Anche i ricchi piangono. Il ritorno
Titolo: Un passo indietro
Autore: Nicole Pizzato
Editore: Prospettiva
Anno: 2013
Pagine: 345
Genere: Romanzo
Siamo sotto il caldo sole della Sicilia. Elisabetta Primo, figliola di Don Marcella e della contessina Marianna, ha ventuno anni e dopo un periodo trascorso nell'isolamento, a seguito della fine - imposta dalla crudele quanto fascista genitrice - del suo amore impossibile, cerca di riprendere in mano la sua vita. Cosa non certo semplice impigliata com'è in un mondo che pare non appartenerle, anzi pare proprio disgustarla. La sua famiglia è ricca, sua madre è l'emblema di una società snob, frivola e i suoi amici, o presunti tali, vivono in un mondo di agiatezze e paiono preoccuparsi solo dell'apparire, delle feste cosiddette "ignoranti", dei viaggi e dei bei vestiti (anche le pantofole devono essere quantomeno di Gucci). Ma in quel mondo che Elisabetta rifiuta c'è ancora spazio per l'amore? C’è
spazio per il brasiliano Raoul, l’autista di famiglia bello come il
sole, ma di una classe sociale incompatibile con la sua? C’è
spazio per la vera amicizia una volta eliminate le maschere create
per nascondere sofferenze che affondano le loro radici nel
passato? Per quanto ambientaro nell'Italianissima Sicilia Un passo indietro ricorda, quasi prepotentemente, la trama di una telenovela sudamericana della
quale possiede tutti i crismi: gli abiti scintillanti, la madre
autoritaria e snob, il fluire del denaro, la netta contrapposizione
tra ricchi e poveri, l’impossibilità dettata da una legge naturale
per i ricchi di mescolarsi con i poveri (non sia mai) mancherebbe
solo l’elemento principe di quel genere televisivo, ossia il famoso
test del DNA idoneo a rivelare a qualcuno dei protagonisti che colui
che ha creduto suo padre, in effetti, non lo è, ma per il resto c’è
tutto. E come se non bastasse alcune parti del romanzo ricordano
certi scenari adolescenziali del bel mondo Mocciano che mi han subito
fatto venire il sospetto che questo libro non l’avrei salvato. Ma
sono obiettiva e, per onestà, inizio dalle cose buone: l’idea di
fondo, basata sull’anticonformismo della giovane protagonista, non
è certo deprecabile, anzi nasce un sentimento di solidarietà per
Elisabetta e per le sue lotte. Certo, non basta mai l’idea di
fondo, soprattutto se non sviluppata bene, come una materia prima
pregiata annientata da mani poco sapienti di un artigiano.
Infatti, nell’evolversi della narrazione ci si perde in temi troppo
complessi come la mafia, l’anoressia, e l’amore omosessuale
trattati con estrema semplicità e che, finendo nel calderone, non
riescono comunque ad amalgamarsi armonicamente con il resto.
Da non
sottovalutare, infatti non l’ho per niente sottovalutata, la
presenza di imprecisioni, di refusi e di abbondanti e abnormi errori
ortografici e grammaticali che rendono la lettura eccessivamente
fastidiosa per non dire urticante. E se questo non bastasse (ma vi
assicuro: era più che sufficiente) viene in soccorso un uso
arbitrario, per non dire fantasioso e scriteriato, dei segni di
interpunzione che incitano inesorabilmente a un abbandono della
lettura e a una preghiera, per chi fosse credente, affinché nella
memoria non rimanga traccia del libercolo.
Ah!
Dimenticavo: non posso non ricordare, per amor di precisione, come i
vari capitoli siano intervallati da brani che dovrebbero essere
poesie. Insomma: se la prosa dovesse esser insufficiente consolatevi
con la poesia.
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