giovedì 29 agosto 2019

IL NOSTRO PRIMO, SOLENNE, STRANISSIMO NATALE SENZA DI LEI - Franco Stelzer

 Cucinar ratti

Titolo: Il nostro primo, solenne stranissimo natale senza di lei
Autore: Franco Stelzer
Editore: Einaudi
Anno: 2003
Genere: romanzo
Pagine: 126 


Era il primo Natale che trascorrevano senza di lei. Entrarono con quel grosso tacchino, con un rametto di rosmarino infilzato nel buco del culo, con le cosce ornate da ciuffetti di carta, bellamente adagiato su un vassoio colmo di patate. Così lo presentarono alla tavolata dei parenti. Ma quel tacchino, dal prominente ventre, non era ben cotto, anzi era proprio crudo… Avevano la loro postazione: un buco aperto, faticosamente, in un pannello. E, con desiderio, attraverso quell’ingegnoso foro, osservavano le imprese erotiche della loro zia. C’era l’emozione, ma anche la paura di essere scoperti che, sicuramente, avrebbe comportato, l’immediato loro trasferimento in un collegio o in un istituto penale! Ma quel giorno in quell’alcova succedeva qualcosa di nuovo: la zia urlo, al suo uomo, “basta!”. E lui, lo spione, ebbe, per la prima volta, un pensiero filosofico: tutto finisce… Problema: come si cucina un ratto? Lo si lascia prima in salamoia? O lo si griglia fresco, fresco? Bisogna impanarlo? Suo zio riteneva che i ratti fossero buoni in tutti i modi…Dopo lunghe trattative con i proprietari presero in affitto la casa al mare. Rispolverarono le stoviglie, fu fatta la spese e si passò alla distribuzione delle stanze. A lui toccò lo zio e, dal suo leggero odore di colonia, il ragazzo comprese come, in quella settimana, sarebbe accaduto qualcosa di interessante…
Franco Stelzer affida alla voce e agli occhi dei bambini il compito di narrarci nove storie per dipingerci il loro mondo. Un mondo variegato e ricco nel quale trovano spazio emozioni, sentimenti diversi, ilarità, stupore, curiosità. Ci sono bambini che acquistano e cucinano un tacchino “per salvare la loro solitudine”, per riempire il vuoto di quel primo Natale senza un affetto. Bambini che si pongono grandi e piccole domande: come il capo fa la pipì. Bambini che danno voce a ricordi comuni a tutti: un panino in spiaggia, la sabbia sulle mutande. Quei ricordi, insomma, che hanno carattere universale esattamente come quel momento, quasi inevitabile, nel quale amaramente si comprende come certe cose non potranno più ritornare, alcune persone ci lasceranno, certi sapori – anno dopo anno – saranno sempre diversi. Perché tutto finirà travolto da una cappa di nebbia, tutto si offuscherà nell’esatto momento in cui si comprenderà come ogni cosa è destinata a finire. E rimarrà, sempre e comunque, quel filo di nostalgia a ricordarci che quel passato, fatto di nonni, di zie eroticamente attive o di zii che si mangiavano topi, è davvero esistito e, in parallelo, cresca il numero dei Natali con sempre più “senza”.


martedì 27 agosto 2019

LO STRADONE - Francesco Pecoraro

Ristagni

Titolo: Lo stradone
Autore: Francesco Pecoraro
Editore: Ponte Alle Grazie
Anno: 2019
Genere: Romanzo
Pagine: 443

Città di Dio. L’uomo ha oramai settant’anni e abita, da circa vent’anni, al settimo piano di una palazzina, lì nello Stradone dove “la città fa una pausa”. In quel frammetto di città dove insiste lo Stradone ci sono entità umane diacroniche, tutte estranee tra di loro: vecchi come lui che si incontrano al bar, il Porcacci, a bere un caffè che è sempre cattivo, dove ci si scambiano poche parole o, al contrario, dove si possono dire stronzate per ore perché li, al Porcacci nessuno te se ‘ncula, ed è proprio questo il bello, alla fine. Ma c’è anche il tifo per ‘a squadra  che pare quasi unirli questi estranei perché essa assurge a “ultimo ente simbolico” che dà un senso di appartenenza con quel suo avere “tacitamente la precedenza su tutto e tutti”. La facciata del suo palazzo è esposta a nord, non prende mai il sole. E da lì il suo occhio vigile e sensibile vede tutto, soprattutto vede ciò di cosa sono capaci gli incapaci, vede come l’inerzia dell’amministrazione, la stupidità di tecnici-architetti-urbanisti incida negativamente su una porzione di citta, o meglio di non-città. O forse non è esattamente così: forse è vero che la città che si costruisce è un prodotto collettivo: “la città demmerda è un’incerta auto-celebrante messa in figura della gente demmerda che ci abita e la costruisce”. Ma tant’è. L’uomo, l’anziano, il fallito, sta bene e sta male nello Stradone, incasellato nella categoria degli Inutili o, meglio, dei Dannosi. Il Sistema gli ha concesso una pausa pre-morte (morte, non trapasso, non scomparsa) con una pensione calcolata ai tempi della socialdemocrazia…
Francesco Pecoraro, poeta, scrittore e architetto, è tornato, quest’anno, in libreria dopo un intervallo di sei anni dall’uscita del suo precedente romanzo, La vita in tempo di pace, che gli valse numerosi encomi dalla critica. Lo Stradone, in primis, è un’opera, con le sue 400 pagine e oltre, che affascina anche per il suo essere ibrida, non essendo facile inserirla univocamente in una precisa categoria: è un romanzo, ma anche un saggio, anche un memoriale. Manca lo schema tipico del romanzo, del “raccontare una storia” con tutti i tipici elementi che una storia dovrebbe avere. La vera protagonista è, alla fine, una voce, senza nome: voce che proviene da un anziano, con i capelli diradati, guance infossate, pelle ingiallita, un anziano come altri, come tutti gli anziani del mondo. Voce che incessantemente parla, di sé, dei suoi fallimenti, dei suoi sogni di accademico infranti, del suo inserimento in un Ministero, del suo inserirsi, poi, nel partito socialista, della corruzione, dell’arresto. Ma è anche una voce che parla di quella porzione di città nella quale si fabbricavano i mattoni per la creazione della città di Dio. E che parla dell’oggi, dei “jeans falso consumati. Falso strappati.” E delle “birre falso-artigianali”. E noi, incantati, seguiamo quelle parole che ci portano al degrado, al Ristagno, a quel senso di non-appartenenza costante. E vediamo quei vecchi, nello Stradone, con i loro terribili giubbotti multi-tasche, che consumano la loro pensione raschiando gratta&vinci, vediamo la loro solitudine e sentiamo anche le voci dei fornaciari, con il loro peso di mattoni da 36 kg, e er Partito e la sindacalizzazione e Lenin in Italia e l’edilizia con la sua necessaria speculazione e le case dell’IACP. Tutto vediamo e sentiamo. Un’opera nuova, originale quella creata da Pecoraro anche per l’uso sapiente di registri narrativi differenti, per il passaggio, sempre senza sbavature, da linguaggi prettamente letterari, elevati, poetici, aulici talora, all’uso di linguaggi tecnici o all’uso del romanesco o, anche, alla trasformazione di lemmi onde ricavarne neologismi.

Articolo già pubblicato su Mangialibri


venerdì 23 agosto 2019

SEMPRE CARO - Marcello Fois

Titolo: Sempre caro
Autore: Marcello Fois
Editore: Einaudi
Anno: 2015
Genere: Romanzo
Pagine: 100

Si diceva che Bustianu, dopo pranzo, stesse andando a fare una passeggiata: il “sempre caro”. Così la chiamava, proprio come la poesia di Leopardi. E con “sempre caro” egli non intendeva il colle, intendeva proprio prendersi un po’ di fresco in altura e godersi il panorama. Si diceva che Bustianu fosse pensieroso e ciò poteva solo significare che avesse tra le mani una causa complessa e che, pare, non volgesse al meglio. Stava difendendo un giovane, Zenobi, bello come il sole che si era messo nei guai: accusato di aver derubato degli agnelli per poi rivenderseli. E nulla, quella causa non andava proprio bene, dato che il giovine si era dato alla latitanza. E, no, ripeteva zia Rosina, madre di Zenobi, che non poteva aver fatto una cosa simile suo figlio: lei lo conosceva bene. E poi, c’era anche la storia di Sisinnia, bella come una madonnina, e pare che tra lei e il giovane latitante ci fosse del tenero. E pare ancora che il padre di lei, della madonnina, fosse pure contento di quella simpatia tra i due. E allora, perché Zenobi avrebbe dovuto rubare gli agnelli proprio a Casula Pès, padre di Sisinnia? Perché?...

Sempre caro fa parte del progetto letterario di Marcello Fois mirante a creare una saga con personaggio fisso e di cui costituisce il primo volume, seguito da Sangue dal cielo e L’altro mondo, tutti editi da Einaudi. Il protagonista Bustianu trova la sua origine in un personaggio realmente esistito: il grande avvocato, poeta e intellettuale nuorese Sebastiano Satta. La storia raccontata rispecchia lo schema tipico del giallo: delitto-indagine- individuazione del colpevole, ma si arricchisce di nuovi elementi tanto da potersi indubbiamente definire un giallo atipico che fuoriesce da quelli che sono i rigidi confini di tale genere. Un romanzo di più ampio respiro quindi, innovativo sia per l’impianto narrativo sia, e soprattutto, per lo stile e per l’uso attento e originale della lingua utilizzata dall’autore. In primis, risulta strutturata su più voci che si alternano senza sovrapporsi: un primo narratore che ci presenta Bustianu; Bustianu stesso che ci racconta la storia dal suo punto di vista e, infine, un terzo narratore. Voci con tre registri narrativi diversi e che, talora, attingendo all’oralità, tessono un romanzo intricato, poetico, con bellissime descrizioni che restituiscono immagini di paesaggi agresti, ma anche riflessioni sulla società sarda dell’ottocento, sul ruolo-missione dell’avvocato, sul concetto di giustizia. Su tutto domina la lingua utilizzata da Fois: si passa da interi periodi in sardo a singoli lemmi e anche, traduzioni letterali in italiano, di modi di dire o espressioni tipicamente sarde. Un romanzo sui generis come lo definisce Camilleri nella prefazione che, nel concentrarsi sul concetto di lingua dell’autore, richiama, a proposito, le parole di Sergio Atzeni: “quando cerco una parola che abbia un suono diverso, che porti a una specificazione più precisa, uso il sardo. Credo che questo sia il contributo che ogni etnia regionale dovrebbe portare”.

mercoledì 21 agosto 2019

DIALOGHI DI ORDINARIA AMMINISTRAZIONE - Virginie Priolo

Parla che ti passa

Titolo: Dialoghi di ordinaria amministrazione
Autrice: Virginie Priolo
Editore: La Zattera
Anno: 2019 
Pagine: 116


"Tesoro, è evidente che ci sia qualcosa che ti turba, ma se non me lo spieghi io non posso aiutarti." questa è la domanda che, una mattina, in bagno, Guido pone a sua moglie poco prima di recarsi al lavoro. La domanda delle domande. Chiaramente Laura, la di lui moglie, risponde, come da tradizione un significativo "Ma no, non è niente di che." E, sempre come da tradizione, da quel piccolo niente si scatena una valanga di, in ordine sparso: tu non mi ascolti mai, non ti emozioni se io ti propongo le cose, perché non posso ingelosirmi anche io, il tutto, naturalmente, senza dimenticare di riportare alla luce un episodio accaduto tempo prima. Non sia mai che la memoria non venga stimolata abbastanza... Che bellezza andare al supermercato insieme, c'è pure la Nutella in offerta e la magia di quelle corsie che, magicamente, si trasformano, in buone occasioni per polemiche, discussioni, ma poi, domanda Guido, chi è 'sto Luca che frequenta la loro figliola?... Ci sono anche le cene a casa di amici che, guarda un po', iniziano a litigare brutalmente. E, infine, la buonanotte. 

Virginie Priolo, psicologa cagliaritana e mediatrice familiare, ci offre, con il suo esordio, uno spaccato di vita quotidiana, analizzando, attraverso i dialoghi dei protagonisti, il complesso e articolato mondo delle relazioni umane: d'amore, d'amicizia, di parentela. La struttura narrativa evoca più una pièce teatrale che  un vero e proprio romanzo dalla cui lettura è facile immaginarsi una chiara suddivisione in atti ove i dialoghi danno vita a scene estrapolate dalla quotidianità di ognuno di noi. I battibecchi tra marito e moglie, non sempre letali e spesso contenenti tanto amore, le discussioni con gli amici, il rapporto con i figli, insomma cose comuni un po' a tutti noi, ma la differenza risiede sempre nelle modalità con le quali il dialogo (un qualsivoglia dialogo) viene instaurato e si sviluppa perché è proprio da ciò, anche nei piccoli frammenti di routine giornaliera, che i rapporti umani possono arricchirsi, migliorare o deteriorarsi o morire del tutto. Dialoghi di ordinaria amministrazione è frizzante, divertente, ironico, ma lascia spazio a riflessioni circa l'importanza di quel dono che possediamo: le parole. Parole con le quali si costruiscono mondi e, spesso, sta a noi scegliere quanti, e soprattutto quali, mondi costruire. Si legge in un soffio, regala quella leggerezza positiva, fa sorridere e, alla fine, non si esime dal propinarci una dose di amarezza, perché alla fine, l'opera è, in qualche modo, lo specchio di quello che è la vita: attimi, piccoli gesti, gioie e dolori. 


martedì 6 agosto 2019

SULLA TRACCIA DI NIVES - Erri De Luca

Titolo: Sulla traccia di Nives
Autore: Erri De Luca
Editore: Feltrinelli
Anno: 2016
Genere: Saggio intervista
Pagine: 160

Sono in due: lui, lo scrittore Erri e lei, l’alpinista. È una notte fortunata, senza vento. Quel vento che quando c’è bisogna saperlo ascoltare perché sa essere molto prepotente e questo lo sa bene chi, come Nives, frequenta le alte quote. Vento che, nelle alte quote, diviene padrone del tempo. Diviene, è una persona. E lei gli parla, gli racconta: il vento sa ascoltare. In fondo, lei attende sempre che lui faccia comunque il suo lavoro. E pur non sapendo quando smetterà di salire, nonostante non possa sapere quali saranno i risultati, potrà dire, ogni volta, di avergli fatto compagnia. Sempre. In quelle cime e ridiscese in compagnia del vento ed evidenzia, Nives, il concetto di “ridiscese” perché non basta una cima raggiunta, bisogna ridiscenderla quella cima con la stanchezza al culmine e con il peso di quello svuotamento che dà l’arrivo in cima. Scendere è, essenzialmente, “disfare la salita, scucire tutti i punti dove hai messo i passi”. Cime e ridiscese: sono il punto più distante da casa…

Il libro nasce da una chiacchierata-intervista notturna tra Erri De Luca e la famosa alpinista Nives Miroi, avvenuta in una tenda, in Himalaya, prima di una salita. Un alternarsi di voci, di riflessioni intorno alla natura, al concetto di sfida, ai sogni, al rapporto – spesso difficile – tra l’uomo e la montagna. Emergono, dalle parole rese dai due sotto un cielo stellato, due persone molto diverse: se lo scrittore risulta tendenzialmente calato in un mondo quasi spirituale o anche visionario, l’alpinista emerge, invece, in tutta la sua concretezza. E, alla fine, Nives Miroi, la cosiddetta tigre di alta montagna, con la sua personalità e la tenacia con la quale persegue i suoi obiettivi, affascina e incuriosisce, lo scrittore – che, in qualche modo, la sovrasta, lasciandole poco spazio – certamente non incuriosisce col suo offrirci ampi e ripetuti richiami alle sacre scritture, sviluppando, oltremisura, l’assunto per il quale “molta scrittura sacra è alpinista”. Sviluppi che, a onor del vero, talora non affascinano, talora cadono in retoriche affermazioni che stonano profondamente con un personaggio come la Meroi della quale, a fine lettura, si ha la sensazione di aver letto veramente poco essendo certi che avesse – o avrebbe potuto avere – tante cose interessanti da raccontare sul suo mondo, sulla sua vita, sui profumi e i suoni della montagna.

Articolo già pubblicato su Mangialibri.