venerdì 19 maggio 2017

NELLE ISOLE ESTREME - Amy Liptrot

Isolitudine
Titolo: Nelle isole estreme
Autore: Amy Liptrot
Editore: Guanda
Anno: 2017
Traduzione: Stefania De Franco
Genere: Romanzo biografico
Pagine: 272
Un romanzo biografico nel quale l’autrice racconta la sua esperienza nel tunnel dell’alcolismo e la sua risalita dagli abissi, dominato dalle descrizioni di una natura affascinante e ricca di magia quale è quella delle Orcadi.
Nelle Orcadi – arcipelago di isole tra il mare del Nord e l’Atlantico – anche nei giorni più limpidi soffia un vento freddo, lì, in quelle isole, in un giorno di maggio Amy Liptrot è nata. E proprio quel giorno il padre, allora ventottenne, urlante e fuori di sé, fu bloccato e sedato. Quella nascita fu, per quel padre fragile, un evento emotivamente forte tale da scatenargli una crisi maniacale.
"In mezzo al turbinio delle pale di un elicottero, una donna in sedia a rotelle con una bambina appena nata tra le braccia viene spinta lungo la pista di atterraggio dell’isola verso un uomo in sedia a rotelle e camicia di forza che viene spinto nella direzione opposta.
Quel giorno i due, entrambi ventottenni, sono stati assistiti nel piccolo ospedale lì vicino. 
Lei ha partorito la sua prima figlia. 
Lui, urlante e fuori controllo, è stato immobilizzato e sedato." 
(Incipit)
Le isole sono i luoghi della sua infanzia e della sua adolescenza, trascorsa in una fattoria a contatto con la natura e con gli animali. A diciotto anni, nasce in lei la voglia incontenibile di andare via perché “la vita nella fattoria sembrava dura, sporca e malpagata.” Quando lei, invece, voleva “comodità, glamour” e sapeva esattamente dove voleva trovarsi: “al centro del mondo”. Dopo dieci anni di lontananza, trascorsi a Londra e che segneranno il suo declino ma anche la sua voglia incontenibile di vita “Ero strafatta, ma non mi bastava. Volevo sfregarmi la città sulla pelle, volevo respirare le strade”, tornerà in quei luoghi: i genitori si sono separati, suo padre vive in una roulotte, porta la sua solita tuta da lavoro, il solito coltellino in tasca e porta il maglione fatto ai ferri dalla moglie tutto rattoppato sui gomiti…
Nelle isole estreme segna l’esordio in letteratura, peraltro ben riuscito, di Amy Liptrot che le è valso anche il premio Wainwright Prize 2016. Un romanzo sincero, trasparente, nel quale l’autrice narra senza veli la sua esperienza di alcolismo, la sua caduta verso il basso, definendosi un relitto, e il lento, ma tenace percorso di risalita e di rinascita. Relitti che, spesso non si perdono, ma si salvano non solo in virtù di una forza di volontà immane, ma anche grazie a un ritorno: il ritorno nelle Orcadi, un immenso contenitore di ricordi, di poetici cieli, di leggende, di paesaggi, di fauna marina che le regaleranno la salvezza. Sono delicate e evocative le pagine dedicate alla descrizione dei cieli delle Orcadi, arcipelaghi fatti di vento perché “crescere nel vento rende forti, inclini e abili a cercare riparo”. Isola, quindi, come spazio infinito, ma anche come prigione, poiché, a un certo punto, i suoi confini paiono troppo stretti, e nasce la voglia di spazi più ampi, di libertà, ma poi, una volta varcati quei confini, rinasce la voglia di ritornarci, perché l’Isola, come madre amorevole, è sempre lì, ad aspettare, ad accogliere nelle sua calde braccia chi ci è nato.


martedì 16 maggio 2017

LA PESTE DELL'ANNO UNO - Andrea Tomaselli

Inganneficando

Titolo: La peste dell’anno uno
Autore: Andrea Tomaselli
Editore: Feltrinelli
Anno 2014
 Genere: Racconto horror

È buio pesto, tutto è nero. Anche se apre gli occhi non riesce a vedere. Capisce di trovarsi nella cava. Lei è una ragazza cattiva, così dice suo padre che non perde mai l’occasione per ricordarle come non abbia nulla della gentilezza e della dolcezza di sua madre. Già, sua madre: morta,  uccisa dalla peste quando lei era piccolissima, aveva solo pochi mesi. Anche il suo fratellino è buono e ubbidiente, fa solo le cose che suo padre gli dice di fare, mica come lei. Morto, anche lui. Se non riuscirà ad uscire da quella cava morirà anche lei, suo padre non verrà a salvarla perché è rinchiuso nella sua stanza, non riesce a  muoversi perché lui è tornato. Lo sente alle sue spalle perché lui appare sempre alle sue spalle. Non è necessario vederlo in faccia perché lei sa che lui è lì. Lui è l’Ingannefico…

Pubblicato da Feltrinelli nella nuova collana digitale curata da Sergio “Alan D.” Altieri, Zoom Filtri, con l’obiettivo precipuo di riunire opere di pregio nell'ambito della narrazione di genere La peste dell’anno uno è un breve racconto horror che sferra, con violenza, continui e sonori pugni allo stomaco. Feroce, crudele, angosciante, claustrofobico, un allucinante racconto nel quale una ragazzina, voce narrante, ci conduce con il suo linguaggio sincero e alquanto sgrammaticato in un universo fatto di isolamento e di follia. 
Isolamento ritenuto necessario per sfuggire alla peste. Una peste metaforica, contagiosa quanto un morbo reale e nella quale l’untore, sempre in agguato, è il mondo al di fuori di quella finestra, al di là di quella siepe dalla quale la piccola protagonista vede o ha bisogno di vedere uno spiraglio. Una piccola perla.

Altri libri:
Il ladro del silenzio, Rawi Hage


domenica 14 maggio 2017

LA MUSICA A TEREZÍN 1941-1945 - Joža Karas

Ossimori

Titolo: La musica a Terezín
Autore: Joža Karas
Editore: Il nuovo Melangolo
Anno: 2011
Pagine: 250
Genere: Saggio storia
Traduzione: Francesca R. Recchia Luciani, Raffaele Pellegrini

Cecoslovacchia. Narra la leggenda che Rip è il luogo nel quale il patriarca Cerch, con tribù al seguito, si insediò dopo lungo vagare. Rip è terra prospera, è un paradiso terrestre. E 13 secoli dopo, a poca distanza da quel leggendario paradiso, 140.000 persone innocenti precipiteranno negli abissi dell’inferno. La storia vuole che Terezín nasca nel 1780 quando Giuseppe II, al precipuo scopo di proteggere i suoi territori e preservarli da una temuta invasione germanica da nord, fece erigere, appunto, una città fortificata: la città di Teresa, Terezín, in onore di sua madre. 24 Novembre 1941: cambia la “destinazione d’uso” di Terezín e il primo convoglio di ebrei arriva. Ne seguiranno altri, tanti altri. Il bagaglio dei deportati è costituito da soli 50 kg di beni di prima necessità e dalla speranza, leggera come una piuma ma resistente come l’edera…


Joža Karas ci presenta un importante documento frutto di dieci anni quasi ininterrotti di lavoro, di ricerca di documenti e di testimonianze. Una perfetta ricostruzione di quel campo di concentramento che la propaganda nazista ha stato sempre definito, quasi con orgoglio, il “campo modello”. A prima vista, infatti, Terezín potrebbe sembrare  un’eccezione al sistema di sterminio messo in piedi dal nazismo. Ma è solo apparenza perché, di fatto, Terezín rientrava in un programma specifico della politica tedesca del tempo rispondente ad esigenze di carattere pratico. Era necessario fornire un quadro edulcorato di tale campo perché destinato, in un primo momento, a ebrei anziani ed ex combattenti della prima guerra mondiale che si erano distinti in campo tedesco e, in seguito, a ebrei importanti la cui scomparsa avrebbe destato un ingiustificabile scandalo internazionale. Pura strategia politica. Pertanto, per tali ebrei – prima facie privilegiati - Terezín non era altro che l’anticamera per l’inferno. Per Auschwitz.  E in tale tetra anticamera si assiste, nonostante tutto, alla nascita di una fervente vita culturale. Composizioni musicali, concerti, rappresentazioni teatrali. Il tutto a dispetto dell’aridità, del fetore di morte, della violenza. Perché la musica era necessaria per sopravvivere. Perché non era un hobby: era la vita. E Karas con estrema precisione, grazie ad alcuni passi indubbiamente commoventi oltre che grazie alle recensioni musicali e al materiale fotografico inserito, è riuscito a rappresentare dettagliatamente  quell’ossimoro vivente che è stato Terezín, a dimostrare, per dirlo con le parole di una splendida canzone di Fabrizio De André, che “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.


giovedì 11 maggio 2017

LA MALERBA - Cesare Cuscianna

Nudo dolore

Titolo: La malerba
Autore: Cesare Cuscianna
Editore: Antigone
Anno: 2009
Pagine: 139
Genere: Romanzo


Lei ha avuto una madre fortemente disturbata che collezionava uomini e sogni che, puntualmente, si sono infranti. Ha avuto un padre quasi assente che non si poneva scrupoli ad approfittare di lei, piccola creatura innocente. Questa è stata la sua infanzia. Far da madre a sua madre e fuggire da suo padre. E con questo bagaglio di ferite mai curate inizia il suo ingresso nel mondo adulto, lei insetto perennemente imprigionato in una bolla d’ambra. Lei non è gli altri. Traccia i confini, netti e invalicabili, tra sé e il resto del mondo. Si nutre di un solo yogurt a fronte dei pranzi succulenti dei suoi colleghi. Vuole digiunare per sentirsi pura, per sparire. Anoressia quasi come vendetta. Per autopunirsi e punire. Solo cancellandosi potrà privare gli altri del gusto di osservarla, studiarla, esaminarla e, forse, capirla. Anche lei spera in un uomo. Un uomo che la possa salvare, ma che sia anche il suo aguzzino. Un giorno quell’uomo arriva. È Gurka. Più che il suo compagno, il suo gemello…


Romanzo di un autore emergente, finalista al premio Calvino. Un libro che è un continuo precipitare verso il basso, verso un baratro preannunciato. Cuscianna analizza con meticolosità psicoanalitica e con molta delicatezza il tema dell’anoressia, senza soffermarsi sugli aspetti esteriori di tale patologia,  ma attraverso un'analisi spietata dei meccanismi mentali della protagonista. È un libro che non lascia nessuna speranza. Un viaggio all’interno di un’anima lacerata da ferite già in cancrena. Pelle, cuore, anima, tutti squarciati e dai quali sgorga, incessantemente, un acre veleno. Olezzo di decomposizione. E in tutto questo nessuno spiraglio, nessuna luce di redenzione. Una vita segnata con l’indelebile inchiostro dei mali insanabili. Non si intravede alcun lieto fine. Non esiste lieto fine. Non ci sono i buoni. Son tutti cattivi. E cinicamente crudele è la protagonista, la sua vita, la vita. Parole che come scalpelli acuminati scalano erte montagne per non giungere mai a una vetta. Nessuna speranza. Nessuna salvezza. Una condanna eterna. Non c’è conforto. Non c’è amore, quello con la A maiuscola e neanche quello con la a minuscola. Non c’è posto per l’amore panacea di tutti i mali. Si dice che l’amore sia cura infallibile, “perché se c’è l’amore c'è tutto”. Ma se siamo incapaci di amare? Se l’amore è una debolezza che appartiene ai bisogni e alle illusioni dell’infanzia? Non ci si può permettere di amare. Perché si è destinati a rimanere piccoli insetti incarcerati. E non c’è possibilità di evasione. Non si può correre e scappare sentire il vento in  faccia e guardarsi indietro con soddisfazione, vedendo gli ostacoli ormai superati. No, non si può se quegli ostacoli sono a lato, dietro, davanti e dentro di noi, con noi, per noi. Un romanzo crudo, senza buonismi.  La descrizione di un dolore non abbigliato da vittimismi o antipatiche retoriche. Un dolore nudo. Rappresentato senza teatralità, con parole ritmate e delicatamente rispettose, senza che quelle sofferenze possano, anche solo potenzialmente, divenire squallidi fenomeni da talk-show televisivo. Niente lacrime in eccesso per parlare di quelle silenti pene che non hanno bisogno, per essere credibili, di trasposizioni cinematografiche e/o teatrali. Parole solo sussurrate la cui forza deriva da quell’abile scavo fatto da un geologo esperto.

mercoledì 10 maggio 2017

LA FIGLIA DEL FUORILEGGE - Maria Venegas

Bajaron al Toro Negro.

Titolo: La figlia del fuorilegge
Autore: Maria Venegas
Editore: Bollati Boringhieri
Anno: Anno 2014
Genere: Romanzo biografico
Traduzione: Manuela Faimali
Pagine: 376

Come un dondolio, talora lieve, talora pesante, tra odio e amore. Tra rabbia e comprensione. Tra indifferenza e voglia di conoscere. Intenso.

New York. Maria riceve una telefonata dalla sorella la quale le comunica che il loro padre, José, è stato vittima di un’imboscata, Maria continua a sfogliare il menù che ha davanti agli occhi e, distrattamente, chiede alla sorella se il padre sia morto. Già quel padre che anni prima lei, e il resto della sua famiglia, ha deciso di eliminare dalla propria vita, quel padre violento, aggressivo, che sparava in aria durante la notte, quello stesso padre che ha ucciso il fratello di sua moglie. Ma anche quel padre che la esortava a difendersi, a non farsi sottomettere, quel padre che, con vanto, la mostrava ai suoi amici elogiandone il coraggio. Nonostante l’odio e la rabbia accumulati nel corso degli anni e nonostante le ferite subite, Maria – ormai divenuta donna - deciderà di recarsi in Messico dove si trova il “fuorilegge”…

Maria Venegas, messicana emigrata negli Stati Uniti all’età di quattro anni, ha messo nero su bianco  le vicende della sua vita in un memoriale sincero e, spesso, crudo come solo la verità sa essere. L’opera è un alternarsi di passato e presente e mette a fuoco aspetti non solo della propria vita ma anche, e soprattutto, della vita avventurosa e fuori dalle regole di suo padre. E se, in una prima fase, il sentimento dominante è quello della repulsione, dell’odio nei confronti del genitore si assiste, successivamente, a un ammorbidimento delle rigide posizioni iniziali dovuto alla forza, spesso dirompente, dell’amore e dei legami di sangue. Quasi a voler dimostrare come nei rapporti familiari  - per quanto difficili possano essere -si tenda, comunque, a scavare a fondo senza sosta in virtù di una molla, che sia essa l’amore filiale o la pietas, che porta ad andare avanti, a proteggere e, forse solo, a conoscere meglio il genitore. Un romanzo vero, intenso e carico di fascino che regala continuamente al lettore emozioni forti.

Altri libri:
Occhi chiusi spalle al mare, Donato Cutolo

lunedì 8 maggio 2017

PENTAMERONE BARBARICINO - Gianfranco Cambosu

Attese

Titolo:  Pentamerone barbaricino
Autore: Gianfranco Cambosu
Anno: 2009
Editore: Fratelli Frilli
Pagine: 307
Genere: Romanzo noir

Siamo in Sardegna e un gruppo di amici, amici più per necessità che per scelta, tenta di attuare una rapina ai danni di una banca. È il colpo della loro vita.
Con la descrizione di un piano dettagliato inizia tra le montagne barbaricine, in una fredda giornata nevosa, il Pentamerone barbaricino, titolo che porta, inevitabilmente, a ricordare le novelle del Decamerone di Boccaccio; con la differenza che, nel nostro romanzo, i narratori si riuniscono non per sfuggire alla peste, o forse sì. Tutto dipende da che concetto di peste si assume. Tutto è relativo.
Una rapina che non va come previsto, qualcosa in quel meccanismo ben ideato si inceppa, sopravvivono due rapinatori soltanto : Tinteri, il “buono”, e Cadena, il “cattivo” i quali, causa l’evolversi degli eventi, sono costretti a rimanere reclusi in banca con due ostaggi. Attendono che la situazione muti, attendono come sempre hanno fatto nella loro vita, ma alla fine nulla cambia o il cambiamento è diverso da quello che avevano previsto. Come sempre.
Trascorrono alcune notti all’interno di quella gelida banca nelle quali le riserve di gasolio stanno per terminare e si sente nell’aria il presagio di un gelo ancora più freddo della neve che cade silenziosa dal cielo della Barbagia.
Nell’attesa di una macchina che li conduca lontano, nell’attesa, comunque, di qualcosa iniziano a raccontare storie, brevi “favole” nelle quali il lieto fine è solo una chimera.
Ogni racconto, che si sviluppa nell’arco dei giorni della reclusione, non è altro che un estratto delle loro misere esistenze.
In questo raccontarsi emergono temi che hanno colorato le loro vite: la vita dell’ostaggio è stata dipinta con i colori del satanismo, quella di Tinteri dai colori opachi della faida e quella di Cadena dalle forti tinte della violenza.
Emergono dalla penna di Cambosu, delicata, quasi silenziosa ma efficace, argomenti difficili quali quello della faida dai quale affiora la figura della donna-madre sarda, dura e ferma come il suo sguardo. Una donna che non parla, ma sa, prevede, comprende e ordina con il solo ausilio del suo dignitoso silenzio maturato in un giaciglio di dolore, di tragedie e di continui lutti destinati a perpetuarsi all’infinito. Catene che sembrano destinate a non spezzarsi mai.
Emerge anche una sorta di fatalismo, quasi l’impossibilità per i protagonisti di allontanarsi troppo dal loro mondo, un passo oltre il confine disegnato da quello strano destino li riporta come una calamita verso ciò che sono sempre stati, verso il loro mondo originario. E non manca la voglia di riscatto, non mancano i tentativi di evasione, non mancano i sogni.
Umani, fin troppo umani con il fardello delle loro paure, del loro passato, del loro dolore che non è individuale, ma è familiare, un dolore di stirpe.
Tinteri e Cadena, sino alla fine, sperano, con tenace ottimismo, di uscire dalla banca con le tasche piene di denaro nonostante abbiano la percezione che qualcosa, fuori dalle porte scorrevoli della banca, non stia andando come dovrebbe.
Perché è chiaro che là fuori ci sia qualcosa di anomalo e di inspiegabile razionalmente, una fitta nebbia di mistero che si chiarirà, in modo peraltro surreale, solo al termine del romanzo.
Lo stile di Cambosu è molto lineare. È ripetuto l’uso di termini sardi che non appesantiscono la lettura, anzi hanno l’effetto di regalare al lettore, anche al lettore non sardo, qualcosa in più; quei termini in corsivo, non ostacolano il percorso di lettura proprio perché con essi lo scrittore ci dà delle tenui sfumature che abbelliscono e rendono vive le immagini.

Vedi anche:
Bastardo posto, Remo Bassini
Pierre, Nello Rubattu
Savage Lane, Jason Starr






sabato 6 maggio 2017

LA DONNA È UN'ISOLA - Audur Ava Ólafsdóttir


Di oche e altre storie 



Titolo: La donna è un’isola
Autore: Audur Ava Olafsdóttir
Editore: Einaudi
Anno: 2014
Genere: Romanzo
Traduzione: Stefano Rosatti
Pagine: 261


Islanda. Ci sono giornate che iniziano in modo strano e terminano ancora peggio. Quel giorno una giovane traduttrice investe con la sua macchina un’oca e, sollevata per il fatto che non si tratti di un bambino, la carica in macchina per cucinarla. Subito dopo, sale al terzo piano di un condominio dove abita il suo amante. Ha fretta: deve comprare il contorno per l’oca. Quello sarà l’ultimo incontro con quell’uomo. Un piccolo salto dalla medium la quale le ricorda come non sarebbe una cattiva idea giocare alcuni numeri al lotto. Lei, in seguito, li giocherà e vincerà per ben due volte. Torna a casa e suo marito le comunica che sta per diventare padre. Già, lui e Nina Lind la centralinista del suo ufficio, avranno presto un bambino. Ma, si sa, come “le grandi decisioni si prendono in un secondo” invece per la tinta delle pareti nel corridoio lei e suo marito non riuscirono mai a trovare, in cinque anni di convivenza, un accordo…

La casa editrice Einaudi, dopo il grande successo di Rosa candida aggiunge  al suo catalogo anche La donna è un’isola dell’autrice islandese Olafsdóttir la quale, anche in questo romanzo, affronta il tema del viaggio. Stavolta la protagonista viaggerà, dopo la fine del suo matrimonio (senza troppi traumi, a dire il vero), con un bambino di quattro anni, Tumi, figlio della sua amica. Un bimbo un po’ particolare, un po’ sordo, con qualche problema di linguaggio. Quel viaggio verso l’est sarà una sorta di terapia per la protagonista, un’occasione per guardarsi dentro, per comprendere. Certo, l’idea è buona, ma manca quella delicatezza e quel fascino che, invece, erano tutti presenti in Rosa candida risultandone un romanzo a tratti claudicante. Da segnalare come nelle ultime pagine vi sia una sorta di ricettario (compresa la ricetta dell’oca, ovviamente) che vale la pena di leggere per la carica ironica in esso contenuta.

giovedì 4 maggio 2017

LA DISFIDA - Giorgio Caponetti

Ostrega!

Titolo: La disfida
Autore:Giorgio Caponetti
Editore: Marcos Y Marcos
Anno: 2016
Genere: Romanzo
Pagine: 383

Tra Venezia e Trani si muovono, frizzantemente, i protagonisti di questo avventuroso romanzo. Caponetti è stata, senza dubbio, una bella scoperta. Divertente e scoppiettante quanto basta.

Venezia, 2013. “Ostrega de n’ostrega, che giornà de merda!”  con queste parole inizia la giornata, di Alvise Pàvan de Canal. Una giornata iniziata male e che pare promettere il peggio. All’alba giunge la telefonata con la quale gli comunicano che il suo bellissimo stallone lipizziano, Napoleone, si era ritrovato con una gamba storta e impossibilitato a tirarsi su. Alvise, addolorato, si precipita a Sant’Erasmo per comprendere che, da quel giorno, non avrebbe mai più avuto un cavallo. Torna a Venezia perché ha un appuntamento con il notaio per la vendita della barca, precisamente il Sangermani che, si sa, tra le barche è . “quello che uno Stradivari è fra i violini”, cosi diceva suo padre, il conte Zeno. E mentre si accinge ad entrare nell’ufficio per la firma riceve un messaggio al cellulare: è della sua ex moglie, vuole parlargli. Solo quello ci mancava: proprio una giornà de merda. Che fare? Partire, ovvio. Dove? Dove il vento lo porterà. E, appunto, con la sua barca trasportata dal vento giungerà a Trani. Sarà accolto dal famoso ammiraglio Diomede che lo invita a cena e, in tale occasione, gli mostra una pergamena datata 13 settembre 1503 a firma di un suo antenato, nonché omonimo, il quale riconosce il suo debito, ammontante a dieci ducati, nei confronti del signor Agamennone Diomede con annesso tasso di interesse nella misura del 5%. C’è un debito e, come tale, va onorato. Ma chi era quel suo antenato? E perché contrasse quel debito?....

Alvise Pàvan dal Canal, gentiluomo veneziano amante dei cavalli e del mare, è il personaggio nato dalla penna di Giorgio Caponetti che, con La disfida, giunge alla quinta avventura di quella che è stata una fortunata serie iniziata con Due belle sfere di vetro ambrato. Alvise, ha raccontato l’autore è nato durante una passeggiata a Venezia quando lo stesso ha immaginato una sorta di Indiana Jones che fosse, in qualche modo, simile all’autore esperto di cavalli e “siccome parlare di cavalli a Venezia poteva sembrare strano, tanto valeva esagerare”. Strutturato in un alternarsi di due epoche storiche differenti, quella attuale e quella rinascimentale, La disfida ci offre una storia appassionante e intrigante ricca di momenti divertenti e di quel pizzico di mistero che ne fanno un libro piacevolissimo da leggere grazie, appunto, alla mescolanza perfetta di elementi differenti. Su tutto dominano le buone maniere del protagonista e il suo amore sia per il mare sia per gli animali che costituiscono la base su cui si muovono i fili della storia. Da non trascurare l’uso delle espressioni in dialetto veneziano che arricchiscono, colorandole vivacemente, le vicende narrate. E alla fine non resta che attendere una nuova avventura del nostro gentiluomo, che si mormora sarà ambientata in Sardegna, sperando in giornà non troppo di merda.


martedì 2 maggio 2017

LA CICALA DELL'OTTAVO GIORNO - Mitsuyo Kakuta

Madre davvero

Titolo: La cicala dell'ottavo giorno
Autore. Mitsuyo Kakuta
Editore: Neri Pozza
Anno: 2014
Traduzione: Gianluca Coci
Genere: Romanzo
Pagine. 288

Un viaggio intorno al concetto di maternità. Chi è madre veramente? Sempre e solo chi partorisce un figlio? O chi, invece, pur non partorendolo quel figlio lo ama incondizionatamente? Solo l’amore conta? Uno scavo nei sentimenti umani, con tutte le sfaccettature, coinvolgente ed emozionante. Lettura interessante che apre la porta a numerose riflessioni e domande.
Una mattina una giovane donna, Kiwako, entra in casa del suo amante e, lentamente, si avvicina alla culla dove dorme la piccola Erina. La bimba è sola in casa: il suo amante si è recato al lavoro accompagnato dalla moglie. La guarda. Pensa che anche lei avrebbe dovuto avere un figlio. Avrebbe, già. Prende la bimba in braccio e avvoltala nella sua copertina decide di fuggire via. Ribattezza la bambina come Kaoru. Confusa e dispersa, in un primo momento, decide di rifugiarsi per qualche giorno da una sua cara amica. Dopo qualche giorno abbandona la casa dell’amica e si ritrova in strada senza un posto dove andare e mentre la bimba piange inconsolabilmente - forse per la fame, forse per il sonno - le si avvicina una donna che si offre di ospitarle in casa sua. Tra mille dubbi e mille domande Kiwako la segue…
E ti darò elefanti così enormi che non riuscirai a credere ai tuoi occhi e cani in fedele attesa dei loro padroni. E poi tante favole dal finale struggente e musica talmente bella da farti sospirare di meraviglia.(Pag. 168)
Mitsuyo Kakuta grande autrice di successo in Giappone, vincitrice di numerosi premi letterari  si dimostra con La cicala dell’ottavo giorno, primo suo libro tradotto in italiano, abilissima nel descrivere, con estrema finezza, i sentimenti umani  e con essi i drammi e le brutture della vita. Un romanzo tutto al femminile nel quale le figure maschili risultano ai margini e dotate di forte carica negativa e caratterizzato dal susseguirsi di sentimenti diversi, ma tutti dotati di intensa forza emotiva: desiderio di maternità, amore, odio, vendetta, speranza.Una penna forte quella della Kakuta che riesce non solo a tenere incollato il lettore alle pagine (e questo sarebbe già abbastanza), ma che dà la stura a numerose domande e a interessanti, e talora difficili, spunti di riflessione poiché riesce, quasi inavvertitamente, a far venire meno quella netta linea di demarcazione tra il bene e il male.