa qualcosa: alcuni nostalgia, altri malinconia, altri risate. E, a fine lettura, si ha la sensazione di quanto, in fondo, sia bello ricordarsi delle colorate charms o riportare alla memoria compagni di classe che, magari, avevamo dimenticato, come gli ombrelli di uno dei raccaonti,  o anche solo ricordarsi che siamo stati bambini., prima che tutto assumesse quel monotono colore beige.

martedì 24 aprile 2018

QUANDO ERAVAMO ORFANI - Kazuo Ishiguro


Titolo: Quando eravamo orfani
Autore: Kazuo Ishiguro
Editore: Einaudi
Anno: 2017
Genere: Romanzo
Pagine: 332
Traduzione: Susanna Basso

Ishiguro si rivela sempre scrittore raffinato, anche se – a onor del vero – questo romanzo, pur pregevole, l’ho trovato, in alcuni punti, poco convincente, ingenuo quasi

Nell’estate del 1923 il giovane Christopher Banks, dopo aver terminato gli studi a Cambridge, decise di stabilirsi a Londra, nonostante la zia lo volesse con sé nello Shorphire. Il suo sogno, coltivato fin dall’infanzia e simbolicamente rappresentato da una lente di ingrandimento che i compagni di scuola gli regalarono anni addietro e dalla quale mai si separerà, di divenire investigatore, è ora una realtà. Piano, piano il suo nome diviene noto grazie ai casi che, man mano, risolve. I misteri e la ricerca della verità sono i suoi obiettivi principali. Già, i misteri. Uno in particolare. Uno che riguarda la sua famiglia, la sua infanzia. È quello il mistero che lo ossessiona. Perché tutta la sua esistenza pare non riuscire a smuoversi davvero, ad avere un senso, fintanto che non comprenderà le ragioni vere per le quali i suoi genitori furono rapiti a Shangai. Da quello strano rapimento derivò il suo viaggio, ancora bambino, verso l’Inghilterra, presso la zia. Ma lui ha deciso che tornerà lì, a Shangai, troverà il nascondiglio nel quale si trovano i suoi genitori, rivedrà il suo amico d’infanzia, Akira, perché è certo, il nostro Bansk che Akira si trovi ancora lì visto che ne era innamorato. Sarà quella la sua indagine più importante e seria della sua vita…
Kazuo Ishiguro insignito, lo scorso anno, del Premio Nobel per la letteratura, ancora una volta   conferma, con questo romanzo, la maestria, la delicatezza e la raffinatezza della sua scrittura sempre precisa, attenta e priva di sbavature.. Non ci sono grandi eroi tra le pagine, ci sono personaggi che vagano, ancorati a un passato che non hanno ben inquadrato, che errano con una bagaglio fatto di sogni, di paure, di desideri, tanti desideri. E quello di vagare, senza avere una dimora fissa, pare essere il destino di chi, come il protagonista, ma anche come Jennifer, è orfano: chi è orfano non ha una dimora, continua a cercare, indizi, verità, per colmare vuoti, per ricostruire, a piccoli passi, frammenti di vita passati divenuti, con il tempo, sfumati, poco precisi. Tale ricerca, quasi ossessiva, accompagna il giovane Bansk che vive nel presente, ma è sempre proiettato nella sua infanzia, nei ricordi, come se non avesse un’epoca, un posto suo. Per quanto si resti affascinati dalla bellezza della scrittura, per quanto il tema di fondo sia appassionante, non mancano delle ingenuità, delle coincidenze improbabili oltre che dei colpi di scena poco credibili, se non proprio irreali che, di fatto – è spontaneo il confronto – rendono quest’opera distante da Quel che resta del giorno, che conserva intatto il podio.


venerdì 20 aprile 2018

LEGGENDA PRIVATA - Michele Mari


"Nacqui in inverno"

Titolo: Leggenda privata
Autore: Michele Mari
Editore: Einaudi
Genere. Romanzo
Anno: 2017
Pagine:171


Leggenda privata è il primo romanzo che leggo di Michele Mari, autore che mi ha sempre incuriosito tanto. Sono rimasta folgorata dallo stile di Mari tremendamente originale, alto, mutevole. Rimane impresso senza dubbio.

Nacqui d’inverno, al nostro discontento. Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine; la bio-vita, la polpa; il mondo, il deserto, ove tallotta uno scorpio, un crotalo, un formicaleone; oppure il sitibondo che ti amputa e scortica per succhiarti la fibra: «Ma prendi i miei fiori» gli dici col pensiero, «alliétati di quella fragranza»: macché, vuole attingere al bio, colui, né più né meno degli Accademici; e tu resti poi monco, fiorito ma monco, e ludibrio alla famiglia dei cactus e degli alberi tutti. (incipit)

Alla mezzanotte lo scrittore Michele Mari è stato convocato nella Sala del Camino. Era buio, ma lui sentiva la presenza di tutti loro. Quello che Gorgoglia gli ha chiesto la sua autobiografia. Ma come la mettiamo con l’altra autobiografia già commissionatagli, la settimana precedente, dall’Accademia dei Ciechi? E no! Ha precisato Quello che Gorgoglia: questa dovrà essere diversa, totalmente nuova e solo un fatto potrà essere ripetuto: l’essere egli nato da un amplesso abominevole. “Scrivi” continuano a ripetergli. E il povero Michele ha paura, ha il sospetto che potrebbero anche affidare l’intera faccenda a Quella dalle Orbite Vuote e questo proprio non lo sopporterebbe. Proprio no. E scrive della sua nascita, avvenuta in inverno, otto mesi dopo il concepimento e il numero otto, si sa, è simbolo di aberrazione. Ma egli non fu mostro, però fu mostruoso fu il rapporto che intrattenne con se stesso. Poi di cosa potrebbe parlare per rimanere nel concetto di “bio”? Di Ovidio il bidello? O dello studio o del fatto che egli fu cupo e spinoso come un cactus e produsse dei fiori cibandoli delle sue stesse polpe? E tutti quei grumo-nodi irrisolti? Il grumo-nodo padre? Il grumo nodo madre?...

"Il fatto è che scrivo al ribasso. Non invento, non enfatizzo: grado della mitopoiesi molto vicino allo zero. Semmai ometto, attenuo, eufemizzo. Ma questi mostri vogliono il carnevale, l’euforia della forma: per cogliermi lì, ignudo sotto un travestimento così sfarzoso da non poter diventare una seconda pelle. L’idea è che l’ingombro del travestimento sia tale da trasformarsi in una prigione." (Pag. 99)

Michele Mari torna in libreria con una autobiografia definita horror. In uno scenario tra il fantastico e il grottesco, l’autore scava nel proprio passato, per affrontare paure e mostri più o meno malvagi. E sono proprio gli anni della giovinezza – tema peraltro non nuovo nelle opere del Mari – quelli nei quali si trova precipitato, per merito o colpa degli Accademici, per impelagarsi nel suo labirintico passato di dubbi, fobie, ma anche amore e cercare di dipanare quelle matasse – o meglio grumo nodi – da cui ha origine la sua natura quasi scissa: una madre la cui divisa era la tristezza e un padre, il noto designer Enzo Mari, ingombrante e immenso.  È un romanzo crudo, ma anche crudele, feroce, senza orpelli nel quale l’autore si trova a fare i conti con la sua infanzia perché benché, come il medesimo ha dichiarato “piena di traumi e di lutti” rimane per lui la “cosa più significativa”  che ha vissuto. E le sue parole colpiscono e feriscono perché prive di addolcenti, di anestetizzanti neppure blandi. Entra a testa alta nel suo passato, nei suoi conflitti familiari, nelle sue guerre, senza alcuna corazza. Coraggiosamente. Il tutto con il suo stile originale, fuori da schemi preconfezionati nel quale si passa, con nochalance, da un registro linguistico ad un altro e con l’uso sapiente di una lingua che risulta, ad ogni pagina, fertile, ricca e variegata. Il libro è inoltre intervallato da una trentina di fotografie  in bianco e nero che accompagnano e esplicano la lettura degli eventi narrati, ma che – in qualche modo- parlano da sole.

giovedì 13 luglio 2017

LA SCENA PERDUTA - Abraham B. Yehoshua

Dentro la metafora

Titolo: La scena perduta
Autore: Abraham B. Yehoshua
Editore: Einaudi
Anno: 2011
Pagine: 367
Genere: Romanzo
Traduzione: Alessandra Shomroni


Intimistico, metaforico, ossessivo, simbolico, come viaggiare in un sogno i cui contorni non sono, né possono essere, mai netti. Aspramente criticato dagli amanti dell’autore, La scena perduta è stato, per me, una bella esperienza nella quale mi son piacevolmente persa in astratti e complessi meandri.

Spagna, Santiago de Compostela. Il regista israeliano, Yair Moses, nonostante l’età avanzata, si reca in Spagna per una retrospettiva dei suoi film. Ad accompagnarlo c’è Ruth, attrice, ancora ricca di grazia e di fascino, un tempo compagna di Shaul Trigano, suo sceneggiatore e, ora, divenuta “un personaggio affidato a lui”. Nei confronti della donna l’anziano regista ha dei riguardi particolari: è ignara del fatto che non avrà nessuna parte nel suo prossimo film. Inizia la prima giornata della retrospettiva e i due decidono di concedersi qualche ora di riposo nella lussuosa camera dell’hotel, prima che la situazione diventi troppo movimentata. E mentre Ruth dorme ancora, il regista osserva con attenzione una riproduzione alla parete: una giovane donna, col seno scoperto, allatta un vecchio muscoloso con  le mani legate dietro la schiena, un prigioniero forse. Scruta meglio per cercare il nome dell’artista, ma non lo trova, ci sono solo due parole: Caritas Romana. E ricorda la scena del suo film, la scena che Trigano scrisse e che Ruth fermamente rifiutò: no, non poteva rappresentare una donna che allattava un uomo. E quella scena fu tagliata, e quella scena perduta determinò la rottura tra Ruth e Trigano e l’allontanamento definitivo tra lo sceneggiatore e il regista…

L’israeliano Yehoshua non ha certo bisogno di presentazioni e con La scena perduta conferma ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, la sua grande abilità di scrittore. Risulta quasi automatico, nel corso della lettura, fare un’associazione tra il regista protagonista e lo scrittore stesso per quanto, infatti,il romanzo non sia totalmente autobiografico è vero che nello stesso, come ha dichiarato lo stesso autore, ci sono parti che in qualche modo sono sue: tanto per dirne una, i primi film di Moses riprendono due suoi racconti giovanili  – precisamente, L’ultimo comandante e Il rapido seerale di Yatir. Moses si ritrova a fare il famoso bilancio, a recuperare volti, immagini e suoni, quasi – il suo- un voler (o dover) tornare indietro nel tempo a recuperare qualcosa o qualcuno, a riprendere quella scena perduta che forse, noi tutti, abbiamo. Lontano dal realismo La scena perduta è un susseguirsi di simboli, di immagini evanescenti, di percorsi tutti a ritroso in un mondo in cui gli aspetti astratti e onirici meritano un posto d’onore. Forse abbiamo bisogno di ciò? Di simboli, di cose astratte, di metafore? E la risposta la dà lo stesso autore: Sì, ne abbiamo bisogno per fronteggiare la situazione che abbiamo intorno.


sabato 8 luglio 2017

VELVET - Mary Gaitskyll

Amori vetrosi

Titolo: Velvet
Autore: Mary Gaitskill
Editore: Einaudi
Anno: 2017
Pagine: 480
Genere: Romanzo
Traduzione: Maurizia Balmelli


Il romanzo prende il titolo dal nome della piccola protagonista. Una bambina che vive una realtà poco, se non per niente, ovattata che conosce a fondo la durezza della vita. Una bimba alla quale la vita riserva un’opportunità. Uno stile efficace quello della Gaitskill che, a tratti, mi ha ricordato le atmosfere cupe e alcuni dei personaggi presenti dei racconti di Lucia Berlin. La vita è dura, pare dire l’autrice, ma è l’unica che abbiamo. E no, non esiste solo un tipo di amore: l’amore può assumere forme diverse. Può essere anche non ammantato di gentilezza, può essere duro, iroso, vetroso, ma è pur sempre amore. 


Crown Heights, Brooklyn. Era estate quel giorno, faceva molto caldo nella loro stanza. Dal condizionatore, rumoroso, cadevano gocce d’acqua che andavano a posarsi sulla bacinella. Velvet, undici anni, si sveglia come sempre: incollata alla schiena di sua madre che, a sua volta, abbraccia suo fratellino, Dante. Quel giorno i due bimbi dovevano salire in un pullman che li avrebbe condotti, per due settimane, da dei ricchi bianchi. Sarebbero stati separati. Solo per due settimane. La mamma doveva lavorare, spesso anche la notte, e non poteva farli finire in mezzo a una strada, poi il posto dove loro vivono è pieno di negritas cattive: tutto questo disse la mamma all’assistente sociale. Ginger ha 47 anni, sembra giovane, forse perché non ha mai avuto figli, forse perché non ha fatto carriera. Lei e suo marito Paul, conosciuto agli alcolisti anonimi, si occuperanno di Velvet. Per quelle due settimane. Il primo giorno propongono alla bimba di andare a vedere i cavalli che si trovano a due passi da casa loro. Arrivano alla scuderia, odore forte, molti cavalli e lei, la piccola dominicana, sente le loro voci. E tra quei cavalli, quelle voci che solo la piccola può comprendere incontra una cavalla pieno di cicatrici, La Mostruosa la chiamano. Non era la più bella, ma la migliore, pensò Velvet.

Velvet è il terzo romanzo dell’americana Mary Gaitskill, conosciuta anche come la scrittrice “ maledetta” per i temi, spesso forti, trattati nelle sue opere e anche per il suo passato movimentato: la stessa ha fatto di tutto, la fioraia, la spogliarellista e finanche la prostituta. Costruito con un’alternanza di voci, Velvet è un romanzo di forte impatto emotivo nel quale i protagonisti paiono portarsi dentro degli enormi vuoti che, nonostante tutto, cercano di colmare. A volte, senza saperlo. Cercano, perdono, si perdono, si ritrovano, in una corsa disperata per non sentire più l’eco di dolori e solitudini diverse, ma tutte imponenti. E quella corsa assume le forme di un’arrampicata verso vette che, a momenti, paiono irraggiungibili perché nessuno, in fondo, crede di meritarsi qualcosa. Per paura, per l’abitudine a non avere nulla di buono da stringere tra le braccia. Altalenante come la vita: alla durezza segue la tenerezza poi soppiantata dal cinismo. Per poi ricominciare. In fondo, è tutto amore. Fuori dagli schemi, fuori dalle rime baciate e dal caldo di abbracci. Amore è il legame che unisce Velvet alla sua cavalla, amore è quello che Ginger prova per la bimba che assume i foschi colori dell’egoismo e, ancora, amore è quello che prova la madre di Velvet per sua figlia e che assume la forma di parole violente, di minacce, di urla o di silenzi grevi.  Una storia al femminile dove forse nessuno capirà quale sarà il suo posto, forse perché un posto non c’è: rimane sempre la voglia di riscatto, la sete di qualcosa di buono e la speranza che, a nessuno, alla fine viene negata.

Altri libri:
L'estate di Ulisse Mele, Roberto Alba
L'autistico e il piccione viaggiatore, Rodaan Al Galidi
Monsieur Ibrhaim e i fiori del Corano, Eric Emmanuel-Schmitt
Montedidio, Erri De Luca
Terremoto, Chiara Barzini

sabato 6 maggio 2017

LA DONNA È UN'ISOLA - Audur Ava Ólafsdóttir


Di oche e altre storie 



Titolo: La donna è un’isola
Autore: Audur Ava Olafsdóttir
Editore: Einaudi
Anno: 2014
Genere: Romanzo
Traduzione: Stefano Rosatti
Pagine: 261


Islanda. Ci sono giornate che iniziano in modo strano e terminano ancora peggio. Quel giorno una giovane traduttrice investe con la sua macchina un’oca e, sollevata per il fatto che non si tratti di un bambino, la carica in macchina per cucinarla. Subito dopo, sale al terzo piano di un condominio dove abita il suo amante. Ha fretta: deve comprare il contorno per l’oca. Quello sarà l’ultimo incontro con quell’uomo. Un piccolo salto dalla medium la quale le ricorda come non sarebbe una cattiva idea giocare alcuni numeri al lotto. Lei, in seguito, li giocherà e vincerà per ben due volte. Torna a casa e suo marito le comunica che sta per diventare padre. Già, lui e Nina Lind la centralinista del suo ufficio, avranno presto un bambino. Ma, si sa, come “le grandi decisioni si prendono in un secondo” invece per la tinta delle pareti nel corridoio lei e suo marito non riuscirono mai a trovare, in cinque anni di convivenza, un accordo…

La casa editrice Einaudi, dopo il grande successo di Rosa candida aggiunge  al suo catalogo anche La donna è un’isola dell’autrice islandese Olafsdóttir la quale, anche in questo romanzo, affronta il tema del viaggio. Stavolta la protagonista viaggerà, dopo la fine del suo matrimonio (senza troppi traumi, a dire il vero), con un bambino di quattro anni, Tumi, figlio della sua amica. Un bimbo un po’ particolare, un po’ sordo, con qualche problema di linguaggio. Quel viaggio verso l’est sarà una sorta di terapia per la protagonista, un’occasione per guardarsi dentro, per comprendere. Certo, l’idea è buona, ma manca quella delicatezza e quel fascino che, invece, erano tutti presenti in Rosa candida risultandone un romanzo a tratti claudicante. Da segnalare come nelle ultime pagine vi sia una sorta di ricettario (compresa la ricetta dell’oca, ovviamente) che vale la pena di leggere per la carica ironica in esso contenuta.

venerdì 5 agosto 2016

GRANDE SENO, FIANCHI LARGHI - Mo Yan

Non solo tette

Titolo: Grande seno, fianchi larghi
Autore: Mo Yan
Editore: Einaudi
Anno: 2006
Pagine: 899
Traduzione: Giorgio Trentin
Genere: Romanzo

Un romanzo di ampio respiro, impegnativo e non solo per la mole. Una saga familiare che è anche la storia della Cina e cattura, affascina e appassiona. Un abile narratore Mo Yan capace di usare con maestria le parole per creare immagini, suoni e profumi. Ottima lettura.

Nella provincia orientale dello Shadong, in un villaggio rurale nei pressi di Gaomi, la giornata si presenta ricca di eventi. Innanzitutto, Shangguan Lu sta per partorire e nella sua famiglia ci si augura che, dopo sette femmine, il nascituro sia finalmente un maschio inoltre, durante il travaglio, è giunta la notizia che annuncia l’imminente arrivo dei diavoli giapponesi. Ma questi eventi, per la famiglia Shangguan, sono ben poca cosa rispetto all’altro parto che si sta svolgendo con molte difficolta nella stalla vicina: quello dell’asina nera. Alla fine, Shangguan Lu riuscirà a partorire due bimbi: una femmina affetta da cecità e il tanto agognato maschietto che sarà chiamato Jintong, il bimbo d’oro, il bimbo dai capelli biondi nato da una relazione clandestina di sua madre con il prete svedese Ma Luoya…

Attraverso la storia della famiglia Shangguan il premio Nobel 2012, Mo Yan, disegna una saga familiare che ripercorre quasi tutto il XX secolo della storia cinese: dalla società feudale degli anni trenta, all’invasione giapponese, a Mao fino all’odierno capitalismo.  Al centro della narrazione è la figura di Shangguan Lu, descritta dalle parole di Jintong che è voce narrante, la quale rappresenta la Madre capace di infondere non solo l’afflato vitale, ma anche e, nonostante tutto, di proteggere, di dare nutrimento e combattere una lotta quotidiana per la sopravvivenza dei suoi figli. Una figura quasi monumentale alla quale fa da contraltare Jintong, personaggio bizzoso e viziato, morbosamente legato al seno materno fino all’adolescenza e chiuso nel suo continuo – e quasi unico- impegno a soddisfare i suoi bisogni egoistici. Con uno stile che mescola abilmente realismo, crudezza e aspetti tragici con toni grotteschi e quasi poetici se non magici lo scrittore cinese dimostra le sua grandi doti affabulatorie grazie anche al lessico ricco e variegato e la certo non comune capacità di rendere quasi tangibili le immagini, acuti e talora gravi i suoni e inebrianti i profumi delle storie narrate.

mercoledì 27 luglio 2016

FINZIONI - Jorge Luis Borges

Datemi un labirinto e lasciatemi lì


Titolo: Finzioni
Autore: Jorge Luis Borges
Editore: Einaudi
Anno: 2004
Pagine: 154
Genere: Racconti
Traduzione: Franco Lucentini

Arricchisce, confonde, apre la mente, l’immaginazione, fa sognare. Tutto questo è Borges, l’immenso Borges. Difficile parlarne, difficile dire tutto ciò che la lettura dei suoi libri mi lascia ogni volta. Tanto, certo, ma indefinibile. Finzioni è una meravigliosa raccolta di racconti che riesce a trasportarci quasi in un’altra dimensione, in un mondo diverso che, a sua volta, potrebbe essere il riflesso di un altro mondo ancora che non avevamo considerato. Tutto può essere: anche il contrario di tutto. Aprire le porte a Borges ed entrare nei suoi labirinti è quanto di meglio abbia fatto da quando ho iniziato a leggere.

A notte fonda, si scoprì la mostruosità posseduta dagli specchi. Infatti “gli specchi come la copula sono abominevoli poiché moltiplicano il numero degli uomini”: questa frase riportata da Bioy Cassidy fu pronunciata, a suo dire, da un eresiarca di Uqbar. Ma come mai l’Enciclopedia Britannica non parla di Uqbar?  Sarà la scoperta, fortuita, di un volume dell’Enciclopedia di Tlon a chiarire il mistero e scoprire un mondo nuovo… Nel ’32 esce, a Bombay, stampato su carta che pareva quasi di giornale il primo romanzo poliziesco il cui protagonista, giovane studente, dedica la sua vita alla ricerca di un’anima attraverso i riflessi che ha lasciato nelle altre… Esiste un’opera incompiuta e sotterranea di Pierre Mènard: Il Don Chisciotte. Mènard non intendeva affatto scrivere un altro Don Chisciotte che si affiancasse a quello di Cervantes, egli voleva proprio scrivere il Chisciotte producendo pagine che, parola per parola, coincidessero. Voleva essere Cervantes… Un uomo taciturno proveniente dal sud sbarca con la sua canoa di bambù, bacia la terra, si arresta in prossimità delle rovine di un tempio. Si addormenta. Sogna di trovarsi al centro del tempio e di dettare, ad un collegio di studenti, lezioni di anatomia, cosmografia e magia. Un giorno capisce di non aver sognato e, infine, comprende che lui era solo una parvenza e che un altro lo stava sognando… A Babilonia ogni momento della vita dei cittadini è deciso da un sorteggio effettuato da una Compagnia il cui precipuo compito è quello di stabilire l’ordine… L’Universo è formato da una infinita Biblioteca, suddivisa in esagoni e che contiene tutti i libri pensabili che, a loro volta, sono costituiti  da tutte le possibili combinazioni delle 22 dell'alfabeto, del punto e della virgola…
I quattordici racconti contenuti in Finzioni suddivisi in due parti – Il giardino dei sentieri che si biforcano Artifici - sono stati pubblicati in Argentina nel ’44 e l’edizione Einaudi ce li offre con la traduzione curata da Lucentini che, in nota, sottolinea di aver rivisto la traduzione del ‘55 in modo da renderla più “spagnoleggiante e letterale”. Non si può dimenticare come per Borges il racconto fosse la forma letteraria perfetta poiché analogamente alla poesia il racconto ha la capacità di concentrarsi sull’essenziale. In queste parole pronunciate dall’autore nel corso di un’intervista, emerge quel legame tra società attuale e racconto: una società in movimento, basata sulla velocità della comunicazione che non si presta ai prolissi romanzi che richiedono tempo e comporterebbero un inaccettabile rallentamento. Finzioni si pone su piano pluridisciplinare, non segue un percorso lineare, i concetti si deformano, si ampliano, si ramificano. Il fulcro dell'opera è il tema del labirinto – come lo era nell’altra raccolta L’Aleph - tema caro a Borges, non a caso definito dall’Enciclopedia Einaudi  del 1979 il più grande labirintologo contemporaneo. L’autore, infatti, mostra una predilezione per le situazioni confuse, labirintiche, dai contorni non ben delineati, matasse aggrovigliate nelle quali non si riesce a trovare il bandolo, quasi prive di logica. I suoi labirinti, rispecchiano lo schema del monoviario classico – secondo la classificazione fattane da Umberto Eco - ma ciò che a lui  preme non è il percorso in quanto tale, ma il centro. E soprattutto quell’attività, essenzialmente spirituale, che l’uomo deve compiere per raggiungerlo. Ai labirinti si affiancano, in numerosi racconti, sia il tema dell’infinito sia il concetto binomiale di tempo-eternità, già visto in altri autori, basti pensare ai racconti di Kafka e in particolare La muraglia cinese o Davanti alla legge. Numerose le metafore: la ricerca infinita da parte dell’uomo di qualcosa che dia un senso alla vita o alla ricerca. E poi, concetti matematici, filosofici, meta letteratura, recensioni geometricamente perfette di opere inesistenti di autori inesistenti. In questo sofisticato labirintico meandro di meta- letteratura, di specchi che ampliano e deformano, di letteratura che diviene fantasia paradossalmente reale la mente del lettore viene rapita e nessuno vorrebbe pagare il riscatto per liberarsene.  

Altri libri:
Testi prigionieri, Jorge Luis Borges


venerdì 15 luglio 2016

CHIRÙ - Michela Murgia

"Affinità"
Titolo: Chirú
Autore: Michela Murgia
Editore: Einaudi
Anno: 2015
Pagine: 200
Genere: Romanzo


Mi incuriosiva molto leggere l’ultimo romanzo della Murgia soprattutto per le recensioni contrastanti lette in giro. Due i blocchi contrapposti: da un lato quelli che “manca una trama”, o anche “è un esercizio di stile”, dall'altro quelli che “è bellissimo”. Aggiungerei il terzo blocco: quelli –adorabili come l’eritema - che non hanno letto, non leggeranno il romanzo “ché tanto è brutto” Ma dove sta la verità? Non c’è una verità, chiaro. C’è però una storia, d’amore, di sentimenti certo. E c’è l’uso sapiente, scelto, delle parole che emerge in ogni riga. E poiché credo  che l’uso delle parole faccia la differenza in uno scrittore (ma guarda un po’!) io l’ho apprezzato.

"Chirù venne a me come vengono i legni alla spiaggia, levigato e ritorto, scarto superstite di una lunga deriva."
Sardegna, Cagliari. Eleonora, attrice di teatro affermata, ha trentotto anni quando incontra il diciottenne Chirú. Il giovane, quel giorno, è convinto, perché così qualcuno erroneamente gli ha fatto credere, di dover suonare il violino nel palco accanto a lei durante lo spettacolo. Eleonora gli spiega come preferisca recitare in silenzio. Al termine della rappresentazione quel giovane, vestito da adulto, con le braccia fin troppo lunghe e con appresso il suo violino, con il candore dei suoi anni chiede all’attrice se può seguirla a cena. Lei accetta. La loro non fu un’immediata affinità elettiva, lei semplicemente “lo riconobbe dall’odore delle cose marcite che gli veniva da dentro” forse perché quell’odore Eleonora lo  conosceva bene: era lo stesso suo. A tavola, tra altre persone che paiono quasi sfumate, i due conversano, ma lei vuole sapere esattamente cosa ci faccia lui con lei e Chirú, con sfrontatezza, afferma di volere che lei lo accompagni “anche se non sapeva dove andare” perché la donna conosce tante cose e lui vuole imparare, e tanto. Un allievo. Ancora? Sarebbe giusto? Sono passati ben otto anni dall’ultima volta che Eleonora ha preso con sé il suo terzo e ultimo allievo, o meglio quello che credeva fosse l’ultimo: ora ci sarà Chirú, il quarto…

Dopo Accabadora che le valse, tra gli altri, il premio Campiello l’autrice sarda torna, dopo sei anni, in libreria con un nuovo romanzo anch’esso ambientato prevalentemente in Sardegna seppur lontano dalle atmosfere ancestrali e magiche dell’opera precedente. Romanzo scritto in un momento particolare e di certo difficile della sua vita privata, "non è un libro autobiografico, ma racconta molto della mia vita" ha, infatti affermato la Murgia, Chirú, suddiviso non in capitoli, ma in 17 lezioni e un compimento finale, si presenta fortemente crudo nell’offrirci un percorso di formazione e di acquisizione di consapevolezza del sé alla luce di una introspezione intensa e anche dolorosa. La Murgia l’ha definito un “romanzo politico” tutto incentrato com’è sul concetto di potere che domina i rapporti umani, primi fra tutti quelli familiari, la figura del padre di Eleonora ne è l’emblema, ma sono impregnate di potere tutte le relazioni sentimentali, senza dimenticare che ogni relazione è, comunque, sentimentale, dirà Eleonora. Politico anche perché l’autrice, sempre attenta al problema delle donne, detronizza l’uomo per affidare stavolta il ruolo di mentore a Eleonora "infelice con classe", una donna la quale incarnerà la maestra intesa in senso ampio affiancando il giovane nella vita. E l’insegnamento non è solo un dare, non è mai –né mai può essere- unidirezionale: è un filtro a maglie larghe che permette un interscambio tra docente e discente quasi che, a un certo punto, i ruoli paiono confondersi. Una storia dal punto di vista dell’intreccio narrativo priva di eventi eclatanti, lineare, tutta basata sull’interiorità dei protagonisti e sul ruolo delle parole che paiono frutto di una scelta minuziosa e attenta, mai frutto della casualità, pesate una per una, accarezzate e adagiate delicatamente nella pagine per creare immagini eleganti e sonorità raffinate. Una curiosità: nella fase immediatamente precedente all’uscita del libro la Murgia ha aperto una pagina Fb a nome di Chirú, il quale ha interagito con i lettori e proposto il suo punto di vista, i suoi dubbi, le sue paure, scavalcando le pagine del libro per diventare, seppur in modo atipico,  “reale”. 


martedì 12 luglio 2016

LA CANTATRICE CALVA - Eugène Ionesco

"L'emozione non ha capelli"

Titolo: La cantatrice calva
Autore: Eugène Ionesco
Editore: Einaudi
Anno: 1958
Pagine: 55
Traduzione: Gian Renzo Morteo
Genere: Teatro


Scrivere de La cantatrice calva significa addentrarsi in un terreno difficile. È un’opera che ho letto tantissime volte e che, tante volte ancora, rileggerò sempre con crescente entusiasmo. Lo so. E nonostante la conosca benissimo, so che non riuscirò a rendere con le parole la bellezza che quest’opera trasuda, non riuscirò a descrivere l’emozione che ogni dialogo mi regala. Dico solo che di questa bellezza, indefinibile, ne ho bisogno.



La scena si apre sul salotto dei coniugi Smith
“Interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor Smith, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese. Porta occhiali inglesi; ha baffetti grigi, inglesi. Vicino a lui, in un’altra poltrona inglese, la signora Smith, inglese, rammenda un paio di calze inglesi. Lungo silenzio inglese. La pendola inglese batte diciassette colpi inglesi.”

 I due tengono una conversazione assai banale,  “Le patate sono molto buone col lardo”“ Il pesce era fresco. Mi sono pure leccata i baffi.” che rispecchia il modello di quelle contenute nei manuali redatti per l’apprendimento di una lingua straniera.
Arriva la cameriera Mary, la quale annuncia la visita dei coniugi Martin.
Intanto gli Smith si allontanano annunciando di volersi cambiare d’abito (torneranno, certo, ma con gli stessi abiti).
Nell'assenza dei padroni di casa i Martin parlano tra loro come se si fossero appena conosciuti e, per via di una lunga serie di strampalate coincidenze, scoprono di essere marito e moglie (guardate un po': abitano entrambi al n. 19 della via Bromfield ed entrambi al quinto piano. E, addirittura, hanno entrambi una figlioletta che si chiama Alice!)
Tornano gli Smith e arriva il comandante dei pompieri alla ricerca di un incendio da spegnere, ovvio. La conversazione prosegue sulla base di aneddoti che i personaggi, a turno, raccontano. E quando il signor Smith pronuncia la frase “Abbasso il lucido!” qualcosa nella stanza cambia: la conversazione assume una piega diversa o, meglio degenera in una sorta di litigio nel quale predominano più che le parole, il non-sense, i suoni e i giochi di parole…

Rappresentata per la prima volta a Parigi nell’anno 1950, al Théâtre des Noctambules, La cantatrice calva, commedia in un unico atto, non riscosse grande successo.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora e, oggi, non può negarsi un valore incommensurabile a questa commedia, o meglio anti-commedia come la definì lo stesso autore nel sottotitolo, ascritta al teatro dell’assurdo e che, innegabilmente ha segnato una importante evoluzione nella storia della drammaturgia. Inutile trovare nell'opera un filo logico o, comunque, una trama caretterizzata da azione-evoluzione o, anche, colpi di scena. Inutile dire che la cantatrice calva del titolo, di fatto, venga solo citata incidentalmente (come quella che “si pettina sempre allo stesso modo”) e che, pertanto, non abbia un ruolo cardine nella commedia, inutile trovare personaggi che agiscono. Ma di ben altro è ricca la commedia. Il punto forte e affascinante oltre misura dell’opera è indubbiamente il linguaggio: solo un grande autore come Ionesco poteva – come di fatto ha fatto – farne un uso così libero, fuori dagli schemi, quasi esagerato o, se vogliamo esasperato. Prende le parole, le fa giocare, ruotare, rovesciare, ne scopre la malleabilità, l’elasticità, i mille volti, le scompone e le ricompone per poi disgregarle di nuovo e ricominciare in un gioco che pare –e di questo ne siamo ben contenti – non voler finire. E dietro quei dialoghi carichi di non-sense, di ripetizioni, di assonanze, di acrobazie, di rime si nasconde, pur sempre, una spietata analisi di una società, quella borghese, vuota, fatta di luoghi comuni, priva di vera sostanza. I signori Smith, con i loro divani inglesi e le loro conversazioni inglesi, o i signori Martin più che essere persone sono schemi da riempire che, ci si accorge con un senso di amarezza, non possono essere riempiti.  
"Prendete un circolo, coccolatelo, e diventerà vizioso!" dirà, a un certo punto, il signor Smith. 
Prendete La cantatrice calva, leggetelo e sarete coccolati, dico io. 



mercoledì 26 novembre 2014

IL CIELO È DEI VIOLENTI - Flannery O' Connor. Pazza idea...


Titolo: Il cielo è dei violenti

Autore: Flannery O' Connor  
Editore: Einaudi
Anno: 2008
Pagine: 206
Traduzione: Ida Ombroni 

 
“Lo zio di Francis Marion Tarwater era morto solo da mezza giornata quando il ragazzo si ubriacò troppo per finire la fossa, e un negro di nome Buford Munson, che era venuto a riempire una brocca, dovette terminare di scavarla e trascinarci il corpo, che era ancora seduto alla tavola della prima colazione, per dargli una sepoltura da cristiani, con le insegne del Salvatore sopra la testa e abbastanza terra perché i cani non lo scavassero fuori" 




Salvador Dalì, L'invenzione dei mostri

Bastano poche pagine, pochissime a dire il vero,  per comprendere come ci si trovi di fronte a una grande scrittrice. La scrittura della O’ Connor, credo fortemente, che non possa essere scissa da quella che è stata la sua vita, caratterizzata da un radicatissimo sentimento religioso e dalla malattia, il lupus eritematoso sistemico del quale era affetto anche il padre, che la portò ad una morte precoce e che lei visse sempre stoicamente, senza rifugiarsi in patetici atteggiamenti vittimistici, affermando quasi con candore “Non sono stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è il luogo più istruttivo di un lungo viaggio in Europa”. Quindi, malattia come parte essenziale di se stessa, della propria natura, non una “nemica” e, spesso anzi, strumento indispensabile per interpretare e capire il mondo. Il cielo dei violenti (titolo originale The violent bear it away) il cui titolo prende il nome da una citazione evangelica è un crudo e intenso romanzo nel quale O’Connor fa calare in un’atmosfera atroce, venata di follia, il contrasto pressoché insanabile tra fede e pensiero razionale. Contrasto insanabile perché ci troviamo di fronte a due fanatismi uguali e diversi allo stesso tempo, rappresentati alla perfezione dal vecchio Tarwater, autoproclamatosi profeta, e dal maestro Ryber che del razionalismo puro ha fatto la sua ragione di vita. Parole dure, ruvide quelle della O’Connor, personaggi estremi e aberranti destinati a una costante e dolorosa non-salvezza o, al limite, a trovare la libertà in atti di violenza inaudita. Ambientato nell’America rurale degli anni ’60  il romanzo sfugge, comunque, a qualsivoglia e restrittiva collocazione temporale facendone un’opera senza tempo.