venerdì 15 luglio 2016

CHIRÙ - Michela Murgia

"Affinità"
Titolo: Chirú
Autore: Michela Murgia
Editore: Einaudi
Anno: 2015
Pagine: 200
Genere: Romanzo


Mi incuriosiva molto leggere l’ultimo romanzo della Murgia soprattutto per le recensioni contrastanti lette in giro. Due i blocchi contrapposti: da un lato quelli che “manca una trama”, o anche “è un esercizio di stile”, dall'altro quelli che “è bellissimo”. Aggiungerei il terzo blocco: quelli –adorabili come l’eritema - che non hanno letto, non leggeranno il romanzo “ché tanto è brutto” Ma dove sta la verità? Non c’è una verità, chiaro. C’è però una storia, d’amore, di sentimenti certo. E c’è l’uso sapiente, scelto, delle parole che emerge in ogni riga. E poiché credo  che l’uso delle parole faccia la differenza in uno scrittore (ma guarda un po’!) io l’ho apprezzato.

"Chirù venne a me come vengono i legni alla spiaggia, levigato e ritorto, scarto superstite di una lunga deriva."
Sardegna, Cagliari. Eleonora, attrice di teatro affermata, ha trentotto anni quando incontra il diciottenne Chirú. Il giovane, quel giorno, è convinto, perché così qualcuno erroneamente gli ha fatto credere, di dover suonare il violino nel palco accanto a lei durante lo spettacolo. Eleonora gli spiega come preferisca recitare in silenzio. Al termine della rappresentazione quel giovane, vestito da adulto, con le braccia fin troppo lunghe e con appresso il suo violino, con il candore dei suoi anni chiede all’attrice se può seguirla a cena. Lei accetta. La loro non fu un’immediata affinità elettiva, lei semplicemente “lo riconobbe dall’odore delle cose marcite che gli veniva da dentro” forse perché quell’odore Eleonora lo  conosceva bene: era lo stesso suo. A tavola, tra altre persone che paiono quasi sfumate, i due conversano, ma lei vuole sapere esattamente cosa ci faccia lui con lei e Chirú, con sfrontatezza, afferma di volere che lei lo accompagni “anche se non sapeva dove andare” perché la donna conosce tante cose e lui vuole imparare, e tanto. Un allievo. Ancora? Sarebbe giusto? Sono passati ben otto anni dall’ultima volta che Eleonora ha preso con sé il suo terzo e ultimo allievo, o meglio quello che credeva fosse l’ultimo: ora ci sarà Chirú, il quarto…

Dopo Accabadora che le valse, tra gli altri, il premio Campiello l’autrice sarda torna, dopo sei anni, in libreria con un nuovo romanzo anch’esso ambientato prevalentemente in Sardegna seppur lontano dalle atmosfere ancestrali e magiche dell’opera precedente. Romanzo scritto in un momento particolare e di certo difficile della sua vita privata, "non è un libro autobiografico, ma racconta molto della mia vita" ha, infatti affermato la Murgia, Chirú, suddiviso non in capitoli, ma in 17 lezioni e un compimento finale, si presenta fortemente crudo nell’offrirci un percorso di formazione e di acquisizione di consapevolezza del sé alla luce di una introspezione intensa e anche dolorosa. La Murgia l’ha definito un “romanzo politico” tutto incentrato com’è sul concetto di potere che domina i rapporti umani, primi fra tutti quelli familiari, la figura del padre di Eleonora ne è l’emblema, ma sono impregnate di potere tutte le relazioni sentimentali, senza dimenticare che ogni relazione è, comunque, sentimentale, dirà Eleonora. Politico anche perché l’autrice, sempre attenta al problema delle donne, detronizza l’uomo per affidare stavolta il ruolo di mentore a Eleonora "infelice con classe", una donna la quale incarnerà la maestra intesa in senso ampio affiancando il giovane nella vita. E l’insegnamento non è solo un dare, non è mai –né mai può essere- unidirezionale: è un filtro a maglie larghe che permette un interscambio tra docente e discente quasi che, a un certo punto, i ruoli paiono confondersi. Una storia dal punto di vista dell’intreccio narrativo priva di eventi eclatanti, lineare, tutta basata sull’interiorità dei protagonisti e sul ruolo delle parole che paiono frutto di una scelta minuziosa e attenta, mai frutto della casualità, pesate una per una, accarezzate e adagiate delicatamente nella pagine per creare immagini eleganti e sonorità raffinate. Una curiosità: nella fase immediatamente precedente all’uscita del libro la Murgia ha aperto una pagina Fb a nome di Chirú, il quale ha interagito con i lettori e proposto il suo punto di vista, i suoi dubbi, le sue paure, scavalcando le pagine del libro per diventare, seppur in modo atipico,  “reale”. 


giovedì 14 luglio 2016

ANNI D'INFANZIA - Jona Oberski

"Di storie e di stelle"

Titolo: Anni d’infanzia. Un bambino nel lager
Autore: Jona Oberski
Editore. Giuntina
Anno: 1996
Pagine: 119
Traduzione: Amina Pandolfi
Genere: Romanzo autobiografico

La ferocia e il dolore raccontati da uno spettatore e cronista speciale: un bambino.

Il bimbo e la madre era stati presi dai soldati. Buio, in un luogo con le pareti di legno. Odori sconosciuti e rumori che confermavano la presenza di altre persone. La madre lo accarezza, lui chiede del papà. La madre lo consola dicendogli che è stato tutto uno sbaglio e che presto sarebbero tornati a casa, dal padre. Una settimana dopo, insieme ad altre poche persone, tornano davvero a casa. Ricomincia la vita normale, il compleanno del bimbo e quel regalo meraviglioso, un burattino, i giochi in strada. Ma anche i negozianti che si rifiutano di dar loro qualcosa, anche se pagano, e la stella gialla cucita nei vestiti. Una mattina il bimbo viene svegliato dalle urla di un uomo. Capisce che devono sbrigarsi. Devono partire, senza perdere tempo: il soldato continua a urlare. La mamma prepara le valigie. Il bimbo si ricorda del suo burattino: troppo tardi, la valigia era già stata chiusa. Il papà stacca il burattino dal muro e glielo porge: dovrà portarlo il piccolo.  Camminano con quelle valigie pesanti,. Arriva un camion, salgono con tanta altra gente. Il bimbo vedeva solo cappotti. Poi il viaggio in treno e, infine, la separazione dal padre – il bimbo starà con la madre - e una baracca: dal numero della stessa capisce che è un’altra rispetto a quella della volta precedente… 

"La mamma mi aveva cucito sul cappotto una stella gialla. Disse:<Guarda, ora hai anche tu una stella bella come quella del papà>."

L’olandese Jona Oberski, classe ’38, ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza del lager: era, allora, un bambino. E, dopo lunghi anni di analisi, ha ritrovato il bambino che lui è stato, il testimone di quell’atroce esperienza, e lo ha fatto parlare: infatti, nonostante Anni d’infanzia sia stato pubblicato nel 1978, trent’anni dopo l’esperienza vissuta, è comunque il bambino Oberski che parla non già l’adulto. Non è un caso che lo stesso Oberski abbia affermato che la guerra, prima del percorso terapeutico a cui si è sottoposto, per lui non era mai esistita e quando scrisse il libro voleva semplicemente “esprimere ciò che quella vicenda aveva significato per un bambino (…) e quando scrissi Anni d’infanzia i ricordi erano vividissimi come sono stati raccontati nel libro.”

"La sera la mamma mi domandò che cosa avevo fatto durante il giorno. Le raccontai che ero stato insieme ai ragazzi più grandi. Mi domandò se mi prendevano così senz'altro con loro e io le spiegai che ora sì, mi prendevano con loro, perché avevo superato la prova. Ero stato all'osservatorio. Lei mi domandò che cos'era, un osservatorio. Risposi che lo sapeva benissimo, che lì c'erano i cadaveri e che sapeva anche benissimo che mio padre era stato gettato sopra gli altri cadaveri e che non aveva neppure un lenzuolo e io avevo detto ai bambini che ne aveva sì uno, mentre avevo visto benissimo che non ne aveva. Mi misi a strillare che lei era matta a lasciare che lo buttassero così sugli altri cadaveri senza lenzuolo."

Una storia atroce che suscita tenerezza, ma sempre raccontata con estrema precisione per quella grande capacità che hanno i bambini di osservare i dettagli. L’esperienza del campo di concentramento vista attraverso il filtro degli occhi dei bambini che, con il loro candore, riescono a narrare episodi dolorosi e tristi (che sia la morte del padre o la follia della madre o, ancora, lo svolgere il compito di aiutante in cucina per raschiare i pezzi di patate rimasti attaccati al fondo dei pentoloni) con un una semplicità che solo loro hanno il privilegio di possedere. Dal romanzo è stato tratto, nel 1993, anche un film, Jona che visse nella balena, per la regia di Roberto Faenza.

Altri libri:
La scena perduta, Abraham Yehoshua


mercoledì 13 luglio 2016

IL PROCESSO DI SHAMGOROD - Elie Wiesel

"Dov'è Dio?"

Titolo: Il processo di Shamgorod
Autore: Elie Wiesel
Editore: Giuntina
Anno: 1995
Pagine: 90
Traduttore: Daniel Volgeman
Genere: Teatro

Il processo di Shamgorod è un testo teatrale che ho conosciuto per caso e che, per la sua intensità, mi ha dato tanto a livello emozionale. E, se ce ne fosse bisogno, Wiesel si conferma ancora una volta un grande e sensibile autore capace di scavare e di indagare nell’animo umano come pochi vi riescono.

La pièce è ambientata nel XVII secolo. È il giorno di Purim e tre attori girovaghi, Mendel, Yanken e Avremel, giungono nella locanda del taverniere Berish, sita in un piccolo villaggio dell'Europa Orientale. I tre non sanno che l'accigliato Berish è l'unico ebreo sopravvissuto, con sua figlia Hannah, a un pogrom avvenuto recentemente. Con lui, anche Maria, la serva cristiana.  Nessun altro è rimasto.  I tre attori decisi a onorare quel dì di festa, bevono in continuazione ed è palese come non abbiano i soldi per pagare. Ma il modo per pagare si troverà: insceneranno uno spettacolo per il taverniere.  Sarà lo stesso Berish a proporre il tema  dell'esibizione: un processo, ma particolare visto che l'imputato sarà Dio. Gli attori rivestiranno il ruolo dei giudici, Berish  sarà procuratore, “Uno gentile che ha il diritto di essere cattivo” e, infine, Maria, rappresenterà il popolo. Manca il difensore “Uno cattivo che è pagato per dire bene di uno ancora più cattivo” e pare che nessuno voglia assumersi questo difficile incarico difficile. “In tutta la creazione, di regno in regno, di nazione in nazione, non c'è nessuno per giustificare le vie di Dio?” dice un Mendel quasi rassegnato all'assenza, fino a che non appare lo straniero, Sam, che assumerà il compito di difendere Dio, in contumacia. Ma chi è Sam?...


Elie Wiesel in questo breve, ma pregevolissimo testo metateatrale affronta tematiche a lui ben note e care: la memoria, innanzitutto, ossia la necessità di non relegare nell'oblio frammenti di storia che hanno portato all'annientamento dell'essere umano, l'odio e la violenza dell'uomo sull'uomo, e - in  particolare – il rapporto tra la sfera umana e quella divina dove un Dio, crudele e atroce, dispensa agli assassini forza per poi lasciare alle vittime un pesante fardello fatto di amara solitudine, dolore e lacrime. Oltre che rabbia, tanta rabbia come quella incorporata dal taverniere, Berish, uno dei pochissimi rimasti dopo il pogrom di Shamgorod, un sopravvissuto/testimone come, del resto, lo stesso Weisel. Un uomo, Berish, che è anche il simbolo dell'eterna domanda “Dov'era Dio?”. Una pièce che si snoda lentamente per quel senso continuo e inquietante di attesa, quasi materiale e tangibile, che terminerà con il colpo di grazia finale. Un gioiello sia per i temi profondi e dolorosi trattati, sia per la struttura del testo (teatro nel teatro), sia per lo stile sempre impeccabile dell'autore della celebre e indimenticabile autobiografia La notte che riesce sempre a toccare corde sensibili e a far riflettere sull'insensatezza e sulla ingiustificabilità di alcune azioni umane. 

martedì 12 luglio 2016

LA CANTATRICE CALVA - Eugène Ionesco

"L'emozione non ha capelli"

Titolo: La cantatrice calva
Autore: Eugène Ionesco
Editore: Einaudi
Anno: 1958
Pagine: 55
Traduzione: Gian Renzo Morteo
Genere: Teatro


Scrivere de La cantatrice calva significa addentrarsi in un terreno difficile. È un’opera che ho letto tantissime volte e che, tante volte ancora, rileggerò sempre con crescente entusiasmo. Lo so. E nonostante la conosca benissimo, so che non riuscirò a rendere con le parole la bellezza che quest’opera trasuda, non riuscirò a descrivere l’emozione che ogni dialogo mi regala. Dico solo che di questa bellezza, indefinibile, ne ho bisogno.



La scena si apre sul salotto dei coniugi Smith
“Interno borghese inglese, con poltrone inglesi. Serata inglese. Il signor Smith, inglese, nella sua poltrona e nelle sue pantofole inglesi, fuma la sua pipa inglese e legge un giornale inglese accanto a un fuoco inglese. Porta occhiali inglesi; ha baffetti grigi, inglesi. Vicino a lui, in un’altra poltrona inglese, la signora Smith, inglese, rammenda un paio di calze inglesi. Lungo silenzio inglese. La pendola inglese batte diciassette colpi inglesi.”

 I due tengono una conversazione assai banale,  “Le patate sono molto buone col lardo”“ Il pesce era fresco. Mi sono pure leccata i baffi.” che rispecchia il modello di quelle contenute nei manuali redatti per l’apprendimento di una lingua straniera.
Arriva la cameriera Mary, la quale annuncia la visita dei coniugi Martin.
Intanto gli Smith si allontanano annunciando di volersi cambiare d’abito (torneranno, certo, ma con gli stessi abiti).
Nell'assenza dei padroni di casa i Martin parlano tra loro come se si fossero appena conosciuti e, per via di una lunga serie di strampalate coincidenze, scoprono di essere marito e moglie (guardate un po': abitano entrambi al n. 19 della via Bromfield ed entrambi al quinto piano. E, addirittura, hanno entrambi una figlioletta che si chiama Alice!)
Tornano gli Smith e arriva il comandante dei pompieri alla ricerca di un incendio da spegnere, ovvio. La conversazione prosegue sulla base di aneddoti che i personaggi, a turno, raccontano. E quando il signor Smith pronuncia la frase “Abbasso il lucido!” qualcosa nella stanza cambia: la conversazione assume una piega diversa o, meglio degenera in una sorta di litigio nel quale predominano più che le parole, il non-sense, i suoni e i giochi di parole…

Rappresentata per la prima volta a Parigi nell’anno 1950, al Théâtre des Noctambules, La cantatrice calva, commedia in un unico atto, non riscosse grande successo.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora e, oggi, non può negarsi un valore incommensurabile a questa commedia, o meglio anti-commedia come la definì lo stesso autore nel sottotitolo, ascritta al teatro dell’assurdo e che, innegabilmente ha segnato una importante evoluzione nella storia della drammaturgia. Inutile trovare nell'opera un filo logico o, comunque, una trama caretterizzata da azione-evoluzione o, anche, colpi di scena. Inutile dire che la cantatrice calva del titolo, di fatto, venga solo citata incidentalmente (come quella che “si pettina sempre allo stesso modo”) e che, pertanto, non abbia un ruolo cardine nella commedia, inutile trovare personaggi che agiscono. Ma di ben altro è ricca la commedia. Il punto forte e affascinante oltre misura dell’opera è indubbiamente il linguaggio: solo un grande autore come Ionesco poteva – come di fatto ha fatto – farne un uso così libero, fuori dagli schemi, quasi esagerato o, se vogliamo esasperato. Prende le parole, le fa giocare, ruotare, rovesciare, ne scopre la malleabilità, l’elasticità, i mille volti, le scompone e le ricompone per poi disgregarle di nuovo e ricominciare in un gioco che pare –e di questo ne siamo ben contenti – non voler finire. E dietro quei dialoghi carichi di non-sense, di ripetizioni, di assonanze, di acrobazie, di rime si nasconde, pur sempre, una spietata analisi di una società, quella borghese, vuota, fatta di luoghi comuni, priva di vera sostanza. I signori Smith, con i loro divani inglesi e le loro conversazioni inglesi, o i signori Martin più che essere persone sono schemi da riempire che, ci si accorge con un senso di amarezza, non possono essere riempiti.  
"Prendete un circolo, coccolatelo, e diventerà vizioso!" dirà, a un certo punto, il signor Smith. 
Prendete La cantatrice calva, leggetelo e sarete coccolati, dico io. 



mercoledì 29 giugno 2016

A GALLA - Alessandro Toso

Titolo: A galla
Autore: Alessandro Toso
Editore: Scrittura & Scritture
Anno: 2016
Pagine: 367
Genere: Romanzo

Veneto, Castello D'Arquà. La Tecnobitum è una delle poche aziende che continua a resistere nonostante la crisi: un centinaio di persone riesce a vivere grazie ad essa. Il titolare è Renato Pappalardi, deciso e convinto. Già, convinto anche stavolta di farcela nonostante lo spettro della Cassa integrazione. Nonostante i germi di protesta dei suoi operai, in primis quel Franchino. Ma lui, il grande Pappalardi, ne uscirà indenne. Perché non dovrebbe?...

Dopo Destini verticali ambientato in cieli nevosi e montagne impervie, Alessandro Toso, scrittore trevigiano, torna in libreria con A galla che dipinge, con estremo realismo, quel fenomeno attuale, temuto e odiato: la crisi economica. 
Appena terminata la lettura mi è venuto in mente quel celebre passo di Fontamara di Silone
 « In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo.
Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si può dire ch'è finito. » 
 



Mi è parso subito che A galla possa essere, in qualche modo, lo specchio di quel concetto espresso da Silone, fatti ovviamente gli opportuni riadattamenti. Il potere e le gerarchie questo il nucleo del romanzo, quelle maledette gerarchie caratterizzate da  fissità granitica di ruoli e di idee: perché, appunto, così è e così dev'essere. Senza, quasi, lasciar spiragli che possano permettere anche solo a  venticelli nuovi ( e non dico tempeste) di turbare o spostare quell'ordine precostituito considerato quasi sacro e inviolabile. Emblema di quel dio, di quel primo posto, Renato Pappalardi, personaggio senza scrupoli, senza umanità, insensibile a ciò che gli succede attorno (anche all'interno delle mura domestiche) che incarna colui che tutto può perché è assiso sul trono dorato (che, a ben vedere, di dorato ha ben poco). 
Una pluralità di personaggi ruota intorno alla vicenda della Tecnobitum che, come giudice impietoso, pare in grado di decidere le sorti e la vita di tutti, compresi i parenti stretti dello stesso Pappalardi. Tra questi anche personaggi forti che entrano, comunque, nel cuore perché riescono ad suscitare emozioni positive: strano, ma al mondo - nel mondo descritto - possono esistere anche esseri umani dotati di sentimento! E tutti quanti, negativi e positivi, seppur con modalità diverse cercano di sopravvivere, di stare, appunto, come significativamente ricorda il titolo, a galla in un mare -subdolamente calmo, in alcuni giorni e, decisamente agitato, in altri giorni - non benevolo. 
Una scrittura piana, scorrevole, ben ritmata, nella quale i vari intrecci tra le vicende si amalgamano armoniosamente.
Un quadro spietato di una realtà acre che fa riflettere e, in ogni caso, lascia intatto qualche filo di bellezza che riesce a sopravvivere in un mondo fin troppo crudele, un filo che, anch'esso, rimane a galla. Senza zattera di salvataggio, certo, ma comunque non affoga. 



martedì 28 giugno 2016

L'EREDITÀ MEDICEA - Patrizia Debicke Van Der Noot

"Io entrai a Firenze"

Titolo: L'eredità medicea
Autore: Patrizia Debicke Van Der Noot
Editore: Parallelo45
Anno: 2015
Pagine: 304
Genere: Giallo storico

Firenze. È la notte del 5 Gennaio 1537 quella nella quale si consuma l'assassinio di Alessandro De' Medici. Tre gli assalitori e, tra questi, suo cugino: Lorenzo De' Medici, lo stesso che gli darà la prima pugnalata. Caterina Soderini, presente nella stanza, assiste a quell'abominio, con il suo abito di broccato lordo di sangue. Prima impietrita, poi urla. Lorenzino e gli altri due - lo Scoroncolo e il Freccia - fuggono, raggiungono Piazza San Marco, poi Porta San Gallo e, per loro, si apre la via Bolognese... Nei pressi del luogo del crimine c'è un uomo, nascosto in un nero mantello: i lanzi di guardia non ci fanno caso. L'uomo vede i tre assassini che si allontanano. S'inoltra nel vicolo, incontra una fantesca che nemmeno lo guarda. Si affaccia nella stanza del cadavere del duca di Firenze: tra lui e il morto un muro di schiene. È chiaro: il tiranno è morto. L'uomo vestito di nero si allontana, giunge alla porticina della casetta del Chiasso dei Ramaglianti e bussa. Il battente si apre: "È fatta" sussurra...Ora che l'omiciatto, quel Lorenzino "piccolo di statura, rachitico, brutto e di aspetto malaticcio" ha ucciso il Duca che ne sarà di Firenze? Chi sarà il suo successore?...

Patrizia Debicke Van Der Noot con la sua ultima fatica manifesta, ancora una volta, il suo amore per la storia del '500: non è un caso che, in Italia, questo sia il quinto romanzo ambientato in epoca rinascimentale. In un turbinio di intrighi, passioni, tradimenti, vendette la Debicke offre al lettore una storia avvincente e avventurosa fatta di tensione e che ingenera una profonda curiosità (come non essere curiosi di fronte, per fare un esempio, alla figura del misterioso uomo che si fa chiamare l'Ombra?). Un intreccio perfetto, storie e personaggi che si muovono in un contesto storico del quale ci viene offerto, con dovizia di particolari, un dipinto preciso dal quale è facile intravedere un lungo lavoro di documentazione e ricerca.
Attenzione ai dettagli (pensiamo alla deliziosa descrizione degli abiti o anche agli aspetti legati all'arte culinaria) che, ben incasellati, e lontani da toni didascalici, consentono di farci immergere ancora di più nella storia. Ottima anche la descrizione dei personaggi, sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico, che ce li restituisce in un formato quasi materiale: sia i "grandi" sia quelli minori che, in ogni caso, rimangono impressi. 
Insomma, non solo una lettura, ma quasi un viaggio nel tempo alla riscoperta di un'epoca della quale pare di sentire, da vicino, i profumi o sfiorare quei broccati colorati. 

venerdì 13 maggio 2016

VERITÀ PROCESSUALE - Paolo Pinna Parpaglia



 "Veritas filia temporis...forse"

Titolo: Verità processuale

Autore: Paolo Pinna Parpaglia

Editore: La Zattera Edizioni

Anno: 2015

Pagine: 372

Genere: Legal thriller



Ognuno ha le proprie fisse. Per esempio, io ne ho tante. Tra queste, quella di acquistare il primo volume di un fumetto appena uscito e, poi, decidere se acquistare o meno gli altri e, con essa, quella di conoscere le nuove case editrici con l’acquisto dei loro libri. Così è successo, appunto, per questo libro: appena ho saputo che era nata (o meglio, rinata) la Zattera Edizioni mi sono precipitata in libreria a conoscere Verità processuale.



Quirico D’Escard è un avvocato civilista, preparato, amante della sua professione che, comunque, attende il salto di qualità. Cosa non certo facile in quel di Cagliari dove, a detta di Matteo suo collega, non conta essere un buon avvocato quanto piuttosto “essere un avvocato conosciuto, carismatico, uno che qualsiasi cosa dici, anche la peggio cazzata, vieni ascoltato, se poi la causa la perdi, vaffanculo. Puoi conoscere il codice a memoria ma sarai sempre considerato inferiore a quello che conosce due articoli ma se li vende bene. Questo è il mondo dell’apparire non dell’essere e, in questo buco di città, è più che mai così.”  E mentre Quirico, nel balcone della casa dei suoi genitori (già, lui non ce l’ha una casa sua) riflette sul suo approccio alla professione e al famoso salto di qualità riceve una telafonata. È il suo amico Gabriele che lo invita a guardare il telegiornale per la notizia del giorno: il professor Enrico La Torre è stato arrestato per l’omicidio di una sua studentessa durante un gita scolastico. Enrico,  il suo amico,, un assassino? Impossibile. Un tipo strano, eccentrico, forse con qualche problema caratteriale, ma non certo un violento. Quirico non può crederci. Pochi giorni dopo riceve un telegramma dalla Casa Circondariale di Buoncammino: Enrico La Torre lo nomina suo difensore. Lui, suo amico. Lui, avvocato civilista…



Primo romanzo pubblicato dalla casa editrice cagliaritana La Zattera di Alessandro Cocco, Verità processuale è un legal thriller ben congegnato che, al di là dell’intreccio rappresentato dalla triade omicido-accusa-difesa, ruota sia intorno a temi molto vicini a chi svolge la professione di avvocato sia intorno a temi di valenza universale. 
Il mondo lavorativo di Quirico risulta dominato da necessarie apparenze che, talora, paiono scontrarsi con i dubbi, le paure e il senso di inadeguatezza che un avvocato deve affrontare in un micromondo (che, spesso, crede di essere un macro-mondo se non l’unico mondo possibile)  difficile e complesso. Quirico è inesperto forse, ma preparato, e, indubbiamente, genuino e si trova, all’improvviso, a dover difendere un amico e questo fatto – l’amicizia -  cambia le dinamiche e le prospettive come se non bastasse, a ciò si aggiunge il fatto che egli ha una fede incrollabile sull’innocenza dell’amico.

Il tessuto narrativo ruota intorno all’amato, perseguito, ma al tempo stesso misterioso concetto di verità. Già, la famosa verità: concetto non spesso univoco, suscettibile di labirintiche biforcazioni perché, se in qualche modo, è vero che la verità processuale può essere unica è altrettanto vero che la verità, in sé, può essere molteplice e frammentaria.

Una lettura scorrevole, trascinante e appassionate che tiene incollati alle pagine sia per l’quo bilanciamento di passione, forza emotiva e leggerezza, ma anche per la buona caratterizzazione dei personaggi che, per le loro fragilità, i loro dubbi e i loro pregi e difetti, sentiamo comunque vicini, “conosciuti”.

Buona lettura!