venerdì 21 dicembre 2012

Natale
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
 
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
 
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
 
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
 
Sto
con le quattro
capriole di fumo
del focolare
(Giuseppe Ungaretti)

lunedì 1 ottobre 2012

NONSOLODUE - Claudia De Lillo

Sono una mamma non sono una santa

Titolo: Nonsolodue
Autore: Claudia De Lillo
Editore: TEA
Anno: 2010
Pagine: 324
Genere: Maternità





Già quando ti ritrovi con il pancione e sembri una mongolfiera, quando hai le caviglie gonfissime e non puoi legarti i lacci delle scarpe, quando fai due passi e hai l'affanno, tutti - e dico tutti - divengono dispensatori di consigli letterari, tutti ti consigliano probabili e improbabili letture al precipuo scopo di 'Aiutarti - poverina - in questo lungo percorso'  per renderti comprensibile il misterioso e 'Difficile ruolo della maternità'. Certo qualcuno ha pensato 'Questa qui si mette a fare una figlia e non ne capisce una mazza di figli, di allattamento, della fondamentale e vitale differenza tra i pannolini dry e i pannolini non-dry'. Giusto, non ne sapevo niente. Non ne avevo mai saputo nulla di bambini, io. Non avevo mai cambiato un pannolino.
Ma ho ricevuto con grande piacere tutti i libri che mi son stati regalati, perfino quello di Fabio Volo che con la maternità non c'entra nulla visto che mi è parso più un pornazzo che un romanzo distensivo, ma 'Ti farà sorridere e ti rilasserà' così almeno mi dissero. Mi sa che non ha prodotto l'effetto auspicato. Ecco, quando hai quel pancione lì e sei stanca morta, decidi di lavorare fino al giorno prima del parto, continui a guidare incastrata in una Fiat seicento, non hai la minima intenzione di leggere. Non ne hai proprio voglia. Hai voglia solo di dormire e di sognare il viso della creatura che cresce dentro di te. E hai un pensiero dominante: che sia sana. Tutto lì. Ora che la bimba ha dieci mesi, ti ritrovi con tutti questi manuali sull'essere mamma. Ci sono quelli che ti consigliano atteggiamenti da generale nazista (Compra anche tu una frusta per far dormire il tuo bimbo) e quelli che ti consigliano atteggiamenti da mamma 'moderna' che, poi, non capisci mai cosa significhi esattamente. Di tutto un po'. Ma 'Nonsolodue' è un'altra cosa. E' una risata continua. E' il racconto dell'Elasti-mamma, più vera che mai, che non idealizza il ruolo della maternità, che non pone la figura della mamma in un santuario, che non eleva la genitrice a martire.  No, è semplicemente un frammento di vita vera: mamma che lavora, con due hobbit e un microhobbit che, pian piano, cresce nella  pancia. E' una storia di corse, di affanni, di mariti part-time, di capelli a carciofo e di mancanza di tempo per potersi permettere una normale crema idratante, di depilazioni rimandate all'infinito. Il libro raccoglie gli articoli spumeggianti che la De Lillo ha pubblicato nel suo blog più altri inediti ed è un continuo ironizzare con acutezza sulle difficoltà che una madre che lavora incontra ogni giorno. Un libro scritto con grande intelligenza. E, alla fine, è tutto una conferma di ciò che hai sempre pensato: la maternità non è un'esperienza, non è un percorso di crescita o menate varie, no la maternità è un lungo, infinito, incommensurabile atto d'amore. E' l'amore, quello puro che fugge a qualsiasi regola preconfezionata.

Non posso che ringraziare Fabiana che mi ha regalato questo libro, non posso che ringraziarla per la bellissima dedica apposta nella prima pagina, non posso che ringraziarla perché lei ha visto cos'è la maternità per me: vita che ti riempie l'anima.


Altri libri:
Aiuto! Sono diventata mamma!, Loredana Ronco
La cicala dell'ottavo giorno, Mitsuyo Kakuta
Quello che è successo a Joana, Valério Romão

giovedì 20 settembre 2012

FIORI CIECHI - Maria Antonietta Pinna. Il fiore, il cattivo e il cattivo

Titolo: Fiori ciechi
Autore: Maria Antonietta Pinna
Editore: Annulli
Anno: 2012

Silenzio. Inizia la storia. Come ogni notte, l'adorabile Nonno Petalo racconta alla piccola Corolla la storia della nascita di Florandia. Florandia abitata da fiori e nata dalla fine del mondo: Gaia, la terra, è soddisfatta dopo aver annientato la malefica razza umana. E nascono i garofani a popolare questo nuovo mondo. E mentre, silenziosamente, ascoltiamo questo racconto che ha il dolce sapore di una favola ci rendiamo conto, un po' stupiti, del fatto che siamo all'interno di una rappresentazione teatrale. Già perché questa è la storia scritta da Tibbs. E Tibbs, guarda caso, è accompagnato dalla sua Ombra.  I quali, per meccanismi sospesi tra realtà e fantasia, tra veglia e sogno, faranno un viaggio all'interno di Florandia che, così, diviene tangibile. Forse...E se non bastasse, potrete sempre leggere, all'interno di una bottiglia smarrita nel mare, l'inquieta vicenda del 'probobacter' batterio mostro che distrugge tutto in un delirio di onnipotenza tutta e solo umana.

Fiori ciechi è primo romanzo della scrittrice Sassarese, già conosciuta per il volume Dalle galee al bagno al carcere, per i racconti pubblicati in varie riviste e per la continua collaborazione in varie testate. Fiori ciechi contiene due racconti, Fiori ciechi, appunto, e I probobacter, i quali, al di là della trama apparente collocata in mondi che paiono fuori dal mondo, ci mostrano una realtà finanche troppo attuale.
È un romanzo ricco, dalla costruzione architettonica complessa che offre una lettura su più livelli.
È un continuo intrecciarsi, di favola e realtà, di sogni confinanti con gli incubi, di metateatralità, di ambientazioni surreali che, in sottofondo, mostrano la cruda realtà. Predominano in esso i simboli e temi di natura filosofica. Il tema del doppio, dello spossessamento, il tema dell'Idea che tutti, bene o male, perseguiamo. Maledetta idea che lacera gli animi, che, talora annichilisce e, talora, arricchisce. Con uno stile molto incisivo e scevro di orpelli che, in alcuni passi, è addirittura feroce, la Pinna ci offre un quadro colorato dalle evanescenti tinte della malinconia olezzanti di presagi di morte,  intervallato da un senso onnipresente di vertigine a cui si accompagna un metaforico urlo quando, leggendo le sue parole, si precipita in un baratro che pare senza speranza. Ci si può smarrire in queste pagine dal forte sapore surreale, ma pur sempre vere. Anche troppo.

venerdì 14 settembre 2012

SCONCLUSIONI - Paolo Pappatà. La 194 dei sogni

Titolo: Sconclusioni. Insofferenze di inizio secolo.
Autore: Paolo Pappatà
Editore: Lulù.com
Anno: 2009

Premessa: Sconclusioni è un libro che ho amato. Per le impronte di  malinconia che lascia impresse, per i sogni spezzati, per le parole leggere e pesanti allo stesso tempo. E' un libro che ho letto, riletto, commentato più volte, l'ho pure presentato vista l'amicizia che è nata con l'autore (oltre che per il fatto che io sia terribilmente simpatica, ovviamente). Ripropongo la recensione che ne feci "a caldo", scritta davvero di pancia e di cuore da una impenitente sconclusionata.




Capita raramente, ma a volte capita … Eh, si! Bello finire un libro ed esclamare (perché io parlo da sola, ovviamente): “Mi è proprio piaciuto!”.
Sono una incontentabile, tralasciando i grandi autori del passato (lode a loro) quando mi trovo di fronte ad autori contemporanei tendo a storcere convulsamente il naso. Trovo in loro, puntualmente, qualcosa che mi impedisce di conservarli nel reparto dei bei ricordi e di riporli nel reparto “delusioni”. Colleziono reparti, io.
Con Sconclusioni, invece, è stato diverso: il mio viso non si è contratto in smorfie di disgusto e/o delusione e/o nausea e/o dolore. Anzi… E’ quell’”anzi” che fa la differenza per me, differenza fondamentale.
Sconclusioni è una raccolta di racconti, scritti in tempi diversi, nei quali l’autore crea storie, forgia piccoli universi legati da un delicato filo conduttore che porta a definire Sconclusioni un Romanzo (un Romanzo "tout court" direbbero in altre sedi).
I Protagonisti che popolano questi universi sono giovani, giovani comuni, un po’ sconclusionati, un po’ insofferenti.
Non sono i giovani che sognano di appollaiarsi nel trono dorato di Maria de Filippi o di fare le veline-letterine-letterini-numeretti (ecc..ecc.) in qualche programma televisivo. Sono giovani di un’altra generazione. Giovani e insofferenti di fine secolo, per l’appunto. Ragazzi che sognano e, a quanto pare, lo fanno pure spesso. Sognano piccole e grandi ribellioni, sognano di denudarsi in un parco, fumandosi tranquillamente una sigaretta, organizzano, senza mai realizzarle, rivoluzioni anarcoidi. Nel loro cassetto di sogni di libertà abortiti hanno riposto ben 18 (!!) progetti di rivoluzioni pseudo-anarchiche che, per un motivo o per un altro, son sfumati. Ma non basta. Vogliono esagerare e sospingersi fino a rubare la luna (furto o appropriazione indebita? ai giudici la giusta qualificazione giuridica), regalandoci così, alla fine del libro, una sorta di speranza.
Gianni e i suoi amici, vivono quasi sospesi in un mondo in cui tutto scorre, trasportandosi un fardello di inquietudine, o meglio di malinconitudine.
Camminano barcollanti per le livide vie della loro città avendo, spesso, la fastidiosa consapevolezza di essere immobili tendendo le mani verso qualcosa di non ben definito (forse perché quel qualcosa è privo di registrazione negli annali dell’ufficio anagrafe: un senza nome) che non riescono mai ad afferrare. E sentono, continuamente, di essere inseguiti forse dallo scorrere del tempo forse da quelle visioni oniriche incapaci di tramutarsi in tangibili realtà.
Forse.
Forse entrambe le cose o forse nessuna della due.
Tutto è un forse.
Appaiono spesso, in questo romanzo, profili di uomini e donne che, affacciati finestre, mirano e rimirano la cementificata Suburbia Sud.
Una città ai margini, limbale, con le sue case tutte uguali, con i muri gialli opachi decorati dalla muffa e impreziosite da ringhiere arrugginite e accompagnata dal musicale rumore del silenzio. Suburbia Sud appartiene un po’ a tutti noi. E’ come se tutti, avessimo stipulato un contratto di locazione per viverci. Tutti, in un modo o in un altro, siamo i suoi inquilini, con o senza equo canone.
Suburbia Sud ci elargisce una realtà grigia, sfumata, caliginosa, è una città immobile i cui confini non sono ben marcati, è come se rispecchiasse i pensieri anch’essi, quasi sempre, sfumati (i miei lo son sempre sfumati). E Suburbia si trasforma da entità meramente geografica a un vero e proprio luogo della mente. E’ una città, come dice Paolo, senza un briciolo di prosa né un briciolo di poesia, dove il tempo scorre, il passato non passa e il presente si assenta. E nella quale si dipanano storie, piccole storie, di amori che, spesso finiscono, di amicizia, di partite sempre perse di biliardo accompagnate da sorsate di birra. Il tutto impregnato dal velo della malinconitudine.
Non manca l’amore, anzi l’ammmore e con esso l’abbandono.
Abbandono che, nel racconto “L’amo l’esca e di altro sul pescare”, risulta scandito, nella mente di Sandro, dallo stillicidio del cronometrico conteggio dei giorni, dei mesi, delle ore, dei minuti e dei secondi che lo tengono lontano dalla sua Clara. Clara si eleva e si trasfigura in Amore. Quell’amore che sembrava una storia importante, quell’amore finito con un bacio lanciato in aria e con una porta che si chiude alle spalle definitivamente. Perché tutto può finire, è cosa risaputa, e di fatto tutto finisce, compreso l’amore (perché l’amore dovrebbe sottrarsi a questa ferrea regola?). C’è in questo, una sorta di passiva accettazione da parte di Sandro, una mancanza di lotta, perché egli sa. Sa che tutto è effimero. Fine di una storia che, però, non impedisce a Clara di ricomparire e di insinuarsi (come una serpe? ma anche no) nella vita di Sandro sotto forma di pensiero e, anche più, di monito, per guidare, commentare le azioni di Sandro.
Clara diviene una sorta di guida, un mentore che conduce, detta regole pur essendo assente. Le donne di Sconclusioni sono forti, volitive, decise, un po’ ciniche hanno la capacità di trasportare e trascinare questi uomini “al di là” (nel pieno rispetto dell'etimo del termine trasportare) addirittura oltre il mondo.
Sono donne che, come Jey Blonde, sorridono senza mai sorridere o che non sorridono mai come Alice. Sono crude ma anche insostituibili. Hanno la capacità di condurre per mano gli uomini, di inalare soffi vitali, di rimettere in vita chi non aveva ancora capito o scordato di vivere e… di abbandonarli lanciando nell’aria un addio sotto sembianze di bacio.
Lo stile di Pappatà è essenziale, incisivo, minimalista. L’uso non usuale della punteggiatura rende la sua scrittura vitale e vivace. Mai prolisso, mai noioso piccole frasi che spesso, comunque le si denomini, hanno la stessa forza di un verso di una poesia: rimangono impressi nella memoria e nel cuore. Ha la straordinaria capacità di giocare con le parole, un vero e proprio giocoliere che, abilmente, le fa roteare, rimbalzare, girare e le interrompe bruscamente non per creare strappi, ma per spiegare concetti, silenzi emozioni. Spiegare concetti può essere semplice, spiegare il silenzio richiede capacità ben diverse dall’abile uso della tastiera. E’ un abile enigmista che si prodiga nella difficile tecnica della sciarada generando neologismi, pensiamo a malinconitudine e a casalinghidutine. E in un mondo forse troppo chiassoso, in cui tutti urlano per farsi sentire, in un mondo dominato dalla perdente regola del “Chi più parla, più vince” (ma vince cosa?) Pappatà sceglie una via alternativa, nuova: quella di comunicare, raccontare, manifestare con poche parole. Poche, ma giuste! Una pura questione di scelta. Ma scelta oculata e raffinata (la classe non è acqua, cit.). E’ importante, credo, non solo conoscerle le parole ma SAPERLE SCEGLIERE.
E lo fa lasciando un biglietto d’addio (ancora non trovato, ma vi assicuro che esiste) a quelle sovrabbondanze terminologiche e concettuali che son reputate, erroneamente e illusoriamente, indice di competenza e bravura (?!) ma che, in realtà, nascondono solo una mera attività di consultazione fatta di scorse forsennate a buoni dizionari dei sinonimi e dei contrari.

lunedì 27 agosto 2012

Cartoline viventi


Foto: Sandrina Lasio
Metti un tardo pomeriggio di giugno. Caldo, ma non troppo. Metti una passeggiata nelle viuzze di una città profumata di mare. Viuzze tra stretti palazzi tutti proiettati verso l'alto che, volente o nolente, ti costringono a guardare quel bellissimo cielo. Metti i tavolini all'esterno dei bar, aggiungici pure il sottofondo di diverse lingue che si mescolano, l'odore di frittura mista di pesce, lo svolazzare di panni stesi ad asciugare. Sembrerebbe una città non ancora visitata, sembrerebbe la Lisbona di Pessoa. Sembrerebbe. Invece, siamo a Cagliari e passeggiamo nella zona della Marina, ma abbiamo come la magica sensazione di essere i protagonisti - in dolce movimento - di una cartolina. Di quelle vecchie, quelle color seppia. Quelle da conservare gelosamente perché se ne conosce il valore. Ma dove ci dirigiamo nel momento in cui sappiamo di voler restare, per ore, a vagare senza meta in queste strade senza tempo? Eccoci arrivate: Piazza San Sepolcro. Sedie, una folla, non troppo nutrita, di persone allegre. Già domani in questa città da cartolina ci sarà il Primo Gay Pride. Ma domani è un altro giorno. Oggi, in questa accogliente piazza ci sarà la presentazione del libro della Concia dal titolo accattivante 'La vera storia dei miei capelli bianchi'. Ecco, scorgiamo l'autrice con suo portamento elegante, con i suoi capelli argentati, con il suo vestito bianco accessoriato di rosso. Inizia la presentazione, Alice con le sue manine inizia a sfogliare il libro. Sembrerebbe interessante. E la Concia ci parla della genesi di questo romanzo che è un pezzo della sua vita e continua a rivolgere sguardi, caldi e amorevoli, a quella che è divenuta sua moglie sedutatasi timidamente distante. E interviene anche il giovane sindaco e quando non si fa in tempo a pensare "Oddio, adesso ci parlerà dello spread o similari" si scopre che ci parla di tutt'altro. Bel discorso, Zedda. Già perché non ci fracassa le balle con discorsi morbosi-istituzionali, ma, semplicemente, parla di argomenti strettamente connessi all'omosessualità, alla spesso troppo frequente insensibilità etero nei confronti di chi, perché omosessuale, vive una situazione difficile. Un invito al dialogo, a capire, ad amare. E le sue parole leggere salgono in quella verticalità di cui gode anche la piazza e le vedi svolazzare nella limpidezza di quel cielo estivo. Peccato, tutto finisce. Ricordiamo che ci sono i mondiali.

giovedì 26 luglio 2012

ISOLA MIA - Massimo Menzi. L'isola che non c'è


Titolo: Isola mia
Autore: Massimo Menzi
Editore: Spettri
Anno: 1982


Marco è un bambino nato e cresciuto in un’isola dimenticata dal mondo, dalle istituzioni,  dai poeti che non la cantano, dai fotografi che non la immortalano. È l’isola del silenzio e delle attese. Marco non ha amici. Vive la sua solitudine come un dono. Il dono fattogli dal destino che è un gran bastardo, ma lui non pare accorgersene. E il piccolo diviene grande. E cerca di fertilizzare quell’arida terra con i suoi pensieri. Lo chiamano il filosofo quando non decidono, a seconda della luna che li osserva, che sia solo uno con le rotelle non esattamente a posto. Ma la vita riserva sorprese anche in quell’isola arida dimenticata perfino dai diavoli. E le sorprese metteranno in moto meccanismi che stravolgeranno il tessuto impermeabile di quella terra.

Ho trovato questo libro per caso. Non l’avrei degnato di uno sguardo se il libraio, con la sua faccia gialla come la pagina di un vecchio libro, non mi avesse detto: "Lo devi leggere".
Era un ordine il suo. Di fronte a tale perentorietà non ho opposto resistenza alcuna. Non potevo. Onde per cui, l’ho portato a casa. Nonostante le perplessità. Non mi convinceva né il formato, decisamente grande, né il colore delle pagine, giallo come la faccia del libraio. Ma, soprattutto, aveva un odore strano simile all’odore che emana la frutta in procinto di marcire. Insomma, una sorta di libro in decomposizione. Nonostante questi non ameni particolari, appena arrivata a casa, mi è venuta la smania, quasi incontrollabile, di leggerlo. Ed è andata avanti così, per ore. Mi son dimenticata della cena, forse ho rischiato pure il divorzio per “assenza da questo mondo”, ma non riuscivo, sul serio, a staccarmi da quelle pagine. Marco, il protagonista mi catturava. L’isola descritta nel libro, è diventata, pagina dopo pagina, tangibile, fedifraga, troia e santa, formosa, chiacchierona e silenziosa. Per farla breve, ho trascorso la notte in bianco. Adesso, io non sono una tipina facilmente influenzabile, non sono di quelle che declamano “Questo libro mi ha cambiato la vita”, però, se proprio devo essere sincera questo libro ha qualcosa che non ho mai trovato in nessun altro romanzo. E credo che sia proprio uno di quei libri che possiede quella magica capacità di smuovere qualcosa dentro. E di farlo con vigore, quasi raschiando le pareti del cuore. L’autore, Massimo Menzi, è per me, un perfetto sconosciuto. Mi viene solo da chiedermi perché nessuno ne abbia mai parlato. Che fine hanno fatto i critici letterari? Perché far marcire questo libro? Perché? Non finirò mai di domandarmelo. Mai.
E’ un romanzo perfetto e, credetemi, non esagero. La trama, sviluppata su più livelli, non ha un attimo – dico un attimo – di cedimento. Ogni azione, ogni parola, ogni pensiero è incasellato al posto giusto: è un mosaico perfetto. E’ una trama divina e diabolica al tempo stesso, è il paradiso e l’inferno contemporaneamente. Ma al di là della trama che, ripeto, non presenta alcuna falla, lo stile di Menzi è, a dir poco, meraviglioso. Scrive da dio. Uno stile folgorante, quasi ammaliante, incisivo. E’ una perla. Peccato perderla. Peccato soprattutto che Menzi non sia mai esistito, peccato che Isola mia non sia mai stato scritto. Peccato, davvero.

lunedì 23 luglio 2012

Essere Out e non saperlo


Tiziano, le tre età dell'uomo
Mancano pochi giorni. Pochi giorni e sarò una quarantenne. I miei primi quarant’anni. E mi stupisco, ogni volta, di chi mi chiede: “Come ci si sente?” E mi vien da rispondere, con estrema naturalezza: “Bene”. E nella mia mente si apre un fumetto con una caterva di punti interrogativi. E mi domando se dovrei sentirmi in un modo particolare, diverso da come mi sentivo a trentacinque o a trenta. Non so, non sento niente di diverso. E mi guardo allo specchio e non vedo gli irrecuperabili segni di cedimento. Tutto al posto giusto, nessuna parte del mio corpo si è abbandonata alla malefica forza di gravità. Taglio di capelli di tendenza, esattamente come facevo a vent’anni. Smalto fucsia che miro e rimiro soddisfatta. Insomma, inconsciamente mi sento super-figa e “non invecchiabile”. Questo in linea di massima. Questo perché, forse, non tengo conto di alcuni indizi. Indizi che, credo, dovrei valutare con maggiore oculatezza. Perché sono quegli indizi che, se valutati con attenzione, dovrebbero rivelarmi che sto invecchiando. E se ci penso sono tanti. Innanzitutto, non appartengo alla categoria di giovani cresciuta con Harry Potter. Ho, mea culpa, letto solo il primo volume e, devo ammetterlo, a me quel maghettino sta pure antipatico. E credo che questa sia già una differenza fondamentale. In questa dissennata ricerca di indizi ho pure scoperto come i rapporti umani tendano a nascere in fredde caselle di posta o in rumorose bacheche facebookiane. Ma cosa ancora più sconvolgente è scoprire come siffatti rapporti mirino a consolidarsi in base al numero crescente dei “mi piace”. Ho sentito, infatti, dire a giovani persone “Mi ha messo il mi piace”. Quindi? “Quindi, significa che mostra interessa per me”. Sono proprio Out, in effetti. Tutto ciò è difficile da capire che chi, come me, è cresciuta con il mito dell’oralità e del vis-à-vis. Per chi, come me, non ha mai usato sms per discutere o per fare presunte dichiarazioni amorose. Per chi, come me, usa gli sms solo per dire “Ci vediamo alle sei” oppure “ti chiamo dopo, ora sono impegnata”. E se mi è capitato di avere il mio povero cuore distrutto non ho mai consentito a un sms di trasmettere i miei sentimenti. Al limite, scrivevo i miei deliri amorosi in pagine e pagine ora ammuffite. E dimenticate. Certo, i deliri quelli rimangono sempre immortali come sono. Inoltre: si è anziani perché, nell’anno di grazia 2012, si guardano film in bianco e nero, si fanno casini con i-phone e simili, non si sa usare la play station, si usa fb per il gusto, e solo per il gusto, del sano cazzeggio, si cancellano inavvertitamente le foto dalla memoria della fotocamera, si entra nel panico quando si devono trasferire le foto dal telefono al pc? Devo proprio essermi persa qualcosa o, forse, son proprio vecchia. D’altra generazione. Urge cambiare colore dello smalto e farsi fare messa in piega con i boccoli da sabato sera con le amiche con annessa spruzzatina di lacca Cielo Alto. Urge, sicuramente.

lunedì 25 giugno 2012

Cronaca di una presentazione con collare

Foto: Sabina Murru
Sabato 23 giugno, ore 18.00. Tutti insieme appassionatamente ci accingiamo ad uscir di casa. Tutti, dico tutti. Io, mio marito, Alice con la sua borsa, il suo passeggino, il mio collare post-trauma da tamponamento a catena e, per finire, il mio eritema ben celato dal provvidenziale collare. “Usciamo?” “Aspetta, ricapitoliamo: il latte?” “L’ho messo nella borsa”, “Il ciuccio?” “Eccolo”, “Le chiavi?” “Prese”. Bene, possiamo uscire con tutto questo carico. Ma io, intanto, penso a cosa avrò dimenticato stavolta, e sorrido pure. Non rendendomi conto, tra l'altro, come io sembri Robocop pur credendomi  Wonder Woman.
No, non stiamo partendo in vacanza nel Burundi. Ci rechiamo alla libreria Murru perché la sottoscritta deve presentare il libro “Il fattore K” di Antonello Ardu. Il tragitto è breve: Su Planu -Via San Benedetto. Strade deserte, caldo da morire. Trecento gradi a livello del collo ben fasciato dal collare modello Philadelphia. Speriamo non mi facciano le foto. Sono inguardabile. Eccoci in libreria. C’è già un po’ di gente. Un abbraccio a Sabina, quella donna è una forza della natura. Non è solo una persona meravigliosa è un pozzo, infinito, di idee. Un saluto ad Antonello tranquillo come sempre. Qualche conoscenza qua e là. Miro con immenso amore il condizionatore vorrei entrarci dentro. Sono contenta di parlare di questo libro perché mi è piaciuto. E lo scrittore è uno che ha già pubblicato un precedente romanzo, ma – chissà perché – non soffre di deliri di onnipotenza. No, Antonello è modesto, pacato, parla del suo libro senza esaltarsi. E strano a dirsi, nonostante appartenga alla categoria degli scrittori, risulta simpatico. Iniziamo. Sia benedetta Consuelo che legge alcuni brani del romanzo. Leggere mi mette nel panico, sarà forse che tutti – stranamente – mi consigliano un corso di dizione. Parliamo, analizziamo il romanzo, cercando di non dare troppe anticipazioni visto che non tutti l’hanno letto. Non rischio mai la fucilazione, se posso. L’autore risponde serenamente alle domande. Il pubblico ascolta. Alice la sento piagnucolare, so già che ha fame. Infatti, dopo qualche minuto, sparisce con il papà per gustarsi il caldo contenuto del suo biberon che, diligentemente, ho messo nella sua rosa borsa. Mi piace questo pubblico che partecipa. Noto anche i miei nemici: i fotografi. So che quelle foto le vedrò pubblicate da qualche parte, ma non mi oppongo. Non è la mia serata, ma è la serata di Antonello. Non mi preoccupo di fare brutte figure perché tutto è spontaneo in questo bellissimo evento. Molti i sorrisi. Io parlerei per ore, perché ritengo che Il fattore K sia un romanzo tremendamente complesso, ricchissimo di spunti di varia natura. Ma, a un certo punto, devo pur smettere e soffocare quella insolita logorrea che mi sta travolgendo. E concludo chiedendo al pubblico “C’è qualcuno che vuole fare domande ad Antonello?”. E il pubblico interviene con domande, con osservazioni interessanti e sensate. Bello, bello. Non posso non citare l’ultima domanda proveniente dalla signora Clara, la cui risposta è stata sommersa da una risata generale. La signora, con fare gentile, ha cortesemente domandato come mai, nei libri, le mani degli uomini fossero sempre esperte. Eh, i misteri della scrittura.
Ecco è finita la presentazione. Si prosegue con l’aperitivo offerto da Gustirari, con le chiacchiere, con i sorrisi, con Antonello che fa le dediche. Anche a me ha fatto la dedica, certo ho capito oggi cosa ci fosse scritto avendo egli una grafia contorta, ma questa è un’altra storia.

mercoledì 20 giugno 2012

Facebook rimembri ancora…

Il facebookiano lungo parlare dell’esame di maturità ha ingenerato un insano meccanismo. Ha fatto sì che la mia memoria – dannata memoria – ritornasse, senza pagare il biglietto, a quel lontano, lontanissimo giorno nel quale io, giovane dai lunghissimi capelli, mi accingevo a scrivere un lungo tema sul mio amato Leopardi. E ricordo, non senza sorridere, la gioia – immensa e incontenibile – nel leggere quella traccia che, stranamente, sembrava essere stata scritta proprio per me. “Contratto con traccia in esclusiva” direbbero i miei sapienti e dotti colleghi. E ricordo il panico. E ricordo la puzza insopportabile delle decine di sigarette che ossessivamente fumai. E ricordo la soddisfazione dopo aver scritto quel tema. Ma ciò che ricordo, in particolare, è il profumo dei sogni che, gelosamente, stringevo tra le mani onde evitare che qualcuno, anche solo inavvertitamente, li potesse sfiorare. O sporcare. O rubare. Non sapevo, allora, che i sogni sono come la polvere: volano via anche se tu, imperterrita, continui a stringere i pugni. Ed era bellissimo non saperlo. No, non ho la vena nostalgica quest’oggi. E’ solo che è stato inevitabile prendere atto del fatto che dal quel famoso giorno son passati tanti – e tanti e tanti – giorni e, a un certo punto, mi è pure sorto il dubbio che io e Leopardi fossimo nati nello stesso anno.  

Amaro e noia 
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo 
T'acqueta omai. 
Dispera L'ultima volta.
Al gener nostro il fato 
Non donò che il morire. 
Omai disprezza Te, la natura, il brutto 
Poter che, ascoso, a comun danno impera 
E l'infinita vanità del tutto
(Da A se stesso, Leopardi)

venerdì 11 maggio 2012

Riflettendo


Prima di scrivere qualcosa in questa pagina bianca ho bisogno di pensare. Primo perché, in questo momento, non saprei bene cosa scrivere. Secondo, non so di preciso perché ho creato questo blog. Ma sono milioni le cose che faccio senza che nessuno - e dico nessuno - mi comunichi la ragione per le quali le ho fatte. E' un mistero irrisolvibile, ma questa è un'altra storia. Detto questo, aggiungo molto Oharamente "Domani è un altro giorno" onde per cui, mi affido al domani per farmi venire qualche idea. Di solito sono sempre e fastidiosamente incazzata e questo dal punto di vista di un blog è positivo o meglio è redditizio: più sono incazzata più scrivo. Evidentemente, nonostante l'apparenza, oggi non sono sufficientemente incazzata. Ho il blocco dello scrittore senza essere scrittore. Aggiungerei per fortuna, mi riferisco al non essere scrittore, ovviamente. Ho pensato di fare la ballerina, di fondare una casa editrice, di aprire un ristorante, ma non ho mai pensato o sognato di diventare scrittrice. Oggi, però, ho deciso di diventare blogger. L'idea mi piace. Credo, almeno. Possibile che domani questo blog non esista più. Possibile che domani ci siano tre post di 5000 caratteri ciascuno. Possibile che scriva una poesia con rima abbracciata e non baciata. Possibile. Sono la regina del possile che passando per il probabile diviene, poi, impossibile. Nuit.