sabato 20 dicembre 2014

VITA E MIRACOLI DI TIETA D'AGRESTE - Jorge Amado

Capre e Madames

Titolo: Vita e miracoli di Tieta d'Agreste
Autore: Jorge Amado
Editore: Garzanti
Anno: 2010
Pagine: 616
Traduttore: Elena Grechi

Brasile. Bel clima, spezie profumate, frutti tropicali. In un angolino di questo accogliente e vivace stato si trova Agreste. Un paesino, piccolo, ma talmente piccolo che la vita di ogni abitante diviene la vita di tutti. Nessun segreto vi può attecchire. Non esistono vite private, né corrispondenza che non possa divenire oggetto di conoscenza da parte di tutti. È in questo delizioso villaggio che nasce Tieta. Tieta ragazzina che, capretta affamata, percorre le tortuose strade di campagna, per saziare la sua fame prematura di uomini.
Che sia forse posseduta dal demonio?
O forse la bella ragazzina ama solo possedere e farsi possedere, senza che sia necessario chiamare in causa un ipotetico e, quantomeno dubbio, esorcista?
Sia come sia, Tieta disonora il buon nome della famiglia. E, causa la delazione della sua quasi divina sorella Perpetua, perpetuamente intenta a perpetuare l'arte della preghiera e a lucidare con le sue devote mani le perle del suo benedetto rosario, Tieta verrà cacciata via dalla famiglia e dal paese, con l'ausilio dei colpi di bastone del severo padre.
Ma si sa, certe macchie possono essere cancellate, soprattutto se il magico e infallibile smacchiatore di chiama Denaro. Denaro di Tieta, ovviamente. Perché quel denaro e gli onerosi regali che Tieta invierà ai suoi parenti nel corso degli anni, favoriscono un rapido passaggio dall'indegno status di puttana a quello di santa. La generosità di Tieta consentirà alle sue sorelle, delatrice compresa, e a suo padre di condurre una vita agiata. Tieta, figliola ripudiata, condividerà amorevolemente i proventi della sua attività di Sao Paolo con i suoi cari, in nome del legame di sangue. Ovviamente, tutti credono che la fortuna di Tieta, ormai divenuta rispettabile e finanche signora, derivi dal suo matrimonio con il commendatore del Papa - e scusate se è poco.
Chi mai potrebbe immaginare che la vecchia pastora di capre, Tieta d'Agreste - alias Madame Antoinette- gestisca, invece, un bordello? Di lusso, ma pur sempre bordello. Chi mai potrebbe immaginare che l'Agrestana redenta continui a fare, anche nella lontana città, ciò che sempre ha amato fare, ossia godere dei piaceri della vita, in posizione orizzontale (anche se non sempre, per la verità), con qualche focoso montone? Eh! le caprette perdono il pelo, ma non il vizio...
Eccola, dopo anni e anni, Tieta, non più pastorella, ma donna ormai vedova, torna ai profumi, alle voci e agli affetti del suo natio paesello con la sua "figliastra" Leonora, bella come il sole e ospite, anch'essa della lussuosa casa nella quale si pratica il mercimonio dei corpi, fatto quest'ultimo neanche degno di nota, visto che non sottoposto a divulgazione.
Nessuno potrebbe immaginarlo d'altronde ed è questo ciò che conta.
Suvvia, di fronte alla ricca vedova che importanza potrebbe avere un' indagine più approfondita sulla loro vita? Non è forse sufficiente sapere che la procace Tieta si di titolare di un negozio - non si sa bene di che - e che sia stata moglie del commendatore? Non basta questo per far concludere anzitempo le indagini a improvvisati p.m. agrestiani? Basta, eccome!
L'accoglienza sarà calorosa quasi quanto il sole che riscalda le strade non troppo perfette del paesino. Il poeta le dedicherà versi. Le sarà intitolata una strada. La beghina Perpetua, sempre accessoriata del divin rosario vede in Tieta il futuro dei suoi figli (Peto e Ricardo), lo stumento per una loro crescita, soprattutto economica. Subdolamente si muoverà nel realizzare il suo sogno approvato, ovviamente, dal suo dio: far adottare, almeno uno dei suoi figli, dalla cara e ricca zia. E Tieta, con cuore immenso, non attenderà l'emanazione di un provvedimento di adozione per dedicare, ai nipoti anima e corpo ai nipoti, soprattutto corpo nel caso di Ricardo. Piccolo e tenero Cardo, primogenito di Perpetua destinato dalla stessa alle sante vie del sacerdozio, immergerà cosi la sua vocazione nel corpo, pieno e sensuale, della zia che tornerà cosi a sentirsi la vecchi capretta dei vecchi tempi andati. Anche perchè per la Tieta procace e vogliosa i piaceri della carne sono infiniti come la bonta di dio e non hanno limiti né di sangue nè di età. Le sue pulsioni sessuali son torrenti in piena a fronte del quale non tengono gli argini della decenza o del buon nome della famiglia.
Insomma, Tieta al di là di questi peccatucci che rimangono confinati nel segreto divien la voce della saggezza. Anche quando si prospetta la possibilità di installare ad Agreste una fabbrica di Titanio avendo i furboni dirigenti - tra cui un italiano, guarda caso - avendo menato per il naso, il futuro sindaco del paese Sor Ascanio. Il quale, ingenuo come pochi, vede nella realizzazione di quel progetto la possibilità di eleversi e divenire qualcuno e, finalmente, sposare la bella candida e pura (secondo lui) figliastra di Tieta.
Alla fine gli eventi precipiteranno e quel castello sorretto dai fittizi pilastri del denaro e dell'ipocrisia inizierà a sgretolarsi lentamente.C'è tanto in quest'opera che l'autore ironicamente definisce romanzetto. E, ad esser sinceri, a volte c'è pure troppo tanto che la fine pare, in alcuni passi, allontanarsi anziché avvicinarsi.
C'è l'aroma del caffè, il profumo dei piatti che stimolano continuamente il palato, i succhi dei frutti tropicali maturi, i profumi delle spiagge e c'è la rappresentazione perfetta dei vizi e delle virtù dell'uomo. (Mi vien da domandarmi: ma quanto è brutto l'uomo?)
La descrizione realistista dell'essere umano e la sua insana tendenza a creare miti e a forgiare santi - quando fa comodo- salvo poi - sempre per comodità- abbattere con violenza il piedistallo nel quale il santo era stato religiosamente posato. E c'è il silenzio, la necessità di tacere per tornaconto personale, salvo poi sventolare bandiere di moralità nel momento in cui certe cose - divenute di dominio pubblico - non possono più essere occultate.

mercoledì 26 novembre 2014

IL CIELO È DEI VIOLENTI - Flannery O' Connor. Pazza idea...


Titolo: Il cielo è dei violenti

Autore: Flannery O' Connor  
Editore: Einaudi
Anno: 2008
Pagine: 206
Traduzione: Ida Ombroni 

 
“Lo zio di Francis Marion Tarwater era morto solo da mezza giornata quando il ragazzo si ubriacò troppo per finire la fossa, e un negro di nome Buford Munson, che era venuto a riempire una brocca, dovette terminare di scavarla e trascinarci il corpo, che era ancora seduto alla tavola della prima colazione, per dargli una sepoltura da cristiani, con le insegne del Salvatore sopra la testa e abbastanza terra perché i cani non lo scavassero fuori" 




Salvador Dalì, L'invenzione dei mostri

Bastano poche pagine, pochissime a dire il vero,  per comprendere come ci si trovi di fronte a una grande scrittrice. La scrittura della O’ Connor, credo fortemente, che non possa essere scissa da quella che è stata la sua vita, caratterizzata da un radicatissimo sentimento religioso e dalla malattia, il lupus eritematoso sistemico del quale era affetto anche il padre, che la portò ad una morte precoce e che lei visse sempre stoicamente, senza rifugiarsi in patetici atteggiamenti vittimistici, affermando quasi con candore “Non sono stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è il luogo più istruttivo di un lungo viaggio in Europa”. Quindi, malattia come parte essenziale di se stessa, della propria natura, non una “nemica” e, spesso anzi, strumento indispensabile per interpretare e capire il mondo. Il cielo dei violenti (titolo originale The violent bear it away) il cui titolo prende il nome da una citazione evangelica è un crudo e intenso romanzo nel quale O’Connor fa calare in un’atmosfera atroce, venata di follia, il contrasto pressoché insanabile tra fede e pensiero razionale. Contrasto insanabile perché ci troviamo di fronte a due fanatismi uguali e diversi allo stesso tempo, rappresentati alla perfezione dal vecchio Tarwater, autoproclamatosi profeta, e dal maestro Ryber che del razionalismo puro ha fatto la sua ragione di vita. Parole dure, ruvide quelle della O’Connor, personaggi estremi e aberranti destinati a una costante e dolorosa non-salvezza o, al limite, a trovare la libertà in atti di violenza inaudita. Ambientato nell’America rurale degli anni ’60  il romanzo sfugge, comunque, a qualsivoglia e restrittiva collocazione temporale facendone un’opera senza tempo.



giovedì 20 novembre 2014

LA FELICITÀ DI EMMA - Claudia Schreiber


Mondi fuori dal mondo


Titolo: La felicità di Emma
Autore: Claudia Schreiber
Editore: Keller, 2010
Traduzione: Angela Lorenzini
Pagine: 240

Capita spesso che, nella lettura, ci si innamori di qualche personaggio  e che si crei un immaginario gruppo simil-ultrà per manifestare un tifo silenzioso, ma sfegatato. Ecco, “Forza Emma!” pensavo durante lo scorrere delle pagine perché lei, la protagonista, ha suscitato tutta la mia simpatia per la sua bizzarria, per il suo anticonformismo e per la sua capacità innata di coltivare sogni.
Emma alleva maiali, si confida con il suo gallo e ha un amico corvo il quale, poggiandosi sulla sua spalla, la accompagna nelle sue lunghe passeggiate. Vive da sola in una fattoria ereditata dai suoi genitori. Pare tranquilla, non curandosi della pulizia della casa che, col tempo, ha assunto i connotati di un domestico immondezzaio ricco di liquidi vari e non ben identificati, di muffa e di odori che si mescolano compulsivamente tra loro. Non ha le preoccupazioni tipicamente femminili (“Oddio, cosa mi metto oggi?”), ma Emma ogni notte prega affinché da lassù qualcuno le recapiti un uomo e la faccia diventare ricca. E, poiché è risaputo come le vie del signore siano infinite, un giorno le sue preghiere paiono esaudirsi. Arriverà, via incidente stradale, un giovane, Max, con molti soldi. Emma lo trova svenuto, lo osserva lo annusa, è perfetto: è l’uomo della sua vita. Ancora non sa che Max ha un cancro al pancreas e che manca poco alla sua morte.
Questo romanzo, pubblicato nel 2003, è stato un caso letterario in Germania, oggi tradotto in otto lingue e trasposto cinematograficamente, nel 2006,  con il titolo Emma Gluck per la regia di Sven Taddicken.  Con ironia, schiettezza e un pizzico di surrealismo la Schreiber ci trasporta in un mondo “fuori dal mondo”. Un piccolo universo fatto di semplici cose, di contatto diretto con la natura, dove troneggia  una donna che pare bastare a se stessa e che sembra dura e insensibile capace, fin dalle prime pagine, di conquistare il lettore.  Ma dietro quella corazza ricoperta da sgargianti colori, come le sue sottovesti, dietro le sue stravaganze – cito, solo a titolo esemplificativo, quella di fare lunghe corse con la sua vecchia moto onde  procurarsi il suo orgasmo quotidiano - che allietano e stupiscono piacevolmente, si nasconde una donna con un passato doloroso, che ha ereditato insieme con la fattoria e i suoi amati animali un’infanzia traumatica e una lunga serie di ricordi difficili da dimenticare. Ricordi che ustionano. Nonostante tutto, Emma è alla ricerca quasi spasmodica, di un sentimento che le riscaldi quel cuore troppo spesso spezzato, ma che, a dispetto di tutto,  riesce a battere ancora. I sogni, a volte, si realizzano per destino o, chissà, per la forza insita nelle preghiere. Ma è anche vero che la vita è troppo crudele dare qualcosa  gratuitamente, figuriamoci la realizzazione di un sogno. Tutto si paga. Ciò non impedisce di accarezzare delicatamente quei meravigliosi doni, di apprezzarli anche se fugaci, di viverli intensamente. Fino alla fine. Fino all’ultimo estremo atto. D’amore anch’esso. Eros e Thanatos convivono pacificamente, si incastrano alla perfezione come per magia in questa strampalata storia intrisa di un romanticismo atipico, non melenso, non stucchevole,  con una delicatezza che può appartenere solo a quel mondo “fuori dal mondo”. Solo al mondo di Emma.

lunedì 17 novembre 2014

NOME IN CODICE VERITY - Elizabeth Wein

AMICIZIA & GUERRA
 Titolo:Nome in codice Verity
Autore: Elisabeth Wein
Editore: Rizzoli
Anno 2013
Genere: Romanzo guerra
Traduttore: Giulia Bertoldo

Nel mondo infuria la seconda guerra mondiale con il suo spettacolo di terrore e angoscia. Nel novembre dell’anno 1943 l’aereo pilotato dalla giovane inglese Maddie viene abbattuto dal fuoco nemico. In quell’aereo c’era anche una passeggera, Julie Beaufort, agente scozzese del SOE la quale viene catturata dalla Gestapo. Julie stringerà un accordo con il glaciale Von Linden delle SS: in cambio della restituzione di ogni suo capo di vestiario dovrà rivelare una sequenza di codici. Ma non solo, Julie, in quella tetra e gelida cella, comprerà anche del tempo, esattamente due settimane oltre la carta e l’inchiostro per scrivere una confessione su tutto ciò di cui è a conoscenza sullo sforzo bellico inglese…Intanto Maddie, che Julie crede morta nell’incidente, cambia identità e ospitata in un piccolo paesino francese si unisce alla resistenza allo scopo di liberare la sua amica…
La Wein, scrittrice inglese, è una grande appassionata di volo e tale passione si è trasfusa in queste pagine avventurose nelle quali gli aerei hanno un ruolo dominante. Al di là dello scenario bellico, delle atrocità, delle sofferenze e delle tragedie emergono, quasi a edulcorare lo spettacolo triste della seconda guerra mondiale, due figure di donne molto diverse tra loro, appartenenti a due classi sociali differenti che, paradossalmente, la guerra ha avvicinato e che, presumibilmente, senza la guerra non si sarebbero mai incontrate: Maddie e Julie. Son loro che dominano la scena con la loro forza ed emancipazione, ma anche con le loro paure e le loro fragilità e le contraddizioni di due animi femminili. E su tutto emerge quel saldo legame di amicizia che unisce, fino alle fine, le due donne disposte a compiere qualsiasi gesto, anche il più atroce, in nome di un sentimento incontaminato e profondo. Ne risulta una bella storia ricca di suspence, di avventura e di amore che, per quanto sia frutto della fantasia dell’autrice, risulta molto credibile, ma, a onor del vero, la lettura non è comunque omogenea: ad una prima parte assai lenta e prolissa segue, e aggiungo per fortuna, una parte più scorrevole e più in sintonia con il genere del romanzo stesso. Altra nota negativa è data dalla presenza di numerosi refusi che fanno inalberare anche il lettore più distratto. Nel complesso, una lettura gradevole credo soprattutto per gli amanti del genere un po’ meno per me che di guerre e di aerei non sono esperta.

Altre recensioni:
L'usignolo, Kristin Hannah

domenica 16 novembre 2014

DONNE INNAMORATE - D. H. LAWRENCE

                                                     PENSAVO FOSSE AMORE...
                                                                    Titolo: Donne innamorate
                                                                       Autore: D. H. Lawrence
                                                               Editore: Newton & Compton
                                                                         Anno:1992                                                                                             Pagine: 482
                                              Traduzione: Delia Piergentili Agozzino
Sono trascorsi esattamente 22 anni dalla prima lettura, l’edizione è vecchissima, del ’92, ingiallita e sottolineata, le pagine si sono staccate e in mezzo ad esse ho trovato i biglietti per una festa scolastica nella quale ho immaginato di essermi divertita. Certo, ventidue anni sono tanti. Questo per dire che: sono una vecchia babbiona o quasi e, soprattutto,  rileggere Donne innamorate mi è piaciuto come la prima volta. Forse di più.

Siamo nell’Inghilterra post-industriale. Le sorelle Brangwen, Ursula e Gudrun, vivono nella cittadina di Beldover: la prima è un’insegnante di letteratura inglese e la seconda è un’artista, una scultrice, e fondamentalmente è uno spirito libero che ha viaggiato e conosce bene il mondo. L’esistenza di Gudrun si incrocerà con il bello e prestante Gerald Crich, che ereditando le miniere paterne ne è divenuto proprietario e le gestisce con uno zelo a dir poco ammirevole. Ursula, invece, conoscerà l’ispettore scolastico Rupert Birkin, cupo e estremamente riflessivo…
Pubblicato nel 1920 Donne innamorate costituiva, nelle intenzioni dell’autore, la continuazione ideale de L’arcobaleno da cui se ne discosta sia per lo spirito sia per l’ambientazione: i personaggi, infatti, si muovono in un’epoca dominata dal progresso industriale e urbano in un cielo grigio e soffocante come quello delle miniere di carbone. Lawrence con questo romanzo, intenso e profondamente meditativo, caratterizzato da una ininterrotta non-azione ha abbandonato la tradizione naturalista e, con essa, lo schema classico del romanzo ottocentesco per far spazio a riflessioni di natura  prettamente metafisica. Il romanzo è privo di un disegno coerente e lineare possiede, invece, una sua propria ondulazione data da lunghi, spesso lunghissimi dialoghi, da considerazioni profonde sull’uomo e sulla natura che si adagiano su uno sfondo pessimistico costellato da momenti di altissimo lirismo. In particolare emerge un netto contrasto tra Birkin, alter ego dell’autore, e Gerald. Se il primo si abbandona a lunghe e spesso altisonanti dissertazioni sulla vita e sulla morte, Gerald è proprio uomo del suo tempo emblema di una società materialistica nella quale tutto fa parte di un meccanismo perfetto dove più che esistere persone sembrerebbero esistere ingranaggi che, ogni tanto, hanno bisogno di piccole opere di manutenzione e nulla più.
Al di là del titolo che farebbe pensare a tutt’altro (tipo donne che soffrono per amore e piangono, piangono e piangono, per esempio) l’opera scandaglia, con meticolosità quasi chirurgica, l’animo umano nelle sue diverse sfaccettature e, soprattutto, analizza i rapporti tra uomo e donna facendo dell’amore quasi un’esperienza mistica. È palese come l’ottocento sia stato ormai lasciato alle spalle, le donne di austeniana memoria non ci sono più: abbiamo donne autonome, coraggiose e piene di contrasti che non vivono più in funzione del matrimonio (rimangono esseri umani anche se non convolano a nozze, oh che strano) e se, per le signorine Bennett, il matrimonio era una meta per Ursula è la fine di ogni esperienza.

mercoledì 12 novembre 2014

COME DIVENTARE UNA COPPIA ZEN - Flavia Mazelin Salvi

ZENIAMOCI PER MANO

Titolo: Come diventare una coppia zen
Autore: Flavia Mazelin Salvi
Editore: Endemunde
Anno: 2014
Pagine: 160



È il 2014 e ci siamo liberati da una lunga serie di vincoli di diversa natura: religiosi, sociali, culturali. Abbiamo raggiunto, pagando – in alcuni casi -un prezzo alto, un certo grado di  emancipazione, ma rimane, immutato e immobile come una statua, il desiderio di formare una coppia. L’eterna equazione: io e te uguale noi, una cosa sola. E alla coppia si chiede tanto, forse troppo. Innanzitutto, si pretende e si spera che duri, che sia anche uno strumento per svilupparsi, per migliorarsi, per avere serenità, erotismo, tenerezza, sicurezze e sorprese. Insomma, tutto e anche il contrario di tutto. Ma, vien da chiedersi, perché poi la coppia entra in crisi? Forse perché sono le nostre aspettative sbagliate? O perché, forse, guardiamo dalla prospettiva sbagliata?  O, forse, son le nostre paure a costituire il principale ostacolo a una sana vita di coppia?...
Flavia Mazelin Salvi, di professione psicologa, in questa sorta di prontuario non intende certo fornire la formula magica per costruire la coppia perfetta, perché forse (direi sicuramente) la coppia perfetta non esiste, ma ritiene possibile applicare alla coppia i tre principi cardine dello zen: una grande fede, un grande dubbio e, infine, una grande determinazione. Principi che andrebbero applicati giorno per giorno, con costanza, a mo’ di stillicidio benefico. È opportuno partire da se stessi: ascoltarsi nel profondo, portarsi rispetto, trovare la calma interiore e, in particolare, bisognerebbe vivere il presente, il qui e ora,  perché spesso l’errore principale in una relazione, e nella vita in generale,  è quello di fuggire il presente e guardare al passato (lamentandosi in continuazione con un “quanto ho sofferto in passato” a cui segue un sospiro)  o al futuro (chiedendosi “quanto durerà questo amore?” a cui segue espressione poco fiduciosa che presagisce la risposta “poco, durerà poco”).
“Come diventare una coppia zen” è un manuale ricco di principi riconoscibili obiettivamente come giusti e razionali e, forse, proprio perché risultanti troppo giusti e inattaccabili, trovano terreno poco fertile o, comunque, scarsa adesione in individui o coppie troppo “occidentali” troppo prese da impegni quotidiani, figli, problemi economici, lavoro in cui lo spazio per la meditazione è, per poco tempo a disposizione o per pigrizia, difficile da trovare o, forse, perché a priori, lo si ritiene vano. Insomma: parlatemi di zen quando alle cinque del mattino mia figlia mi sveglia con il suo pianto disperato quando, subito dopo, visto che non riesco a riprendere sonno, devo prepararmi per andare al lavoro, andare a fare la spesa, preparare il pranzo, preparare la cena, fare il bucato e stirare, arrivare alle undici di sera a pezzi con figliola che è vispa come un grillo e ha voglia di giocare o di sentire le storie, tante storie per la precisione. Parlatemi di zen che vediamo come NON funziona, parlatemi di zen e assisterete a una crisi isterica incontenibile nella quale i principi della non-violenza subiranno una totale eliminazione come se mai fossero esistiti e che Gandhi mi scusi.  Venite, venite che facciamo un gruppo di ascolto.
Il libro è corredato anche da esercizi pratici di facile attuazione sicuramente per soggetti predisposti ad accogliere lo zen, a ricercare, con pazienza certosina la calma e seguire, alla lettera le indicazioni della Mazelin Salvi, ma che, personalmente, non sono stata stimolata sufficientemente a eseguire per una sorta di rifiuto, sano o insano, verso tutto ciò che inizia con un “Come diventare…”

giovedì 23 ottobre 2014

Intervista a Roberto Alba

Roberto Alba


Ho conosciuto Roberto Alba in occasione della presentazione del suo libro L’estate di Ulisse Mele in una libreria cagliaritana. Ciò che colpisce di lui è, indubbiamente, l’innata simpatia: è proprio una di quelle persone con le quali ci si trova bene a farsi le famose quattro risate, anche cinque in effetti. L’ho incontrato altre volte e, da ultimo, durante la presentazione del libro di un’amica in comune. Lì mi è venuta l’idea dell’intervista perché ho pensato -visto che sono previdente, lo sanno tutti- “Aspetta poco-poco prima che diventi famoso e antipatico, prima che se la tiri troppo e mi faccia dire dal suo segretario in livrea di fissare un appuntamento almeno otto mesi prima, gli faccio qualche domandina”. 

Io mi sono innamorata di Ulisse Mele, del piccolo grande bambino. A quanto pare non sono la sola, cos’è per te Ulisse, cosa rappresenta?
Ulisse è un viaggio, Ulisse è l'emozione di ricordare la felicità che esiste solo nel cuore innocente di un bambino. Ulisse sono i miei ricordi spensierati. Ma Ulisse è anche la scoperta di una verità: gli adulti e i loro problemi, le bugie. Gli adulti cercano la felicità perduta e si illudono. Ulisse rappresenta la crescita del bambino che ciascuno di noi custodisce. Solo chi ogni tanto lo lascia libero ha la fortuna di riconoscere nelle persone la luce della verità.

Perché hai scelto un bambino? E, soprattutto, come hai fatto, tu che sei bello grande, a vestire i panni, adottare il linguaggio e i pensieri di un bimbo?
Scrivere, raccontare una storia come quella della famiglia Mele mi ha portato a valutare la necessita che  il narratore fosse il meno condizionato possibile dagli eventi. Ulisse con la sua sordità risultava perfetto. Poteva osservare, non farsi confondere dalle parole. Lui poteva conoscere la verità dai volti delle persone. Il linguaggio in prima persona è stata la parte più difficile. Ho cercato di “regredire”, mi sono fatto una seduta di autopnosi e sono tornato indietro di 40 anni... il problema è stato risvegliarmi!

A sentir parlare così bene del tuo libro cosa si prova? Qualche lacrimuccia?
Confesso! Lacrimoni di gioia ma solo nel silenzio della mia camera, siamo già alla seconda ristampa. Ma la cosa che più mi ha sorpreso sono le persone che mi scrivono e mi raccontano la loro storia. Chi vive nel silenzio, come il piccolo Ulisse che è sordo, si riconosce in lui e nella sua famiglia, torna al tempo dell'infanzia e vive quei momenti con una nuova consapevolezza. La mia gioa più grande è quando Ulisse riesce a dare una carezza a queste persone.

Parlaci di Alba quando scrive.
Scrivo quando ho qualcosa da raccontare. Non sono un amante della scrittura fine a se stessa. Non scrivo per il piacere del suono delle parole. Devo avere l'idea di un personaggio e della sua storia, solo allora inizio a scrivere. Penso di aver iniziato troppi romanzi, ma sono pochi quelli che trovano la strada con il cartello “the end”. Quando scrivo sono veloce. Ho la storia schematizzata in testa. Ho il finale, poi posso cambiarlo, ma quando inizio un romanzo ho l'idea precisa di come deve finire... o non finire. Ulisse è stato scritto in circa 3 mesi, e la fine, la frase finale è nata quando non avevo ancora completato il primo capitolo.

Ma Alba quanto, cosa, come e dove legge?
Leggo 2 o 3 libri al mese, ma quando scrivo non leggo se non in rare occasioni. Sono un lettore “trasversale”, leggo tutto tranne i fantasy. Leggo a letto, è per me una forma di  piacere irrinunciabile... e devo stare attento a non rimanere troppo sveglio! Ma quando scrivo le cose cambiano, scrivo di sera, dal dopocena sino alle 2 o 3 di notte. 

Uno scrittore che ami e uno che odi.
Quelli che odio sono preziosi, li leggo per ricordarmi che in quel modo non devo raccontar le storie. Quindi evito di fare i loro nomi per non svelarmi il mio segreto!
Amo uno scrittore su tutti, ma a pensarci, ogni tanto divorzio e ne scelgo un altro. Dipende dal momento. Ma il primo amore non si scorda mai, giusto? Rispondo così: Il mio scrittore primo amore, non dell'adolescenza, ma dell'età adulta è Calvino. Il suo Il Barone rampante è stata una folgorazione. 

Consigli a un giovane scrittore?
Quando rileggendo qualcosa che hai scritto dirai a te stesso questa è una schifezza, allora sarai sulla buona strada per scrivere qualcosa di buono. Non c'è miglior giudice di noi stessi. Il problema è che dobbiamo avere molta stima di noi. Quindi, se abbiamo un amico che su ogni frase scritta ci fa le scarpe, teniamolo stretto (non molto stretto che poi muore :D ). 

La Sardegna. Parlarne nei tuoi scritti è fondamentale?
No, non è fondamentale. Il primo romanzo che ho scritto “La spiaggia delle anime” è ambientato in Grecia, Ulisse in Sardegna, il prossimo...

Domanda di rito: a quando il prossimo romanzo?
Questa è la domanda del mistero. Spero che esca il tempo giusto  per farvi scoprire una storia che difficilmente riuscirà ad annoiarvi. E questa è una promessa!

E noi aspettiamo!
L'estate di Ulisse Mele

domenica 28 settembre 2014

LA METÀ DEL GIGANTE - Gianfranco Cambosu

CEDIMENTI
Titolo: La metà del gigante
Autore: Gianfranco Cambosu
Editore: Barbera
Pagine: 192
Genere: Romanzo




Siamo nella Sassari degli anni novanta. Pietro Aglientu è un bibliotecario trentenne che sogna di diventare scrittore, il suo sogno pare destinato a non rimanere rinchiuso in un cassetto quando l'editore della Sogni Esagerati, Riccardo Golia, gli comunica, appunto, l'intenzione di voler pubblicare il suo romanzo. E mentre Pietro attende che il suo grande sogno diventi realtà, la Casa Editrice organizza un corso di scrittura alla quale lui parteciperà pur non avendo mai l'occasione di incontrare Golia con il quale avrà sempre, e soltanto, contatti epistolari. Il punto di riferimento dell'aspirante scrittore saranno due collaboratrici, Barbara e Lisa, che lo inviteranno a ripercorre e recuperare il suo passato. Tale ricerca sarà lo strumento che porterà alla luce una dolorosa verità...

La metà del gigante è il romanzo della ricerca di se stessi attraverso il passato attraverso, soprattutto, quello strumento magico che son le fotografie capaci di immortalare istanti e sguardi consentendo di recuperare momenti distrattamente abbandonati perché la vita, in sé. è troppo veloce e insegna un'insana indifferenza verso i particolari i quali -spesso- contengon l'essenza di una vera esistenza. 
È presente, nelle parole di Cambosu, l'acre, e talora insopportabile, sapore che hanno il crollo di quelle certezze costruite giorno dopo giorno: quando quell'impalcatura stabile, che pare inattaccabile e quasi eterna, inizia a scricchiolare, ci si sente perduti poiché quello scricchiolio - che, a un certo punto, diviene lacerante e assordante, ci ricorda, in qualche modo, che è necessario ricominciare e ricominciare fa sempre un po' paura. Saranno le certezze di Pietro, il protagonista, a crollare in una maniera sconvolgente dato che saranno messe in discussione le sue stesse radici, il suo senso di apparenenza e quando son le radici ad essere messe in discussione l'effetto è sempre destabilizzante: nulla è più atroce del domandarsi chi si è veramente, chi si è stati e chi sono stati quelli che ci hanno fatto crescere, ci hanno educato e accompagnato in ogni istante della nostra vita. 
Pietro è un sognatore, forse poco calato nella realtà, incapace di prendere decisioni importanti, preferisce lasciarsi vivere: troppo affannoso vivere. Si trascina una storia d'amore con una donna, Luana, che forse non ama. Si lascia vivere da quel rapporto anaffettivo, senza slanci, senza passione. Ma quella situazione precaria Pietro l'accetta in quanto rappresenta, in qualche modo, un equilibrio. 
La metà del gigante, vincitore del Premio Barney 2013, definito dall'autore stesso un romanzo di formazione dimostra ancora una volta l'abilità di Cambosu nel tessere trame e originali non scevre, come nei suoi precedenti romanzi, di un alone di mistero sempre incalzante il tutto con uno stile elegante, lineare e molto curato. 
Una lettura scorrevole e intensa.


Altri libri:
Pierre, Nello Rubattu


sabato 27 settembre 2014

UN PASSO INDIETRO - Nicole Pizzato


Anche i ricchi piangono. Il ritorno

Titolo: Un passo indietro
Autore: Nicole Pizzato
Editore: Prospettiva
Anno: 2013
Pagine: 345
Genere: Romanzo

Siamo sotto il caldo sole della Sicilia. Elisabetta Primo, figliola di Don Marcella e della contessina Marianna, ha ventuno anni e dopo un periodo trascorso nell'isolamento, a seguito della fine - imposta dalla crudele quanto fascista genitrice - del suo amore impossibile, cerca di riprendere in mano la sua vita. Cosa non certo semplice impigliata com'è in un mondo che pare non appartenerle, anzi pare proprio disgustarla. La sua famiglia è ricca, sua madre è l'emblema di una società snob, frivola e i suoi amici, o presunti tali, vivono in un mondo di agiatezze e paiono preoccuparsi solo dell'apparire, delle feste cosiddette "ignoranti", dei viaggi e dei bei vestiti (anche le pantofole devono essere quantomeno di Gucci). Ma in quel mondo che Elisabetta rifiuta c'è ancora spazio per l'amore?  C’è spazio per il brasiliano Raoul, l’autista di famiglia bello come il sole, ma di una classe sociale incompatibile con la sua? C’è spazio per la vera amicizia una volta eliminate le maschere create per nascondere sofferenze che affondano le loro radici nel passato? Per quanto ambientaro nell'Italianissima Sicilia Un passo indietro ricorda, quasi prepotentemente, la trama di una telenovela sudamericana della quale possiede tutti i crismi: gli abiti scintillanti, la madre autoritaria e snob, il fluire del denaro, la netta contrapposizione tra ricchi e poveri, l’impossibilità dettata da una legge naturale per i ricchi di mescolarsi con i poveri (non sia mai) mancherebbe solo l’elemento principe di quel genere televisivo, ossia il famoso test del DNA idoneo a rivelare a qualcuno dei protagonisti che colui che ha creduto suo padre, in effetti, non lo è, ma per il resto c’è tutto. E come se non bastasse alcune parti del romanzo ricordano certi scenari adolescenziali del bel mondo Mocciano che mi han subito fatto venire il sospetto che questo libro non l’avrei salvato. Ma sono obiettiva e, per onestà, inizio dalle cose buone: l’idea di fondo, basata sull’anticonformismo della giovane protagonista, non è certo deprecabile, anzi nasce un sentimento di solidarietà per Elisabetta e per le sue lotte. Certo, non basta mai l’idea di fondo, soprattutto se non sviluppata bene, come una materia prima pregiata annientata da mani poco sapienti di un artigiano. Infatti, nell’evolversi della narrazione ci si perde in temi troppo complessi come la mafia, l’anoressia, e l’amore omosessuale trattati con estrema semplicità e che, finendo nel calderone, non riescono comunque ad amalgamarsi armonicamente con il resto. 
Da non sottovalutare, infatti non l’ho per niente sottovalutata, la presenza di imprecisioni, di refusi e di abbondanti e abnormi errori ortografici e grammaticali che rendono la lettura eccessivamente fastidiosa per non dire urticante. E se questo non bastasse (ma vi assicuro: era più che sufficiente) viene in soccorso un uso arbitrario, per non dire fantasioso e scriteriato, dei segni di interpunzione che incitano inesorabilmente a un abbandono della lettura e a una preghiera, per chi fosse credente, affinché nella memoria non rimanga traccia del libercolo.
Ah! Dimenticavo: non posso non ricordare, per amor di precisione, come i vari capitoli siano intervallati da brani che dovrebbero essere poesie. Insomma: se la prosa dovesse esser insufficiente consolatevi con la poesia.