Titolo: Quando eravamo orfani
Autore: Kazuo Ishiguro
Editore: Einaudi
Anno: 2017
Genere: Romanzo
Pagine: 332
Traduzione: Susanna Basso
Ishiguro si rivela sempre scrittore raffinato, anche
se – a onor del vero – questo romanzo, pur pregevole, l’ho trovato, in alcuni
punti, poco convincente, ingenuo quasi
Nell’estate del 1923 il giovane Christopher Banks,
dopo aver terminato gli studi a Cambridge, decise di stabilirsi a Londra,
nonostante la zia lo volesse con sé nello Shorphire. Il suo sogno, coltivato
fin dall’infanzia e simbolicamente rappresentato da una lente di ingrandimento
che i compagni di scuola gli regalarono anni addietro e dalla quale mai si
separerà, di divenire investigatore, è ora una realtà. Piano, piano il suo nome
diviene noto grazie ai casi che, man mano, risolve. I misteri e la ricerca
della verità sono i suoi obiettivi principali. Già, i misteri. Uno in
particolare. Uno che riguarda la sua famiglia, la sua infanzia. È quello il
mistero che lo ossessiona. Perché tutta la sua esistenza pare non riuscire a
smuoversi davvero, ad avere un senso, fintanto che non comprenderà le ragioni
vere per le quali i suoi genitori furono rapiti a Shangai. Da quello strano
rapimento derivò il suo viaggio, ancora bambino, verso l’Inghilterra, presso la
zia. Ma lui ha deciso che tornerà lì, a Shangai, troverà il nascondiglio nel
quale si trovano i suoi genitori, rivedrà il suo amico d’infanzia, Akira,
perché è certo, il nostro Bansk che Akira si trovi ancora lì visto che ne era
innamorato. Sarà quella la sua indagine più importante e seria della sua vita…
Kazuo Ishiguro insignito, lo scorso anno, del Premio
Nobel per la letteratura, ancora una volta
conferma, con questo romanzo, la
maestria, la delicatezza e la raffinatezza della sua scrittura sempre precisa,
attenta e priva di sbavature.. Non ci sono grandi eroi tra le pagine, ci sono
personaggi che vagano, ancorati a un passato che non hanno ben inquadrato, che errano
con una bagaglio fatto di sogni, di paure, di desideri, tanti desideri. E
quello di vagare, senza avere una dimora fissa, pare essere il destino di chi,
come il protagonista, ma anche come Jennifer, è orfano: chi è orfano non ha una
dimora, continua a cercare, indizi, verità, per colmare vuoti, per ricostruire,
a piccoli passi, frammenti di vita passati divenuti, con il tempo, sfumati,
poco precisi. Tale ricerca, quasi ossessiva, accompagna il giovane Bansk che
vive nel presente, ma è sempre proiettato nella sua infanzia, nei ricordi, come
se non avesse un’epoca, un posto suo. Per quanto si resti affascinati dalla
bellezza della scrittura, per quanto il tema di fondo sia appassionante, non
mancano delle ingenuità, delle coincidenze improbabili oltre che dei colpi di
scena poco credibili, se non proprio irreali che, di fatto – è spontaneo il
confronto – rendono quest’opera distante da Quel
che resta del giorno, che conserva intatto il podio.
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