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giovedì 9 aprile 2020

IANCURA - Paolo Casuscelli


Esperienze del sublime

Titolo: Iancura
Autore: Paolo Casuscelli
Editore: Mucchi
Anno: 2019
Genere: Racconti
Pagine: 88


Dopo aver vinto un concorso per insegnante di scuola media, Casuscelli, sceglie l’Isola di Salina, nell’arcipelago delle Eolie, proprio quella che nessun altro avrebbe scelto. Al momento dello sbarco, reca con sé una ventina di tomi pensando che gli sarebbero bastati per poco, pochissimo tempo. Quanto si sbagliava! L’isola diviene per lui una grande opportunità, una risorsa. Se prima la sua vita si muoveva in una dimensione prettamente spirituale, muovendosi egli tra libri e polverose biblioteche, con l’arrivo a Salina riesce, in un certo senso, a sentire la corporalità delle cose. La natura, il mare e la pesca divengono parte della sua nuova vita. Ah, la pesca, quell’attività che gli riempirà il cuore. Pesca che è fatica, gioia, ma anche delusione. Già, può capitare, per dire, di pescare una cernia di otto chili e, poi, come niente perderla in mare. Vivere a Salina significa anche ritrovarsi la bidella in casa per avvisarti che sei in ritardo per la lezione e che ti intima di prepararti ché intanto lei ti prepara il caffè. Significa avere amici, certo eccentrici, come Gianni Re, con le loro filosofie di vita interessanti. Per non parlare poi degli alunni con i quali si crea un rapporto unico, un rapporto di appartenenza “perché chi è stato alunno continua a sentire l’appartenenza anche da adulto.”

Della raccolta di racconti dell’autore messinese colpisce, in primis, il titolo, Iancura, letteralmente biancore e che, per l’autore, è “la personale esperienza del sublime.” La raccolta contiene l’esperienza di insegnamento dell’autore nell’isola eoliana, una sorta di diario, almeno prima facie. In realtà, in Iancura scorre tanta vita, tante immagini, tante riflessioni. Un’analisi, infine, attenta e profonda di se stessi, la descrizione appassionata del rapporto con la natura e il ruolo del concetto di isola. Perché da un’isola si impara tanto, è un’opportunità “la cosa più importante che impari dall’isola è quella di fare di te stesso un’isola. Non ti spinge a chiuderti, ma a trovare la forza per fare di te una dimora. Un luogo in cui poter accogliere tanto la propria solitudine quanto la propria apertura all’altro” per dirla con le parole di Casuscelli. Numerosi e brillanti anche gli aneddoti sulla scuola non scevri, peraltro, di alcune critiche al sistema -prendiamo, per esempio, il registro, lo strumento più idiota della scuola - e, soprattutto il rapporto speciale che si instaura con gli alunni che esula da ciò che viene trasmesso e recepito, ma assume le vesti di una reciproca e irrazionale appartenenza. Ancora, l’importanza dello studio “meglio un liceo fatto male di una scuola per geometri o ragionieri fatta bene Salina è piena di geometri e ragionieri disoccupati i quali […] non hanno idea della storia della letteratura o della filosofia. E questa per è, per me, una mancanza grave non tanto nei confronti dei doveri scolastici, quanto della vita.” Le storie di Salina posseggono il sapore delle cose speciali anche perché narrate con uno stile curato, a tratti poetico. Sono storie che affascinano e rimangono nel cuore.


martedì 31 marzo 2020

LA TURISTA ITALIANA - Maria Tina Bruno


Rinascite

Titolo: La turista italiana
Autore: Maria Tina Bruno
Editore: Pop Edizioni
Anno: 2019
Genere: Romanzo 
Pagine: 480


Milano. Claudia è sola, nel suo appartamento. Marcello è scomparso. Per sempre. Ogni mattina, da quando lui le ha lasciato quel maledetto foglietto contenente le sue intenzioni, Claudia, puntuale, alle dieci, si scola una bottiglia di vino bianco. È il suo rimedio contro il tempo. Marcello se n’è andato senza una parola. E lei, Claudia, è ossessionata, dai ricordi e dal volto di Marcello che pare vedere ovunque. La sua è una disperazione lenta e graduale…. Isola di Creta. Chania. Alekos, come ogni mattina, alle cinque lascia squillare la sveglia, impreca per venti minuti e si riaddormenta. Alle sei in punto sale in sella alla sua moto per recarsi al lavoro. Fa la guida turistica e, a dire il vero, non ha mai capito i turisti e le loro manie di fare le odiate foto ricordo. Alekos è bello come il sole, “un gigante alto due metri”, circondato da donne, anche se solo una è riuscita a impadronirsi del suo cuore. Claudia e Alekos non sanno che un giorno si incontreranno. Già, perché Claudia ha una grande amica, Francesca, la quale la accompagnerà in un viaggio proprio a Creta e, nella gola di Samaria, durante un’escursione i due si incontreranno. E tutto cambierà…

La turista italiana non è solo un romanzo d’amore del quale, indubbiamente, possiede tutti gli ingredienti è, anche, un romanzo sulla rinascita, sul cambiamento, sulla ricerca interiore. Un continuo riscoprirsi per ritrovare se stessi. Il percorso di Claudia inizierà con la scomparsa di Marcello che decide di suicidarsi, continuerà con un delirante tormento (possibile che lei mai si sia accorta del malessere del suo uomo?) per giungere all’incontro con l’affascinante Alekos. Un rapporto contraddittorio il loro, diversi, appassionati, uniti e divisi al tempo stesso. Un ruolo centrale, nelle pagine del romanzo, è quello del sesso, inteso come strumento agile di comunicazione. Un sesso in senso positivo, quindi, dettato dalla passione e reciproca volontà in contrasto con il sesso negativo che, anche esso, occuperà alcune pagine relative nelle vicende relative alla francese Claudette, una delle tante figure femminili del romanzo.  E poi c’è l’amicizia. Sentimento per eccellenza. Ancora di salvezza nei momenti buoi, rappresentato, per Claudia, da Francesca, colei che, sempre e comunque ci sarà. Fanno da contorno alla narrazione i bellissimi panorami, il mare e i paesaggi di Creta con le sue gole, le sue spiagge e la sua incantevole natura. La turista italiana è un romanzo avvincente, rocambolesco, brillante, ironico e divertente con qualche nota di amarezza. Si segnala una particolarità dell’opera: la pubblicazione dalla Casa Editrice Pop la quale, dichiaratamente, si prefigge l’obiettivo di consentire agli scrittori un’alta percentuale sulle vendite, a tal fine, rinunciando alla distribuzione coi canali ordinari, essendo prevista la vendita solo sul sito della casa editrice stessa.


giovedì 21 novembre 2019

MATRIOSKA - Cristina Comencini

Diverse, ma non troppo

Titolo: Matrioska
Autrice: Cristina Comencini
Editore: Feltrinelli
Anno: 2004 
Pagine:191
Genere: Romanzo


Antonia, l’artista napoletana, la scultrice, si presenta agli occhi di Chiara con un caftano rosso a coprire il suo immenso corpo: il corpo più sterminato che Chiara abbia mai visto. In testa, Antonia, porta un turbante scuro. “Faccio questo libro solo per i soldi”, queste le parole della scultrice. Già, perché Chiara ha accettato l’incarico di scrivere una biografia dell’artista. Solo dopo qualche minuto di conversazione, la futura biografa sente premerle dentro una strana sensazione, quasi un senso di ripulsa nei confronti di quella donna monumentale, forse per il suo eccessivo esibizionismo senile, per quella fastidiosa totale assenza di pudore e anche per il suo autoritarismo. Ma la scrittrice, nonostante quella prima impressione, andrà avanti pur non sapendo ancora come quell’incontro, strano e poco piacevole, sarà l’inizio non solo di un percorso lavorativo, ma anche di una conoscenza di se stessa. Non sa ancora che Antonia, come dirà più avanti scrivendo il libro, assomigli “a una bambola russa che ne contiene altre più piccole, tutte con i pomelli rossi e gli occhi bistratti”, una matrioska, insomma. Ancora non lo sa, ma inizia tirando fuori il suo piccolo registratore…
Cristina Comencini, regista e scrittrice, con Matrioska esegue il ritratto di due donne profondamente diverse sia per carattere, sia per professione, sia per esperienze di vita. Antonia è tendenzialmente proiettata verso il “ciò che è stato”, Chiara, invece, è lanciata verso il suo futuro: la sua crescita professionale, il rapporto con suo marito e la crescita dei figli. Talmente diverse che lo scontro è inevitabile così come è inevitabile il non fuggire in quella sorta di battaglia, ma scontrarsi e combattere continuamente. Ma alla fine, tale lotta non è mai fine a se stessa perché il tutto si inserisce in un quadro nel quale le due protagoniste, in qualche modo, si avvicinano e si completano. Ad un certo punto, si verifica una sorta di transfert: “da quando l’ho incontrata sono assediata dai miei ricordi, li mischio ai suoi”, dirà Chiara. La Comencini, con la delicatezza che le è propria, riscostruisce un universo femminile in tutte le sue articolazioni e complessità. Sia la complessità di Antonia, la matrioska, e della sua vita colma di tante storie che si intersecano, si moltiplicano, si sovrappongono. Sia la complessità, meno evidente, di Chiara che si ritrova a rievocare ricordi del suo passato legato a una madre mancante. E la figura della madre (nelle sue esplicazioni/varianti di rifiuto, abbandono, morte), infine, diviene una sorta di punto di contatto tra le due protagoniste. Divise, ma unite.


sabato 14 settembre 2019

IL FALLIMENTO DELLA CONSAPEVOLEZZA - Raffaele La Capria


Titolo: Il fallimento della consapevolezza
Autore. Raffaele La Capria
Editore: Mondadori
Anno: 2018
Genere; Saggio letteratura
Pagine: 113

A Napoli, città dai mille volti che recita se stessa, vi nacque. Era l’anno 1922. Nacque in quella città fortemente ambigua nella quale la linea di demarcazione tra il vero e il falso è perennemente instabile, in un clima, quello del fascismo, di falsa coscienza diffusa. Egli, scrittore, ha cercato sempre di rompere le catene derivanti da tali condizionamenti, auspicando altro, rincorrendo un oltre “per sentirmi uno scrittore il più possibile libero”. La sua è stata, fondamentalmente, un’epoca senza maestri e la sua àncora di salvezza l’ha sempre scorta nella letteratura. Fu Benedetto Croce il suo punto di riferimento nonostante se ne parlasse poco, nonostante intorno al suo nome si fosse innalzata una cappa di silenzio. Croce diede a lui, e ai giovani della sua generazione, la possibilità di accedere alla modernità e fu sempre grazie a Croce che si instillò nel giovane La Capria un concetto fondamentale, ossia che la letteratura fosse uno strumento potente in forza della quale “si poteva intraprendere il cammino verso una libertà spirituale e intellettuale che, allora, durante il periodo fascista ci era negata”…
Raffaele La Capria è uno tra i più grandi autori della letteratura italiana, vincitore, tra gli altri, del Premio Strega con il romanzo Ferito a morte che, all’età di 96 anni, torna in libreria con quest’opera nella quale pone l’accento su quella che, appunto, è stata la sua carriera di scrittore e intellettuale. Scandaglia le sue opere, disserta sulla funzione dello scrittore che, sottolinea, deve essere quella di “critico della società cui appartiene, non in senso negativo, ma come portatore di una conflittualità interna alla società che dovrebbe essere vivificante e creativa e servire a migliorarla.” Pagine che ruotano tutte intorno alla letteratura e a Napoli, sua città natale, che viene soprattutto richiamata per criticare aspramente quella definizione/luogo comune di “letteratura napoletana” che, da sempre, gli è parsa ostica, restrittiva vedendo, in essa, un allineamento assurdo di scrittori profondamente diversi tra loro e trascurando, in tal modo, le peculiarità di ognuno di essi per volerli cacciare, in nome di una definizione, nel medesimo sacco; chiedendosi anche perché non esista, di contro, una letteratura “milanese” o “torinese”. Si entra, con questo volume, nell’immenso mondo della letteratura, nel mondo di La Capria che ci offre anche un capitolo di autopresentazione: chi è La Capria? Uno scrittore estemporaneo, fedele alla sua vocazione letteraria seppure sempre distratto da altro. Si conoscono le sue opere, il suo percorso di crescita, il suo approccio con Croce, si legge di una sua conversazione con De Masi e ci offre, finanche, le lettere che lo stesso inviò, militare a Caserta, al suo amico Peppino Patroni Griffi. E il tutto si legge con grande ammirazione e interesse.

martedì 27 agosto 2019

LO STRADONE - Francesco Pecoraro

Ristagni

Titolo: Lo stradone
Autore: Francesco Pecoraro
Editore: Ponte Alle Grazie
Anno: 2019
Genere: Romanzo
Pagine: 443

Città di Dio. L’uomo ha oramai settant’anni e abita, da circa vent’anni, al settimo piano di una palazzina, lì nello Stradone dove “la città fa una pausa”. In quel frammetto di città dove insiste lo Stradone ci sono entità umane diacroniche, tutte estranee tra di loro: vecchi come lui che si incontrano al bar, il Porcacci, a bere un caffè che è sempre cattivo, dove ci si scambiano poche parole o, al contrario, dove si possono dire stronzate per ore perché li, al Porcacci nessuno te se ‘ncula, ed è proprio questo il bello, alla fine. Ma c’è anche il tifo per ‘a squadra  che pare quasi unirli questi estranei perché essa assurge a “ultimo ente simbolico” che dà un senso di appartenenza con quel suo avere “tacitamente la precedenza su tutto e tutti”. La facciata del suo palazzo è esposta a nord, non prende mai il sole. E da lì il suo occhio vigile e sensibile vede tutto, soprattutto vede ciò di cosa sono capaci gli incapaci, vede come l’inerzia dell’amministrazione, la stupidità di tecnici-architetti-urbanisti incida negativamente su una porzione di citta, o meglio di non-città. O forse non è esattamente così: forse è vero che la città che si costruisce è un prodotto collettivo: “la città demmerda è un’incerta auto-celebrante messa in figura della gente demmerda che ci abita e la costruisce”. Ma tant’è. L’uomo, l’anziano, il fallito, sta bene e sta male nello Stradone, incasellato nella categoria degli Inutili o, meglio, dei Dannosi. Il Sistema gli ha concesso una pausa pre-morte (morte, non trapasso, non scomparsa) con una pensione calcolata ai tempi della socialdemocrazia…
Francesco Pecoraro, poeta, scrittore e architetto, è tornato, quest’anno, in libreria dopo un intervallo di sei anni dall’uscita del suo precedente romanzo, La vita in tempo di pace, che gli valse numerosi encomi dalla critica. Lo Stradone, in primis, è un’opera, con le sue 400 pagine e oltre, che affascina anche per il suo essere ibrida, non essendo facile inserirla univocamente in una precisa categoria: è un romanzo, ma anche un saggio, anche un memoriale. Manca lo schema tipico del romanzo, del “raccontare una storia” con tutti i tipici elementi che una storia dovrebbe avere. La vera protagonista è, alla fine, una voce, senza nome: voce che proviene da un anziano, con i capelli diradati, guance infossate, pelle ingiallita, un anziano come altri, come tutti gli anziani del mondo. Voce che incessantemente parla, di sé, dei suoi fallimenti, dei suoi sogni di accademico infranti, del suo inserimento in un Ministero, del suo inserirsi, poi, nel partito socialista, della corruzione, dell’arresto. Ma è anche una voce che parla di quella porzione di città nella quale si fabbricavano i mattoni per la creazione della città di Dio. E che parla dell’oggi, dei “jeans falso consumati. Falso strappati.” E delle “birre falso-artigianali”. E noi, incantati, seguiamo quelle parole che ci portano al degrado, al Ristagno, a quel senso di non-appartenenza costante. E vediamo quei vecchi, nello Stradone, con i loro terribili giubbotti multi-tasche, che consumano la loro pensione raschiando gratta&vinci, vediamo la loro solitudine e sentiamo anche le voci dei fornaciari, con il loro peso di mattoni da 36 kg, e er Partito e la sindacalizzazione e Lenin in Italia e l’edilizia con la sua necessaria speculazione e le case dell’IACP. Tutto vediamo e sentiamo. Un’opera nuova, originale quella creata da Pecoraro anche per l’uso sapiente di registri narrativi differenti, per il passaggio, sempre senza sbavature, da linguaggi prettamente letterari, elevati, poetici, aulici talora, all’uso di linguaggi tecnici o all’uso del romanesco o, anche, alla trasformazione di lemmi onde ricavarne neologismi.

Articolo già pubblicato su Mangialibri


giovedì 4 aprile 2019

OGNI ANGELO È TREMENDO - Susanna Tamaro

Infanzie infelici


Titolo: Ogni angelo è tremendo
Autore: Susanna Tamaro
Genere: Romanzo autobiografico
Editore: La Nave di Teseo
Anno: 2018
Pagine. 268

Una lettura faticosa, farraginosa, e un sospiro di sollievo a lettura ultimata. E, in qualche modo, ho rivissuto le sensazioni provate tanto tempo fa alla lettura del grande successo della Tamaro, Va’ dove ti porta il cuore che, appunto, mi lasciò una sensazione non piacevole. Insomma, ci sono amori che non potranno mai nascere.

Italia, Trieste. Quando lei nacque, nell’anno 1957,  la bora soffiava forte. La bora, una bora scura e intrisa di neve, continuava a soffiare quando uscì dal sanatorio mentre con i genitori percorreva una ripida salita che li avrebbe condotti a casa, la prima casa della sua vita. Quella casa si trovava in una palazzina di cemento armato costruita, nell’immediato dopoguerra, sulle macerie di un edificio distrutto dalle bombe. In quegli anni “costruire case e mettere al mondo figli era l’imperativo quasi biologico” e i suoi genitori, come tutti, non si sottrassero a tali impegni tassativi. Allora, suo padre e sua madre, erano giovani e anche ingenui e, in nessuna circostanza, furono anche solo sfiorati dal dubbio che un figlio anziché un “arpione lanciato verso il futuro” potesse, invece, diventare un’ancora che, una volta che è stata issata a bordo, ha la forza e la capacità di trascinare con sé strascichi dal fondale del passato. No, non lo sapevano né lo immaginavano. Forse perché, quei due, non “avevano mai avuto davvero il tempo di osservare il mondo con gli occhi di un neonato.”…

Riprendendo un verso di Rilke, appunto Ogni angelo è tremendo, nel 2013, la Tamaro ha consegnato ai lettori la sua biografia, ripercorrendo gli anni della sua infanzia, dell’adolescenza fino all’età adulta, fino alla Tamaro autrice del best-seller Va’ dove di porta il cuore e delle opere successive. E ne vien fuori il ritratto di una infanzia triste, fatta di dolore, di solitudine, il malinconico dipinto di una bambina perennemente insonne che, per intere ore, piangeva. Apparentemente senza motivo. L’autrice espone, senza remore, il suo mondo sempre minaccioso e la sua visione del mondo esterno, anch’esso terribilmente non protettivo, minaccioso anch’esso. E, infine, quel dolore, quelle assenze, quei pianti, quella solitudine, quelle fragilità che, dall’infanzia, si incollano alla pelle, si trasformano, senza sparire del tutto, in forza, in cambiamento. In opportunità. In strade differenti. Da un lato, indubbiamente è un viaggio introspettivo che possiede quasi il sapore di una seduta terapeutica, di cui però ci si sente spettatori invadenti o, comunque non invitati, e che, dall’altro lato, risulta purtroppo confuso, poco omogeneo, spesso ripetitivo e prolisso.

lunedì 25 marzo 2019

TERRE DI LATTE - Giuseppina De Rienzo

Scosse

Titolo: Terre di latte
Autrice: Giuseppina De Rienzo
Editore: Manni
Anno: 2018
Genere: Romanzo
Pagine: 206


Antonia e Andrès, sono due fratelli che hanno quasi raggiunto la sognila dei quarant’anni, insieme in viaggio verso l’Irpinia, là dove si trovano le loro radici. La terra nella quale hanno vissuto fino all’adolescenza. Quella terra di latte devastata dal terremoto del 1980. La terra della nonna Tonia che si occupò di loro. Alla guida Andrès che rallenta quando si trova davanti il tabellone con la scritta Irpinia. Quello è l’ingresso per un altro mondo, pensa Antonia. Tornano in quei luoohi che li hanno visti crescere, divenire adolescenti per svuotare i la casa della loro infanzia, la casa dove hanno vissuto i loro genitori prima della loro tragica e letale caduta, in auto, in un dirrupo che li ha risucchiati, dopo un volo da un cavalcavia.  Morti insieme, quei due, uniti fino alla fine.  E i loro due figli rimangono orfani. Soli. Ma incatenati tra loro. Fortemente uniti  da un amore immenso, forte, quasi sensuale, tale da sfuggire a qualsiasi ordinaria o conosciuta definizione, perché “uniti da onde invisibili agli altri”. Un legame che ha sede nell’anima, profondamente silenzioso perché non aveva mai avuto bisogno di parole.

Terre di latte dell’autrice napoletana Giuseppina De Rienzo è un romanzo pubblicato nel 2018 tutto incentrato sul tema delle origini, o meglio del ritorno alle stesse. Il ritorno alla terra d’origine, l’Irpinia, nella quale, è sepolto il passato, i ricordi, i pesi e le gioie di qualcosa che non potrà più tornare. Con una prosa raffinata, a momenti lirica, l’autrice ci trasporta nel mondo dei due fratelli protagonisti con un’analisi, accurata e tagliente, del loro animo, delle loro fragilità, delle loro paure. Più che un’analisi quello che compie l’autrice è uno scavo profondo, operato con una non comune sapienza e delicatezza. È un romanzo che dà la stura a numerose riflessioni su temi centrali di ogni esistenza: la morte, la vita, l’infanzia, i legami familiari. Le parole della De Rienzo si muovono in un equilibrio tra dolcezza e amarezza, in terre di latte nel quale il prima e il dopo si confondono mescolandosi con “l’adesso” di Antonia e Andrès, con le loro paure, le loro scelte, forse sbagliate. È tutto un bivio. Fare ancora l’attore, per Andrès, o tornare in Irpinia?  E lei, Antonia, col suo petto prorompente, madre pur senza figli, madre di qualcuno, di qualcosa. Di Paolo o di Niccolò?
Una lettura interessante, un viaggio tra passato e presente, tutto senza punti fermi. Tutto un forse. Si vive in bilico, sull'orlo di precipizi. Si cade qualche volta. Ci si rialza qualche volta. Si attende, sempre. Qualcosa o qualcuno. Da allattare.


martedì 4 dicembre 2018

DIO È TORNATA - Vauro Senesi

Ella

Titolo: Dio è tornata
Autore: Vauro Senesi
Editore: Piemme
Anno: 2018
Pagine: 270
Genere: Romanzo


Sa. Ha la consapevolezza di se stessa all’interno del ventre materno. Si percepisce. Sente il dolore fisico: dolore e amore che si fondono nel magico momento della creazione. Sa. Sa che sta per essere generato, partorito. Stavolta però è diverso: sarà partorito donna. “Fatto uomo sono concepita donna. Donna mi sono generata”. Ha molto freddo e si sofferma sulla sua nudità, non potendo non ricordare come sia nudi che si nasce. Ai piedi del letto vede una coperta ruvida, di colore marrone, e se la avvolge al corpo. Sarà Don Mario a trovarla per strada, e come suo solito, si preoccupa per quella giovane, scossa da tremiti di freddo ma con le mani calde, le chiede di seguirla e lei lo fa. Arrivano nell’abitazione del sacerdote: ad accoglierli trovano Giuseppina la quale, appena li scorge, chiede dove il buon Don Mario abbia raccattato quella ragazza. Perché, è chiaro, una cosa è la carità, che a nessuno si nega, un’altra cosa è portarsi in casa ogni squinternata che Dio manda in terra…
Vauro Senesi, vignettista satirico, giornalista e anche scrittore, ci offre un ritorno di Dio in terra con il quid pluris  della sua declinazione al femminile. Un Dio, quello di Senesi, fuori dai canoni ordinari. Se vogliamo, non onnipotente, che si arrovella con una infinità di dubbi, terreni e no. Un Dio-donna che si cala a perfezione in un mondo terreno, toccando e assaporandone ogni cosa. Conosce il male, il dolore, e già, conosce intensamente pure il dolce sapore dell’amore, la gioia dell’innamoramento, il fuoco della passione negli occhi e nelle parole mute di un mimo, il cui nome è Mimmo. Dio è fragile, insicura e percorre tutti gli anfratti di questo materiale mondo, con passo incerto, titubante, vivendo avventure tragicomiche, leggendo nell'animo delle persone, immedesimandosi con le figure incontrare, rivivendone in modo quasi fisico il loro passato. È empatico questo Dio-donna, si fonde con l’altro, riflette, ascolta, cerca di comprendere senza mai giudicare. E nel suo agire è come se quella netta linea di demarcazione tra divino e umano si dissolvesse.Nonostante la lettura non risulti della stessa intensità per tutta la durata del romanzo, essendo alternata da momenti alti e da altri poco convincenti, nel complesso, vista anche l’interessante idea di partenza, si rivela una gradevole lettura, seppur non imperdibile

lunedì 12 novembre 2018

FOLLIE DI FINE ESTATE - Samuele Cau

Attese

Titolo: Follie di fine estate
Autore: Samuele Cau
Editore: Bonfirraro
Anno: 2017
Pagine: 318
Genere: Romanzo


La rievocazione di quel tragico 29 settembre 1944 accompagnato da buon cibo e buon vino. A dire il vero, spesso, quei buoni piatti siciliani prendono il sopravvento sul resto, ma nel complesso una gradevole lettura considerando che è il primo romanzo dell'autore (che per via del cognome pensavo fosse sardo). 
Nel settembre del 2006, Santo Bellomo riesce finalmente a fare un viaggio in Sicilia, terra nella quale sono nati e cresciuti, fino al trasferimento in Argentina, i suoi genitori. In quella terra, nell’ultima casa del paesino, ritroverà Gaetano Venticinque, amico d’infanzia del padre. La loro fu un’amicizia forte e intensa e durò fino a che la follia fascista non li costrinse a dividersi. Il padre di Santo, per salvarsi, scelse di emigrare e Gaetano rimase in Italia per amore di Concetta. Gaetano perse tutto, sogni, amore e speranze e si ritirò, a vivere da solo, con la sua barchetta. Appena giunto, Santo, trova una pensione-ristorante gestita da due gemelli che gli assegnano la camera numero tri e il nostro Santo ancora non sa che, per una serie di eventi, quella camera sarà sempre sua. E sente anche chiaramente l’acquolina in bocca quando, il primo giorno, uno dei gemelli, Santo, gli comunica il menù della sera pisci spata all’acqua pazza e pasta frisca, cozza, pacchino e ricotta e quello sarà il primo di una lunga serie di pasti che faranno impazzire il suo palato. E, soprattutto, con quell'incontro si seminerà il germe di una nuova amicizia che inizierà con le parole di Santo:
"Innanzitutto, mi devi ascoltare e te lo dico schietto. A mia, stu' darisi del lei, mi ha sempre scassato la minchia. Tu come hai detto che ti chiami? (Pag. 17)
Opera prima del fiorentino Samuele Cau, Follie di fine estate è una storia di grandi amicizie, di solitudini, di perdite, di mare, di profumi e di cibo. Sotto il caldo sole siciliano, nella quiete di fine estate, tra i goduriosi piatti di pesce, si muovono racconti di vite fatte di dolore e di grandi strazi. I protagonisti, tutti, hanno un peso nel cuore, qualcosa di insoluto e ferite che bruciano, nonostante lo scorrere degli anni. Perché ci sono dolori che non passano. Uomini segnati dalla Storia che sia quel famoso 29 settembre 1944 nel quale ebbe inizio la strage di Marzabotto o la terribile dittatura argentina o qualche fatto privato risalente all'infanzia e rimasto tra i ristretti confini di un’isola, ma non per questo meno atroce. Uomini lacerati, feriti, che vivono di ricordi che non sono mai troppo lontani e che, resistono, attendendo, già poiché, alla fine, la loro grande forza risiede nel saper aspettare. Per quanto il tema di fondo risulti drammatico, il risultato è un’opera assai  scorrevole, intervallata da momenti di allegria –come dimenticare quei succulenti pasti siciliani o l’atteggiamento scherzoso del ristoratore?- e di forte ironia.












venerdì 20 aprile 2018

LEGGENDA PRIVATA - Michele Mari


"Nacqui in inverno"

Titolo: Leggenda privata
Autore: Michele Mari
Editore: Einaudi
Genere. Romanzo
Anno: 2017
Pagine:171


Leggenda privata è il primo romanzo che leggo di Michele Mari, autore che mi ha sempre incuriosito tanto. Sono rimasta folgorata dallo stile di Mari tremendamente originale, alto, mutevole. Rimane impresso senza dubbio.

Nacqui d’inverno, al nostro discontento. Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine; la bio-vita, la polpa; il mondo, il deserto, ove tallotta uno scorpio, un crotalo, un formicaleone; oppure il sitibondo che ti amputa e scortica per succhiarti la fibra: «Ma prendi i miei fiori» gli dici col pensiero, «alliétati di quella fragranza»: macché, vuole attingere al bio, colui, né più né meno degli Accademici; e tu resti poi monco, fiorito ma monco, e ludibrio alla famiglia dei cactus e degli alberi tutti. (incipit)

Alla mezzanotte lo scrittore Michele Mari è stato convocato nella Sala del Camino. Era buio, ma lui sentiva la presenza di tutti loro. Quello che Gorgoglia gli ha chiesto la sua autobiografia. Ma come la mettiamo con l’altra autobiografia già commissionatagli, la settimana precedente, dall’Accademia dei Ciechi? E no! Ha precisato Quello che Gorgoglia: questa dovrà essere diversa, totalmente nuova e solo un fatto potrà essere ripetuto: l’essere egli nato da un amplesso abominevole. “Scrivi” continuano a ripetergli. E il povero Michele ha paura, ha il sospetto che potrebbero anche affidare l’intera faccenda a Quella dalle Orbite Vuote e questo proprio non lo sopporterebbe. Proprio no. E scrive della sua nascita, avvenuta in inverno, otto mesi dopo il concepimento e il numero otto, si sa, è simbolo di aberrazione. Ma egli non fu mostro, però fu mostruoso fu il rapporto che intrattenne con se stesso. Poi di cosa potrebbe parlare per rimanere nel concetto di “bio”? Di Ovidio il bidello? O dello studio o del fatto che egli fu cupo e spinoso come un cactus e produsse dei fiori cibandoli delle sue stesse polpe? E tutti quei grumo-nodi irrisolti? Il grumo-nodo padre? Il grumo nodo madre?...

"Il fatto è che scrivo al ribasso. Non invento, non enfatizzo: grado della mitopoiesi molto vicino allo zero. Semmai ometto, attenuo, eufemizzo. Ma questi mostri vogliono il carnevale, l’euforia della forma: per cogliermi lì, ignudo sotto un travestimento così sfarzoso da non poter diventare una seconda pelle. L’idea è che l’ingombro del travestimento sia tale da trasformarsi in una prigione." (Pag. 99)

Michele Mari torna in libreria con una autobiografia definita horror. In uno scenario tra il fantastico e il grottesco, l’autore scava nel proprio passato, per affrontare paure e mostri più o meno malvagi. E sono proprio gli anni della giovinezza – tema peraltro non nuovo nelle opere del Mari – quelli nei quali si trova precipitato, per merito o colpa degli Accademici, per impelagarsi nel suo labirintico passato di dubbi, fobie, ma anche amore e cercare di dipanare quelle matasse – o meglio grumo nodi – da cui ha origine la sua natura quasi scissa: una madre la cui divisa era la tristezza e un padre, il noto designer Enzo Mari, ingombrante e immenso.  È un romanzo crudo, ma anche crudele, feroce, senza orpelli nel quale l’autore si trova a fare i conti con la sua infanzia perché benché, come il medesimo ha dichiarato “piena di traumi e di lutti” rimane per lui la “cosa più significativa”  che ha vissuto. E le sue parole colpiscono e feriscono perché prive di addolcenti, di anestetizzanti neppure blandi. Entra a testa alta nel suo passato, nei suoi conflitti familiari, nelle sue guerre, senza alcuna corazza. Coraggiosamente. Il tutto con il suo stile originale, fuori da schemi preconfezionati nel quale si passa, con nochalance, da un registro linguistico ad un altro e con l’uso sapiente di una lingua che risulta, ad ogni pagina, fertile, ricca e variegata. Il libro è inoltre intervallato da una trentina di fotografie  in bianco e nero che accompagnano e esplicano la lettura degli eventi narrati, ma che – in qualche modo- parlano da sole.

giovedì 12 aprile 2018

BASTARDO POSTO - Remo Bassini


Città bastarda

Titolo: Bastardo posto
Autore: Remo Bassini
Editore: Perdisa Pop
Anno: 2010
Genere: Romanzo noir
Pagine: 178


Paolo Limara è un giornalista famoso, scrive per “La civetta”. Un tempo si mormorava che sarebbe diventato il nuovo direttore, ma le cose cambiano - esattamente come cambiano le voci.  In certe notti senza nebbia e senza luna, dopo le tre, si ferma davanti a una vetrina per osservare un manichino senza sesso in un negozio chiuso da ormai quattro anni. Non si vergogna a star lì, immobile. Si ferma a macinare mille pensieri e fuma. Una sigaretta dopo l’altra. A mettere insieme pezzi di uno strano mosaico. La sua vita è distrutta. Paolo Limara è un uomo che soffre: Valeria è morta. Di incidente stradale, è stato detto. È morta proprio mentre parlava al telefono con sua zia Luigina. Valeria era la sua amante. Tutti quanti lo sanno, anche sua moglie Graziella. Valeria l’ha tradito. Forse. Era una grande troia. Forse. Paolo Limara non sa che dietro quella silenziosa vetrina c’è, al buio,  anche un’altra figura: è una donna, la ex proprietaria di quel negozio abbandonato…

Una storia crudele e velenosa quella che ci racconta Remo Bassini nel suo quarto romanzo tutto fatto di vite che si incrociano, si sfiorano e si distruggono. L’autore pare osservare - esattamente come fa il giornalista Paolo Limara - una vetrina nella quale però non ci sono manichini muti e senza sesso, ma uomini e donne e storie che richiamano altre storie. Storie di male. Tante.  L’autore, con abilità da cronista, ci presenta uno spettacolo zeppo di ipocrisie, di verità – molteplici e diverse – di pedofilia, di strane sparizioni, di malavita, di corruzione, di videopoker, di silenzi imposti, di famiglie distrutte e di mafia all’interno di una piccola città di provincia. Una città bastarda nella quale il senso di colpa, il dolore e le paure si mescolano fino a confondersi in una nebbia perennemente presente. E non si può tornare indietro. E non si possono più pronunciare quelle parole che dovevano essere pronunciate prima. Non si può scappare, non ci si può nascondere se si è giornalisti famosi, non è concessa la grazia di un dolore intimo da consumare tra le quattro mura domestiche. No, non è possibile anche perché il dolore privato non può esistere in questo bastardo posto. Le parole di Bassini precipitano come cascate, sono rapide, improvvisamente si interrompono senza che si possa percepire un seppur minima sensazione di pausa. Nessun riposo è consentito una volta che si è avvolti da quel vortice. Un vortice di parole che quasi frastornano che si susseguono e si consumano, quasi impercettibilmente, in sole cinque notti. Cinque notti intense e nere nelle quali tutti paiono destinati ad essere sconfitti e annientati. Dai rimorsi, dalle paure, da ciò che non si può combattere e da quello strano e incredibile, ma tremendamente verosimile, mosaico che si tenta lentamente di ricostruire forse troppo in ritardo. Forse perché è il gelo della morte che arriva sempre puntuale, se non in anticipo.

Altri libri:

lunedì 19 marzo 2018

SE MI DISTRAGGO PERDO - Anna Giurickovic


Sussurri 
Titolo: Se mi distraggo perdo
Autore: Anna Giurickovic
Editore: Gorilla Sapiens edizioni
Anno: 2013
Genere: Racconti
Pagine: 144


Nicola, sotto la cappa di afa che domina Sabaudia, guarda Luisa con le sue caviglie gonfie, con la pelle che si increspa attorno alle labbra. E ricorda la soffitta nella quale avevano vissuto da giovani e l’amore consumato sulle note dei Guns N’ Roses. E, soprattutto, ricorda che si innamorò dei suoi malleoli…Crizia ha venticinque anni, è una sfigata. Lo è sempre stata.  Sua madre era iperprotettiva, lei non usciva, faceva i compiti e mangiava, mangiava…Marinuzzedda e Giovanna si incontrano dopo tanti anni. E iniziano a ricordare le figure che hanno popolato la loro gioventù. Giovanna ricorda quanto fosse brutta Marinuzzedda e, nonostante ciò, si è sposata e ha avuto figli, dal canto suo Marinuzzedda ricorda quanto buttanazza fosse la cara Giovanna…Lui è andato via, ma lei lo aspetta. Ogni notte, ogni santa notte. E prepara la cena, la tiene in caldo. Lo sa che lui è andato via perché lei è ormai vecchia…

Sono quattordici i racconti che formano la raccolta Se mi distraggo perdo della giovane catanese Anna Giurickovic. Con una scrittura vivace, moderna non scevra di una singolare delicatezza, quasi sfiorandoci, l’autrice ci apre le porte di un universo tutto al  femminile, con le sue molteplici varianti, con le sue fragilità e paure, avendo cura di non tralasciare alcuna sfumatura. Sono storie molto diverse tra loro e ognuna di esse risulta filtrata dall’occhio e dal sentimento di donne che, a modo loro, hanno affrontato l’amore, il rapporto  filiale, la morte, l’abbandono. Le protagoniste della raccolta si nutrono di pensieri, vivono degli stessi, ripercorrono, come se stessero guardano un album di vecchie fotografie, il loro passato senza mai tentare di riscriverlo o accettano il presente e le scelte altrui aspettando, spesso in silenzio o tra le parole di un monologo interiore, che le cose cambino o che qualcuno ritorni. Son donne che sussurrano, non urlano. A fine lettura, rimane addosso un alone di malinconia, quasi soave e mai fastidioso.


Recensione già pubblicata su Mangialibri

Vedi anche:
Alcuni casi stupefacenti tra cui un gufo rotto, Davide Predosin

giovedì 15 marzo 2018

L'ALBERO DI GIUDA - Silvana Grasso


Il capitale

Titolo: L’albero di Giuda
Autore: Silvana Grasso
Editore: Marsilio
Anno: 2011
Genere: Romanzo
Pagine: 297



Una bella sorpresa questo romanzo perché vivace, frizzante, ironico, ma – a suo modo – anche triste e melanconico.

Sicilia, Bulalà. Alle sei e tre quarti del 15 giugno  Sasà Azzarello, arrivava, puntuale come sempre, alla cancellata della Villa Comunale. Lì, in quella Villa, luogo d’incontro con i suoi amici – o quasi amici, o forse per niente amici – il settantenne Sasà sente, ogni volta, il respiro del mare. Certo, non tutti potevano sentirlo quel respiro: bisognava averci l’anima, bisognava non essere bestiacce con il cervello crudo. Un’anima fine ci voleva, come la sua che non solo il respiro, ma anche il cuore del mare sentiva e ciò in barba alle amarezze che la vita gli aveva donato. E quelle bestiacce dei suoi amici, che di fine non avevano proprio nulla, figuriamoci l’anima, gli ripetevano quanto cretino fosse. No! Non era il mare quello: erano le ciminiere quelle che sentiva. Ma Sasà, intelligente com’era, lo capiva che erano solo degli invidiosi, in  particolare il logorroico Cataratta che ci moriva d’invidia. Ed era anche normale: Sasà è colto, laureato figlio del direttore didattico. Sasà che tutti a Bulalà, chiamavano il filosofo. Per sfotterlo, certo, ma filosofo lui lo era. E il vecchio settantenne ogni volta si riprometteva di non incontrarli quegli avvelenati di invidia , ma poi si ritrovava nel cancelletto della villa perché, in fondo, quei maledetti erano meglio della solitudine, sempre meglio dei ricordi della sua triste vita…

Pubblicato per la prima volta con Einaudi nel 97 poi con Marsilio nel 2011 L’albero di Giuda -tra l’altro vincitore del premio Napoli e del Premio Vittorini nel 1997 – è un romanzo ironico, frizzante, e surreale nel quale, con il veicolo della comicità e del paradosso, si affrontano tematiche forti. Sasà, il protagonista, ormai anziano, ripercorre gli anni della sua vita passata, marchiati dall’infelicità, per scelta propria e altrui, per destino, per mancanza di coraggio, per un arrendersi al corso degli eventi. Si parla di amore, quello grande di Sasà per la friulana, un amore contrastato dal padre, figura dominante, si parla del rapporto padre-figlio nel quale il genitore pretende, e si impegna alacremente in questo, per scrivere la vita del figliolo: decidendo, sin dalla nascita, il suo ruolo nel mondo, la sua intelligenza e, naturalmente, il possesso –tra le gambe – di quel preziosissimo “capitale” perché lui è figlio del direttore didattico!  Tutto nella norma in quella realtà descritta dalla Grasso nella quale la virilità è bene assoluto per quanto poi si tratti solo di virilità solo illustrata e decantata, ma mai dimostrata nel concreto nei fatti. A fine lettura rimane un senso di amarezza perché, alla resa dei conti, nessuno ha vissuto davvero la vita che voleva o, ancor peggio, nessuno ha compreso cosa effettivamente volesse dalla vita…ma, poi, volevano davvero qualcosa? Ampio spazio, in questo assurdo quadro, trovano i ripetuti e costanti pensieri di morte: Sasà, per tutta la vita, ha sognato il suicidio ponendo in essere tentativi sfioranti il grottesco. E solitudine tanta e, poi, la vecchiaia il decadimento, la sordità, i passi lenti, il balbettio. Il tutto narrato con toni comici, divertenti, amari con un uso largo del dialetto che colora e vivacizza.


giovedì 4 maggio 2017

LA DISFIDA - Giorgio Caponetti

Ostrega!

Titolo: La disfida
Autore:Giorgio Caponetti
Editore: Marcos Y Marcos
Anno: 2016
Genere: Romanzo
Pagine: 383

Tra Venezia e Trani si muovono, frizzantemente, i protagonisti di questo avventuroso romanzo. Caponetti è stata, senza dubbio, una bella scoperta. Divertente e scoppiettante quanto basta.

Venezia, 2013. “Ostrega de n’ostrega, che giornà de merda!”  con queste parole inizia la giornata, di Alvise Pàvan de Canal. Una giornata iniziata male e che pare promettere il peggio. All’alba giunge la telefonata con la quale gli comunicano che il suo bellissimo stallone lipizziano, Napoleone, si era ritrovato con una gamba storta e impossibilitato a tirarsi su. Alvise, addolorato, si precipita a Sant’Erasmo per comprendere che, da quel giorno, non avrebbe mai più avuto un cavallo. Torna a Venezia perché ha un appuntamento con il notaio per la vendita della barca, precisamente il Sangermani che, si sa, tra le barche è . “quello che uno Stradivari è fra i violini”, cosi diceva suo padre, il conte Zeno. E mentre si accinge ad entrare nell’ufficio per la firma riceve un messaggio al cellulare: è della sua ex moglie, vuole parlargli. Solo quello ci mancava: proprio una giornà de merda. Che fare? Partire, ovvio. Dove? Dove il vento lo porterà. E, appunto, con la sua barca trasportata dal vento giungerà a Trani. Sarà accolto dal famoso ammiraglio Diomede che lo invita a cena e, in tale occasione, gli mostra una pergamena datata 13 settembre 1503 a firma di un suo antenato, nonché omonimo, il quale riconosce il suo debito, ammontante a dieci ducati, nei confronti del signor Agamennone Diomede con annesso tasso di interesse nella misura del 5%. C’è un debito e, come tale, va onorato. Ma chi era quel suo antenato? E perché contrasse quel debito?....

Alvise Pàvan dal Canal, gentiluomo veneziano amante dei cavalli e del mare, è il personaggio nato dalla penna di Giorgio Caponetti che, con La disfida, giunge alla quinta avventura di quella che è stata una fortunata serie iniziata con Due belle sfere di vetro ambrato. Alvise, ha raccontato l’autore è nato durante una passeggiata a Venezia quando lo stesso ha immaginato una sorta di Indiana Jones che fosse, in qualche modo, simile all’autore esperto di cavalli e “siccome parlare di cavalli a Venezia poteva sembrare strano, tanto valeva esagerare”. Strutturato in un alternarsi di due epoche storiche differenti, quella attuale e quella rinascimentale, La disfida ci offre una storia appassionante e intrigante ricca di momenti divertenti e di quel pizzico di mistero che ne fanno un libro piacevolissimo da leggere grazie, appunto, alla mescolanza perfetta di elementi differenti. Su tutto dominano le buone maniere del protagonista e il suo amore sia per il mare sia per gli animali che costituiscono la base su cui si muovono i fili della storia. Da non trascurare l’uso delle espressioni in dialetto veneziano che arricchiscono, colorandole vivacemente, le vicende narrate. E alla fine non resta che attendere una nuova avventura del nostro gentiluomo, che si mormora sarà ambientata in Sardegna, sperando in giornà non troppo di merda.


martedì 21 marzo 2017

Il FILO DI MARIANNA - Maria Rosaria Petti

Creando nuovi mondi
Titolo: Il filo di Marianna
Autore: Maria Rosaria Petti
Editore: Iride
Anno: 2015
Genere: Romanzo
Pagine: 348

Sarebbe bello, un giorno, incontrare nella nostra casa Hemingway o la Yourcenar.
Sarebbe bello bere insieme un tè e chiacchierare e mescolare con la realtà il mondo dei libri. Marianna, la protagonista di questo romanzo ci riesce. E anche bene.

È il 18 dicembre del 2006, Marianna è nella cucina della sua casa di campagna, è mattino e fa colazione. Nizar, colui che lei considera il suo principe, è andato a fare la spesa. Nella casa c’è anche Agnese, ventenne che dorme ancora. Perché Agnese è lì? Perché Marianna era la migliore amica di suo padre e di sua madre. E sarà proprio Marianna a dover raccontare alla giovane dei suoi genitori. Della morte prematura del padre, Michi, e dello smarrimento di suo madre e della sua fuga in America. Inizia così per Marianna un lungo rimuginare nel passato, un battaglia con un profondo senso di nostalgia. Seguendo a ritroso il filo dei ricordi si ritrova catapultata il quel fatidico 1986, precisamente l’anno nel quale tutto cambiò. E rivede quella mattina piovosa: lei, sola in casa, intenta a scrivere quando le si palesano, senza preavviso alcuno, i suoi padrini letterari, Hemingway e la Yourcenar. Sì, proprio loro. Allucinazione? No, pare proprio di no. E comunque, nel dubbio, Marianna lasciò che la sua allucinazione “si mettesse a proprio agio” giacché lei di quei due aveva proprio bisogno…

Una dolce malinconia nasce dalle pagine dell’autrice napoletana quella stessa che accompagna, quasi sempre, i viaggi nel mondo dei ricordi. Marianna, è oramai una donna anziana, limitata nei movimenti, si guarda nello specchio e vede ciò che è stata: una dona in fuga, sognatrice, che con la sua schizofrenia onirica riesce, in qualche modo, a salvarsi: dal dolore, dalla disperazione, da ferite troppo profonde. Se un mondo, quello reale, non basta bisogna crearsene un altro intriso di letteratura e di cinema che, alla fine, diviene quasi vero e tangibile. Solo l’immaginazione, fervida non c’è dubbio, poteva garantirle di sopravvivere e tentare di assemblare i pezzi, spigolosi e taglienti, della sua vita frastagliata. Sono tentativi, è vero, perché alla fine siamo soli e la solitudine non è mai divisibile o condivisibile. E, forse, non è mai possibile fuggire davvero da un dolore. Perché il dolore ci attraversa sempre e comunque, come dirà Marianna. Malinconico, doloroso, Il filo di Marianna shakera realtà e immaginazione così convulsamente che, alla fine, tutto pare possibile: anche preparare un tè per Hemingway. Lettura piacevole nel complesso, forse appesantita da qualche pagina di troppo ma che, in qualche modo, ci permette di credere, almeno per un po’, a un salvifico mix di realtà e letteratura.