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lunedì 25 marzo 2013

Cronaca di uno spazio necessario

Ecco! Il momento è arrivato. Mi riferisco a quel momento, da sempre - e intenzionalmente - rimandato, nel quale è opportuno fare spazio in casa. Devi preparare la camera per tua figlia, devi evitare di farla dormire in balcone, devi evitare chiamate accusatorie al telefono azzurro, devi evitare di portare - per tutta la vita - le lettere scarlatte M.S. di Madre Snaturata. Devi scegliere come fare spazio. Ma sai già che dovrai eliminare due delle librerie della casa perché quelle frecce fluorescenti nonché lampeggianti, puntate verso le librerie, che riportano la scritta "Devi eliminare questi libri" non possono passare più inosservate. Lo sai e ti dispiace. Ma per tua figlia, questo e altro, molto altro. Tutto. Quindi, ti accingi a preparare scatoloni vuoti di pomodori pelati e a riempirli di libri che, d'ora in poi, dimoreranno nella cantina peraltro già ingombra di riviste, libri, fumetti e anche jeans anni ottanta che - non si sa mai - potranno esserti utili un giorno. Ma prima di riempire gli scatoloni, quasi romanticamente, ti soffermi su quella montagna di libri che, intanto, hai accumulato sul letto. E capisci che quella insolita montagna non è solo carta. No, per niente. Quella montagna, in qualche modo, contiene pezzi di vita, contiene storie, parole, e tanti tanti ricordi. Ti rendi conto, innanzitutto, di essere una donna a fasi. Già: donna fase-filosofica, donna fase-storica, donna fase "perché è necessario cambiare genere", donna fase "amo Umberto Eco", donna fase "i classici sono i migliori", donna fase "prova a leggere in francese", donna fase "la Russia è la mia terra" per passare, con nonchalance, alla donna-fase "voglio vivere a Parigi". Insomma, ti rendi conto, in primis, che qualche annetto ce l'hai e, poi, diciamocela tutta, sei un'incostante e poco equilibrata: troppe fasi. Poi, superata la lista delle varie fasi, ti soffermi sui libri con le dediche, quei libri che qualcuno ti regalò nei tempi in cui il 'per sempre' sembrava pure fattibile.  E, ancora, libri logorati dal tempo e dalle sottolineature quasi a voler imprimere nella tua anima quelle magiche parole che, forse, ritenevi avrebbero modificato il corso di qualcosa, o - forse - l'avrebbero arricchito. Trovi anche i libri specchio, quelli nei quali, leggendoli, trovavi una parte di te stessa che forse sfuggiva ai tuoi vani tentativi di poco freudiana autoanalisi. E non mancano i libri di merda, quelli che ti hanno regalato perché non sapevano che cosa regalarti o che tu stessa hai acquistato nel tentativo di scoprire una qualche forma di bellezza dove il bello non c'è.  Ma non finisce qui. Perché tra le pagine trovi in ordine sparso: biglietti del cinema, foto, pensieri diffusi, confusi e soffusi, lettere senza destinatario, destinatari senza lettere e, soprattutto (non cambierai mai) quei post-it, un tempo gialli, con le tue eterne polemiche, i tuoi tentativi - falliti - di cambiare micromondi, che, per te, erano macromondi, che non volevano cambiare (apprezziamo il tentativo), i tuoi sogni vittime incolpevoli della Legge 194.
E mentre ti convinci, a fatica, che in fondo il libro è un oggetto, riempi quegli scatoloni...

lunedì 27 agosto 2012

Cartoline viventi


Foto: Sandrina Lasio
Metti un tardo pomeriggio di giugno. Caldo, ma non troppo. Metti una passeggiata nelle viuzze di una città profumata di mare. Viuzze tra stretti palazzi tutti proiettati verso l'alto che, volente o nolente, ti costringono a guardare quel bellissimo cielo. Metti i tavolini all'esterno dei bar, aggiungici pure il sottofondo di diverse lingue che si mescolano, l'odore di frittura mista di pesce, lo svolazzare di panni stesi ad asciugare. Sembrerebbe una città non ancora visitata, sembrerebbe la Lisbona di Pessoa. Sembrerebbe. Invece, siamo a Cagliari e passeggiamo nella zona della Marina, ma abbiamo come la magica sensazione di essere i protagonisti - in dolce movimento - di una cartolina. Di quelle vecchie, quelle color seppia. Quelle da conservare gelosamente perché se ne conosce il valore. Ma dove ci dirigiamo nel momento in cui sappiamo di voler restare, per ore, a vagare senza meta in queste strade senza tempo? Eccoci arrivate: Piazza San Sepolcro. Sedie, una folla, non troppo nutrita, di persone allegre. Già domani in questa città da cartolina ci sarà il Primo Gay Pride. Ma domani è un altro giorno. Oggi, in questa accogliente piazza ci sarà la presentazione del libro della Concia dal titolo accattivante 'La vera storia dei miei capelli bianchi'. Ecco, scorgiamo l'autrice con suo portamento elegante, con i suoi capelli argentati, con il suo vestito bianco accessoriato di rosso. Inizia la presentazione, Alice con le sue manine inizia a sfogliare il libro. Sembrerebbe interessante. E la Concia ci parla della genesi di questo romanzo che è un pezzo della sua vita e continua a rivolgere sguardi, caldi e amorevoli, a quella che è divenuta sua moglie sedutatasi timidamente distante. E interviene anche il giovane sindaco e quando non si fa in tempo a pensare "Oddio, adesso ci parlerà dello spread o similari" si scopre che ci parla di tutt'altro. Bel discorso, Zedda. Già perché non ci fracassa le balle con discorsi morbosi-istituzionali, ma, semplicemente, parla di argomenti strettamente connessi all'omosessualità, alla spesso troppo frequente insensibilità etero nei confronti di chi, perché omosessuale, vive una situazione difficile. Un invito al dialogo, a capire, ad amare. E le sue parole leggere salgono in quella verticalità di cui gode anche la piazza e le vedi svolazzare nella limpidezza di quel cielo estivo. Peccato, tutto finisce. Ricordiamo che ci sono i mondiali.

lunedì 23 luglio 2012

Essere Out e non saperlo


Tiziano, le tre età dell'uomo
Mancano pochi giorni. Pochi giorni e sarò una quarantenne. I miei primi quarant’anni. E mi stupisco, ogni volta, di chi mi chiede: “Come ci si sente?” E mi vien da rispondere, con estrema naturalezza: “Bene”. E nella mia mente si apre un fumetto con una caterva di punti interrogativi. E mi domando se dovrei sentirmi in un modo particolare, diverso da come mi sentivo a trentacinque o a trenta. Non so, non sento niente di diverso. E mi guardo allo specchio e non vedo gli irrecuperabili segni di cedimento. Tutto al posto giusto, nessuna parte del mio corpo si è abbandonata alla malefica forza di gravità. Taglio di capelli di tendenza, esattamente come facevo a vent’anni. Smalto fucsia che miro e rimiro soddisfatta. Insomma, inconsciamente mi sento super-figa e “non invecchiabile”. Questo in linea di massima. Questo perché, forse, non tengo conto di alcuni indizi. Indizi che, credo, dovrei valutare con maggiore oculatezza. Perché sono quegli indizi che, se valutati con attenzione, dovrebbero rivelarmi che sto invecchiando. E se ci penso sono tanti. Innanzitutto, non appartengo alla categoria di giovani cresciuta con Harry Potter. Ho, mea culpa, letto solo il primo volume e, devo ammetterlo, a me quel maghettino sta pure antipatico. E credo che questa sia già una differenza fondamentale. In questa dissennata ricerca di indizi ho pure scoperto come i rapporti umani tendano a nascere in fredde caselle di posta o in rumorose bacheche facebookiane. Ma cosa ancora più sconvolgente è scoprire come siffatti rapporti mirino a consolidarsi in base al numero crescente dei “mi piace”. Ho sentito, infatti, dire a giovani persone “Mi ha messo il mi piace”. Quindi? “Quindi, significa che mostra interessa per me”. Sono proprio Out, in effetti. Tutto ciò è difficile da capire che chi, come me, è cresciuta con il mito dell’oralità e del vis-à-vis. Per chi, come me, non ha mai usato sms per discutere o per fare presunte dichiarazioni amorose. Per chi, come me, usa gli sms solo per dire “Ci vediamo alle sei” oppure “ti chiamo dopo, ora sono impegnata”. E se mi è capitato di avere il mio povero cuore distrutto non ho mai consentito a un sms di trasmettere i miei sentimenti. Al limite, scrivevo i miei deliri amorosi in pagine e pagine ora ammuffite. E dimenticate. Certo, i deliri quelli rimangono sempre immortali come sono. Inoltre: si è anziani perché, nell’anno di grazia 2012, si guardano film in bianco e nero, si fanno casini con i-phone e simili, non si sa usare la play station, si usa fb per il gusto, e solo per il gusto, del sano cazzeggio, si cancellano inavvertitamente le foto dalla memoria della fotocamera, si entra nel panico quando si devono trasferire le foto dal telefono al pc? Devo proprio essermi persa qualcosa o, forse, son proprio vecchia. D’altra generazione. Urge cambiare colore dello smalto e farsi fare messa in piega con i boccoli da sabato sera con le amiche con annessa spruzzatina di lacca Cielo Alto. Urge, sicuramente.

mercoledì 20 giugno 2012

Facebook rimembri ancora…

Il facebookiano lungo parlare dell’esame di maturità ha ingenerato un insano meccanismo. Ha fatto sì che la mia memoria – dannata memoria – ritornasse, senza pagare il biglietto, a quel lontano, lontanissimo giorno nel quale io, giovane dai lunghissimi capelli, mi accingevo a scrivere un lungo tema sul mio amato Leopardi. E ricordo, non senza sorridere, la gioia – immensa e incontenibile – nel leggere quella traccia che, stranamente, sembrava essere stata scritta proprio per me. “Contratto con traccia in esclusiva” direbbero i miei sapienti e dotti colleghi. E ricordo il panico. E ricordo la puzza insopportabile delle decine di sigarette che ossessivamente fumai. E ricordo la soddisfazione dopo aver scritto quel tema. Ma ciò che ricordo, in particolare, è il profumo dei sogni che, gelosamente, stringevo tra le mani onde evitare che qualcuno, anche solo inavvertitamente, li potesse sfiorare. O sporcare. O rubare. Non sapevo, allora, che i sogni sono come la polvere: volano via anche se tu, imperterrita, continui a stringere i pugni. Ed era bellissimo non saperlo. No, non ho la vena nostalgica quest’oggi. E’ solo che è stato inevitabile prendere atto del fatto che dal quel famoso giorno son passati tanti – e tanti e tanti – giorni e, a un certo punto, mi è pure sorto il dubbio che io e Leopardi fossimo nati nello stesso anno.  

Amaro e noia 
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo 
T'acqueta omai. 
Dispera L'ultima volta.
Al gener nostro il fato 
Non donò che il morire. 
Omai disprezza Te, la natura, il brutto 
Poter che, ascoso, a comun danno impera 
E l'infinita vanità del tutto
(Da A se stesso, Leopardi)

venerdì 11 maggio 2012

Riflettendo


Prima di scrivere qualcosa in questa pagina bianca ho bisogno di pensare. Primo perché, in questo momento, non saprei bene cosa scrivere. Secondo, non so di preciso perché ho creato questo blog. Ma sono milioni le cose che faccio senza che nessuno - e dico nessuno - mi comunichi la ragione per le quali le ho fatte. E' un mistero irrisolvibile, ma questa è un'altra storia. Detto questo, aggiungo molto Oharamente "Domani è un altro giorno" onde per cui, mi affido al domani per farmi venire qualche idea. Di solito sono sempre e fastidiosamente incazzata e questo dal punto di vista di un blog è positivo o meglio è redditizio: più sono incazzata più scrivo. Evidentemente, nonostante l'apparenza, oggi non sono sufficientemente incazzata. Ho il blocco dello scrittore senza essere scrittore. Aggiungerei per fortuna, mi riferisco al non essere scrittore, ovviamente. Ho pensato di fare la ballerina, di fondare una casa editrice, di aprire un ristorante, ma non ho mai pensato o sognato di diventare scrittrice. Oggi, però, ho deciso di diventare blogger. L'idea mi piace. Credo, almeno. Possibile che domani questo blog non esista più. Possibile che domani ci siano tre post di 5000 caratteri ciascuno. Possibile che scriva una poesia con rima abbracciata e non baciata. Possibile. Sono la regina del possile che passando per il probabile diviene, poi, impossibile. Nuit.