Titolo: Il senso della lotta
Autore: Nicola Ravera Rafele
Editore: Fandango
Pagine: 438
Genere: Romanzo
Corre tutte le mattine del lunedì, del mercoledì e del
venerdì. Ne ha bisogno per non vivere in “uno stato di perenne stordimento”. Il
pomeriggio lo trascorre in redazione, al Corriere
della Sera e quando termina non torna mai a casa, esce ogni sera: per
annientarsi perché “la consapevolezza è sempre stato un problema”. Neanche le
droghe hanno funzionato. Corre anche quel giorno, un giorno diverso: il fiato
gli si annoda in gola, il cuore inizia a palpitare, cade non tanto per il
dolore, ma solo per la paura. “Musso Tommaso nato a Parigi il 2.1.1979?” questo
gli chiede il medico con i suoi occhi neri con la bocca senza labbra: è il dottor
Pinto. Gli chiede se suo padre ha mai avuto problemi di cuore. “Mio padre è morto
nel 1983” risponde lui. E poi, il medico, gli dice di aver conosciuto suo padre
e anche sua madre. È strano perché Tommaso non ha mai incontrato persone che
conoscessero i suoi genitori. Per anni, Tommaso, ha reagito alle domande con un
silenzio ostile, scontroso. D’altronde non è questo che succede agli orfani per
terrorismo?. Il tempo è stato il suo alleato, lo ha aiutato a esercitare l’arte
del distacco, a guardare le foto dei genitori solo di rado, tanto che i due
genitori hanno perduto ai suoi occhi una connotazione familiare, sono diventate
solo macchie ed è difficile “emozionarsi per l’assenza di una macchia”…
“Per
tanti anni ho reagito alle domande con un silenzio scontroso.
Il
pensiero di loro era una mosca da scacciare. A sentirli nominare avevo
l’impressione di uno strappo in una rete, uno strappo che andava immediatamente
ricucito. O il mondo intero poteva collassare in quella falla, sparire per
lasciarmi a passeggiare nello spazio vuoto. È questo che succede agli orfani? O
solo agli orfani per terrorismo?
(Pag. 23)
Nicola Ravera Rafele è uno scrittore precoce ha,
infatti, esordito a soli 15 anni con Infatti
purtroppo. Diario di un quindicenne perplesso e torna in libreria con il
suo terzo romanzo nel quale tesse un intreccio tra la vita privata di Tommaso,
figlio di terroristi, abbandonato all'età di quattro anni, e un’epoca storica che
ha cambiato l’Italia. Attraverso la voglia di scoprire il passato dei suoi
genitori, Tommaso, ricostruisce i sogni di un’epoca, i deliri di onnipotenza di
una generazione che ha fatto della ribellione e del rifiuto del sistema il suo cavallo
di battaglia, battaglia nella quale, alla fine, non si comprende quali e se ci
siano stati vincitori. La sete di verità, la voglia di comprendere chi
veramente fossero quei giovani che abdicarono al ruolo di genitori per la lotta
armata, spinge il protagonista a toccare
argomenti dolorosi, a vedere l’imponente ruolo di quegli ideali ma anche la
caduta degli stessi e udirne il rimbombo dell’ultimo tonfo. Tommaso bambino,
bambino particolare che cerca protezione, sicurezza. Nella normalità.
“Quell'equilibrio silenzioso mi sembrava la migliore
garanzia di protezione. Era il senso della durata. Mi piaceva fare i compiti
perché fare i compiti faceva somigliare ogni giorno al precedente. Non ero un
bambino a caccia di avventure. Mi spaventavano i rumori improvvisi, e se vedevo
un film che faceva paura ero capace di non dormire per tutta la notte, e questo
succcedeva quanto i miei coetanei già usavano il cinema horror come scusa per
abbracciare la compagna di banco nel buio della sala.” (Pag. 31)
Due generazioni
a confronto per le quali capirsi sembra quasi impossibile. Impossibile capire
un abbandono a quattro anni. Impossibile capire che possano esistere cose più
importanti di un figlio. Ottima prova narrativa, per quanto il romanzo non
riesca a mantenere per intero un livello alto, tra i dodici candidati al premio
Strega e non rientrato nella cinquina, offre uno spaccato dell’Italia degli
anni di piombo che viene ricucita
pazientemente, pagina dopo pagina, ricordo dopo ricordo, frammento dopo
frammento dal tenace Tommaso per il quale a un certo punto la verità assume i
connotati di un’ossessione. Perché conoscere è necessario, a un certo punto,
per conoscere se stessi e capire cosa ci facesse un bimbo di soli quattro anni
lontano dai suoi genitori.
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