Girasola ospita la terza tappa del blogtour ideato dalla casa editrice Libro Aperto International Publishing volto a far conoscere il romanzo Ti presento il mio ex di Valeria Angela Conti (tutte le tappe del blogtour: qui)
In questa terza tappa troverete, qui di seguito, una chiacchierata tra me e Valeria Angela Conti.
Da dove e come nasce l’idea del tuo romanzo?
Beh, credo che ognuno di noi abbia qualcosa, nel suo passato, che non riesce a cancellare. Io ho voluto dare voce a tutte quelle ragazze che tentano disperatamente di dimenticare chi le ha fatte soffrire, per poter andare avanti.
In Ti presento il mio ex un ex, appunto, dopo anni di assenza torna a scombussolare l’equilibrio raggiunto da Lauren. Perché l’hai fatto tornare? Per dirci che gli ex sono in qualche modo pericolosi? O, ancora, per dirci che nonostante le apparenze di una vita perfetta, l’amore – quello vero – è in grado di scardinare ogni certezza?
Nel mio libro, l'ex torna per fare capire a Lauren come sarebbe stato se non se ne fosse mai andato. Quando qualcuno ci abbandona si tende sempre a idealizzarlo, chiunque esso sia e si dimenticano invece le cose brutte, quelle che non andavano bene. Ma alla fine tutti i nodi vengono al pettine.
Nel tuo romanzo c’è qualche personaggio nel quale ti riconosci?
Sicuramente in tutti i miei personaggi c'è qualcosa di me.
Quali letture prediligi? E, in particolare, nella stesura del tuo romanzo c’è stato qualche autore che ti ha ispirato?
Mi piacciono le letture leggere, divertenti e ironiche, ma anche quelle più profonde e riflessive. In questo libro ho tentato un mix di entrambe le cose. No, non mi sono ispirata a nessun autore in particolare. Mi hanno definita la Kinsella in salsa italiana (magari) ma credo di avere uno stile tutto mio.
La tua è una commedia dalle tinte rosa, divertente, tragicomica, ma pur sempre romantica, un genere che -solitamente e con le dovute eccezioni- è apprezzato dalle donne. Pensi che potrebbe piacere anche agli uomini e perché?
Credo di sì. A mio marito è piaciuto, e lui è molto critico e sincero.
Stai scrivendo altro?
Sto scrivendo il mio settimo romanzo e sono felicissima di continuare a scriver.
Non dimenticate la terza tappa del 18 marzo:
https://salottodeilibri.wordpress.com/
Girasola è un anagramma che girovaga tra i libri e che crede al potere terapeutico delle passioni.
martedì 10 marzo 2015
domenica 1 marzo 2015
MONTEDIDIO - Erri De Luca
Bumèrando
Titolo: Montedidio
Autore: Erri
De Luca
Editore: Feltrinelli
Genere: Romanzo
breve
Anno: 2007
Pagine:144
Adoro
questo piccolo libro. La prima volta lo lessi in pullman durante un viaggio accidentato
e lungo da Cagliari a Nuoro. Ricordo che eravamo una trentina di persone delle
età più disparate e ci recavamo a Nuoro per un congresso dei Comunisti
Italiani. Quando ancora ci credevo, aggiungo. E ricordo che, nonostante il
sottofondo chiassoso, riuscii a leggere e a sottolineare questo libro e ad
innamorarmi del piccolo protagonista napoletano. L’ho riletto adesso nella
tranquillità di casa mia (se di tranquillità di può parlare vista la piccola e
vispa bimba pestifera che ho generato) e l’amore per il piccolo protagonista
non è stato scalfito, lo stesso non si può dire per i comunisti italiani, ma
questa è un’altra storia.
Le
vicende si svolgono a Napoli nel quartiere di Montedidio. Lui ha appena
compiuto tredici anni e il babbo, come è giusto che sia, l’ha messo a lavorare.
Anzi, rispetto ai suoi coetanei l’ingresso nel mondo del lavoro è avvenuto in
ritardo visto che era un po’ malatticcio. È il suo primo giorno nella bottega
di mast’Errico. Imparerà a lavorare il legno e la sera annoterà i fatti del
giorno in un avanzo di bobina regalatagli dal tipografo che è buono, in fondo,
gli piace soltanto toccare il piscitiello
ai ragazzini. Con sé porta sempre il bumeràn
che proviene dall’Australia, ma non lo può lanciare perché nel suo
quartiere non c’è lo spazio nemmeno per uno sputo. Fa niente: può sempre fare
la mossa di tirarlo. Il bottega c’è anche Don Rafaniello, o’ scarparo, che ha
la gobba dalla quale un giorno spunteranno le ali che lo porteranno a
Gerusalemme: si sentono già scricchiolare le ossa delle ali. E poi c’è lei:
Maria…
Tra
gli stretti e chiassosi vicoli di Montedidio si staglia la figura di un
tredicenne che fa la cronaca delle sue giornate e la fa in italiano, pur
sentendosi un traditore del suo dialetto, perché l’italiano è zitto e ci può
mettere i fatti “riposati dal chiasso napoletano”.
Montedidio ha la sostanza di
una favola, amara certo, nella quale l’io narrante ci porta nel suo brusco
percorso di crescita privo di tappe intermedie che si traduce in uno
sfondamento quasi violento di quelle porte che conducono nel mondo adulto. È un
romanzo ricco di tenerezza e magia nel quale domina l’assenza, dirà molto
saggiamente il protagonista “I grandi vanno dietro ai loro guai e noi restiamo
nelle case sorde che non sentono più un rumore.
Solo il nostro sentiamo e fa un
po’ paura.” La solitudine, le assenze e le dolorose perdite si uniscono, quasi
a creare una compensazione salvifica, con la forza, la voglia di vivere,
“l’ammore” e, soprattutto, i sogni i quali, in qualche modo, si realizzeranno
nella notte di Capodanno tra colorati e rumorosi fuochi d’artificio. De Luca ci
regala una storia tenera, fiabesca ma non troppo, in un alternarsi di crudezza
e lirismo che ha la capacità di incantare dalla prima all’ultima pagina. E il
piccolo napoletano rimarrà con noi anche a libro terminato.
mercoledì 25 febbraio 2015
CONTRO L'OCCIDENTE - Alberto Abruzzese
CONTRO
Titolo: Contro l'Occidente. Analfabeti di tutto il mondo uniamoci
Autore: Alberto Abruzzese
Editore: Bevivino
Anno: 2010
Pagine: 253
Genere: Saggio
Non avrei, forse, mai pensato di leggere questo libro. Forse.
Ma la vita ti porta delle cose e se le porta a te vuol dire che le devi far
tue in qualche modo. Certo, del libro di
Abruzzese non si può dire la tanto e usata –spesso abusata - frase “L’ho
divorato” visto che la sua scrittura, forse anche per il tema trattato,
richiede un certo impegno e dosi massicce di concentrazione. A piccoli passi, a
piccole dosi, lentamente e con i sensi vigili: così l’ho letto.
“Caro lettore, ti scrivo”. Così
inizia questo complesso saggio. Ma perché scrive al lettore? Per interrompere
quel patto, quella complicità che lega e ha da sempre legato – a mo’ di
contratto sinallagmatico - un lettore all’autore. Per suscitare reazioni forti
che nascano, se possibile, dalle viscere del cervello. Messaggi. Messaggi
irrimediabilmente contro. Contro il libro. Contro gli scrittori, contro gli
autori, gli intellettuali, le istituzioni, le politiche ed estetiche della
scrittura, contro la lettura e i lettori. Non per ingannarvi, o miei cari
lettori, non per farvi perdere minuti del vostro prezioso tempo, ma semplicemente
per formularvi un invito. Un invito importante: l’invito ad ascoltarvi
attentamente e arrivare a scoprirvi analfabeti e accettare, con serenità, il
barbaro che c’è in voi. Date queste premesse, è quantomeno opportuna una
solidarietà impossibile e perciò stessa pensabile – necessariamente pensabile -
tra gli analfabeti. Unitevi e uniamoci. Perché il libro non è più un’arma o una
difesa? Esso è morto perché mortale come un qualsiasi altro prodotto che ha
esaurito il suo ciclo produttivo? Perché questo scontro? Perché ascoltare le
ragioni del non-lettore? Siamo tutti moderni Prometeo? O Don Giovanni?...
Analfabeti di tutto il mondo uniamoci è stato
pubblicato per la prima volta nel 1996, due anni dopo l’ingresso sulla scena
politica di Silvio Berlusconi e preceduto da Elogio del tempo nuovo. Perché
Berlusconi ha vinto, viene ripresentato, immutato nei contenuti, nell’anno
2010, con il titolo Contro l’Occidente. Alberto Abruzzese è uno studioso
e un grande conoscitore dei processi sociali e comunicativi del nostro secolo,
non poteva esimersi dallo studiare quei fenomeni che si sono sviluppati nel
Belpaese che, a dire il vero, di bello ha ben poco. Avvento dei new media,
epoca di grandi mutamenti e, in particolare, l’evoluzione - sin troppo rapida -
dei linguaggi virtuali a cui è corrisposta la nascita di forme di
de-civilizzazione e barbarie. Ricco di metafore e impensabili richiami
mitologici e biblici, non didascalico e non scevro di una certa ironia né
privo, a dire il vero, di passi un tantino ostici e di non immediata
percezione, ci offre una spietata analisi del tragico che si insinua nel
passaggio, spesso troppo rapido, da un sistema comunicativo ad un altro che
trova voce in Christine de Il fantasma dell’Opera richiamato dallo
stesso autore “ Trovandomi davanti allo specchio, d’un tratto non l’ho più
visto… l’ho cercato dietro ma non c’era più lo specchio, né il camerino… Ebbi
paura e gridai” . Buio. Disorientamento. Urlo di terrorizzata angoscia che
rappresenta, pienamente, la perdita e l’incapacità di ritrovare luoghi e
immagini di identificazione. E che la lentezza della lettura sia con voi, o
lettori.
martedì 27 gennaio 2015
FANTASMI A CAGLIARI. IL RITORNO DELLE ANIME - Pierluigi Serra
A VOLTE RITORNANO
Titolo: Fantasmi a Cagliari
Autore:
Pierluigi Serra
Anno: 2014
Editore:
Libro Aperto International Publishing
Pagine: 204
Molti dei ricordi della mia infanzia trascorsi in un
piccolo paese della Barbagia di Seulo sono legati a storie nelle quali il
confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti era molto labile, facile da
oltrepassare. Non era infatti cosa fuori dal comune, in quei vecchi racconti,
che i morti, di tanto in tanto, varcassero l’oltretomba e andassero a cercare i
loro cari per una visita-lampo, per semplicemente accomodarsi nella sedia della
cucina a volte senza neanche proferire verbo o, anche, per annunciare qualche evento futuro. E io quelle anime non le ho mai
immaginate come ectoplasmi, ma come esseri tangibili forse per la forza insita
in quei racconti che conferiva loro una sorta di materialità quasi a voler
rafforzare un fatto che doveva considerarsi vero. Col tempo son diventata
scettica, tremendamente scettica ma pur sempre affascinata dalle storie di
fantasmi almeno quelli letterari visto che, ormai nessuno mi racconta quelle
belle storie provenienti da voci profonde. È naturale che un libro come
“Fantasmi a Cagliari” abbia attratto la mia attenzione. In un solo titolo due
cose che mi incantano: i fantasmi e Cagliari.
A detta di molti non sarebbe raro incontrare per le
vie di Castello un corpo senza testa che alteramente passeggia trascinando in
mano la propria testa. Così come può accadere che una vecchia edizione de L’uomo
che ride di Hugo spostato dalla proprietaria ritorni, nel corso della notte,
nella libreria dalla quale era stato rimosso. O, ancora, può succedere che in
una casa situata in Piazza Martiri ripetutamente compariano a turbare la vita
di due donne is duennas, apparizioni
notturne…
Io
non credo ai fantasmi e i fantasmi non esistono: era questo il pensiero che
dominava la mia mente mentre mi accingevo a leggere questo bel libro. A fine
lettura, invece quel pensiero si è come sbiadito perché soppiantato da un
altro: il valore delle storie, il valore del passato, del ricordo, la necessità
– spesso trascurata – di non far cadere nell’oblio voci lontane nel tempo. Già
perché Pierluigi Serra in questa opera ha, con piglio quasi scientifico, svolto
un’opera di conservazione di storie dal sapore antico delle quali è necessario
conservare il profumo. Non si parla di fantasmi tout court si parla di una città al limite del magico, esoterica, ed è di palmare evidenza come tutta l’opera
sia stata il frutto di lunga e paziente ricerca e di una grande capacità di
ascolto. Se a ciò si aggiunge l’abilità dello scrittore, e del giornalista
quale egli è, nel mettere insieme quelle tante voci e mescolare, con maestria,
eventi storici realmente accaduti con un mondo surreale ne vien fuori una
lettura interessante nella quale la curiosità del lettore è tenuta sempre
desta. E’ un libro scorrevole e ben curato e leggerlo è come fare una lunga
passeggiata nel tempo e nello spazio, una meravigliosa passeggiata in una Cagliari
misteriosa e fortemente intrisa di fascino caratterizzata da mille
sfaccettature e da ombre che si intersecano, si sovrappongono, si confondono
armoniosamente. Non è un caso che a fine lettura venga il desiderio di armarsi
di un buon paio di scarpe sportive e fare una lunga camminata nei luoghi, nelle
strade e nelle case richiamate nel libro per trovare, forse, qualcuna di quelle
ombre nel cocente sole cittadino.
mercoledì 14 gennaio 2015
LA COMPAGNIA DEL CORVO - James Barclay
DI CORVI E MAGIA
Titolo: La compagnia del corvo
Autore: James Barclay
Editore: Nord
Anno: 2010
Pagine: 518
Traduzione: Adria Tissoni
Credo di avere un piccolo grande limite: il fantasy. Non riesco ad amarlo fino in fondo, forse non lo comprendo, fatto sta che tutte le volte che leggo un libro appartenente a tale genere è come se vivessi una sensazione di allontanamento da ciò che mi piace e, a fine lettura, non riesco ad essere pienamente soddisfatta. Certo ci sono le eccezioni, anzi l'eccezione: l'immenso Il signore degli anelli che, fantasyasticamente, mi è rimasto nel cuore. Ma non demordo, io continuo a provarci, non sia mai che riesca a superare il mio limite ché quelli che capiscono le cose del mondo dicono sia cosa buona e giusta. E per me le cose del mondo son sempre mistero. Per esempio, intorno al genere di cui parlo, è un mistero il fatto che i romanzi fantasy facciano sempre parte (se va bene) di una trilogia e io, puntualmente, inizi dal secondo o dal terzo, è un mistero il fatto che tali romanzi abbiano sempre un numero di pagine superiore a 459. Basta.
Approdo, nella lettura, nella Terra di Balaia e lì trovo loro. Loro che son giovani, son forti e tenaci, non combattorno per un presunto o deviante spirito nazionalista e nemmeno per la inflazionata gloria. No, niente di tutto ciò. Combattono per ottenere in cambio sonanti vergargenti. Mercenari. Sono il Corvo. Uniti da un solenne giuramento che fa nascere tra loro legami indissolubili, in vita e anche dopo la morte. Ad essi è affidata una tra le missioni più importanti e più difficile della loro decennale carriera. Il destino di Balaia è minacciato dal ritorno dei Lord Stregoni i quali si son liberati dall'incantesimo che li aveva confinati nella prigione di mana per ben tre secoli. Il Corvo dovrà scortare il Mago Oscuro nella ricerca del Ruba Aurora -incantesimo potente - e degli annessi catalizzatori per portarlo nelle Terre Desolate e, ovviamente, lanciarlo contro i maligni Lord Stregoni. In una accesa lotta contro il tempo dovranno raggiungere tale incantesimo prema dei Lord onde evitarne un uso improprio che potrebbe determinare una conseguenza disastrosa: l'eliminazione del sole dal cielo. Vale la pena rischiare la vita e l'anima per aiutare l'ambiguo Mago Oscuro? Ha davvero un senso quella che pare assumere i caratteri di un'ultima missione? E, ancora, valgono più i sentimenti di amicizia che legano i membri del Corvo o l'esigenza di salvare il mondo?...
Primo romanzo di una trilogia intitolata Le cronache del corvo, quasi totalmente ispirato ai giochi di ruolo, come ha sottolineato lo stesso Barclay, autore inglese precocissimo.
Del fantasy classico La compagnia del corvo possiede indubbiamente tutti gli ingredienti anche se, paiono, non perfettamente dosati. Alla scarna e insipida caratterizzazione dei personaggi fa da contrappeso un'ottima e ritmata descrizione delle battaglie - che si tratti di lotte contro le Ali nere o contro i Dragonene - e degli incantesimi. La magia permea ogni singola vicenda. Magia bianca, nera, sortilegi di ogni forma e natura. Lo schema, ricorda, a grandi linee, quello de Il Signore degli Anelli: la lunga ricerca di un oggetto ricco di potenzialità e, in astratto, idoneo a cambiare le sorti del mondo, le battaglie all'ultimo sangue e i sentimenti di amicizia e solidarietà tra coloro che appartengono al Ci totaorvo, ma anche la linea di demarcazione - anche se, spesso, molto sottile e facilmente valicabile - tra i buoni e i cattivi.
Nel complesso, il romanzo risulta ben strutturato e, man mano che si procede nella lettura, si chiariscono, a tappe, quei punti che all'inizio parevano incomprensibili. Ben ritmato, continue scene di azione infarcite di quella buona magia che, complessivamente, rendono la lettura appassionante a patto, però, che del genere si sia estimatori e io...sabato 20 dicembre 2014
VITA E MIRACOLI DI TIETA D'AGRESTE - Jorge Amado
Capre e Madames
Titolo: Vita e miracoli di Tieta d'Agreste
Autore: Jorge Amado
Editore: Garzanti
Anno: 2010
Pagine: 616
Traduttore: Elena Grechi
Brasile. Bel clima, spezie
profumate, frutti tropicali. In un angolino di questo accogliente e
vivace stato si trova Agreste. Un paesino, piccolo, ma talmente piccolo
che la vita di ogni abitante diviene la vita di tutti. Nessun segreto vi
può attecchire. Non esistono vite private, né corrispondenza che non
possa divenire oggetto di conoscenza da parte di tutti. È in questo
delizioso villaggio che nasce Tieta. Tieta ragazzina che, capretta
affamata, percorre le tortuose strade di campagna, per saziare la sua
fame prematura di uomini.
Che sia forse posseduta dal demonio?
O forse la bella ragazzina ama solo possedere e farsi possedere, senza che sia necessario chiamare in causa un ipotetico e, quantomeno dubbio, esorcista?
Sia come sia, Tieta disonora il buon nome della famiglia. E, causa la delazione della sua quasi divina sorella Perpetua, perpetuamente intenta a perpetuare l'arte della preghiera e a lucidare con le sue devote mani le perle del suo benedetto rosario, Tieta verrà cacciata via dalla famiglia e dal paese, con l'ausilio dei colpi di bastone del severo padre.
Ma si sa, certe macchie possono essere cancellate, soprattutto se il magico e infallibile smacchiatore di chiama Denaro. Denaro di Tieta, ovviamente. Perché quel denaro e gli onerosi regali che Tieta invierà ai suoi parenti nel corso degli anni, favoriscono un rapido passaggio dall'indegno status di puttana a quello di santa. La generosità di Tieta consentirà alle sue sorelle, delatrice compresa, e a suo padre di condurre una vita agiata. Tieta, figliola ripudiata, condividerà amorevolemente i proventi della sua attività di Sao Paolo con i suoi cari, in nome del legame di sangue. Ovviamente, tutti credono che la fortuna di Tieta, ormai divenuta rispettabile e finanche signora, derivi dal suo matrimonio con il commendatore del Papa - e scusate se è poco.
Chi mai potrebbe immaginare che la vecchia pastora di capre, Tieta d'Agreste - alias Madame Antoinette- gestisca, invece, un bordello? Di lusso, ma pur sempre bordello. Chi mai potrebbe immaginare che l'Agrestana redenta continui a fare, anche nella lontana città, ciò che sempre ha amato fare, ossia godere dei piaceri della vita, in posizione orizzontale (anche se non sempre, per la verità), con qualche focoso montone? Eh! le caprette perdono il pelo, ma non il vizio...
Eccola, dopo anni e anni, Tieta, non più pastorella, ma donna ormai vedova, torna ai profumi, alle voci e agli affetti del suo natio paesello con la sua "figliastra" Leonora, bella come il sole e ospite, anch'essa della lussuosa casa nella quale si pratica il mercimonio dei corpi, fatto quest'ultimo neanche degno di nota, visto che non sottoposto a divulgazione.
Nessuno potrebbe immaginarlo d'altronde ed è questo ciò che conta.
Suvvia, di fronte alla ricca vedova che importanza potrebbe avere un' indagine più approfondita sulla loro vita? Non è forse sufficiente sapere che la procace Tieta si di titolare di un negozio - non si sa bene di che - e che sia stata moglie del commendatore? Non basta questo per far concludere anzitempo le indagini a improvvisati p.m. agrestiani? Basta, eccome!
L'accoglienza sarà calorosa quasi quanto il sole che riscalda le strade non troppo perfette del paesino. Il poeta le dedicherà versi. Le sarà intitolata una strada. La beghina Perpetua, sempre accessoriata del divin rosario vede in Tieta il futuro dei suoi figli (Peto e Ricardo), lo stumento per una loro crescita, soprattutto economica. Subdolamente si muoverà nel realizzare il suo sogno approvato, ovviamente, dal suo dio: far adottare, almeno uno dei suoi figli, dalla cara e ricca zia. E Tieta, con cuore immenso, non attenderà l'emanazione di un provvedimento di adozione per dedicare, ai nipoti anima e corpo ai nipoti, soprattutto corpo nel caso di Ricardo. Piccolo e tenero Cardo, primogenito di Perpetua destinato dalla stessa alle sante vie del sacerdozio, immergerà cosi la sua vocazione nel corpo, pieno e sensuale, della zia che tornerà cosi a sentirsi la vecchi capretta dei vecchi tempi andati. Anche perchè per la Tieta procace e vogliosa i piaceri della carne sono infiniti come la bonta di dio e non hanno limiti né di sangue nè di età. Le sue pulsioni sessuali son torrenti in piena a fronte del quale non tengono gli argini della decenza o del buon nome della famiglia.
Insomma, Tieta al di là di questi peccatucci che rimangono confinati nel segreto divien la voce della saggezza. Anche quando si prospetta la possibilità di installare ad Agreste una fabbrica di Titanio avendo i furboni dirigenti - tra cui un italiano, guarda caso - avendo menato per il naso, il futuro sindaco del paese Sor Ascanio. Il quale, ingenuo come pochi, vede nella realizzazione di quel progetto la possibilità di eleversi e divenire qualcuno e, finalmente, sposare la bella candida e pura (secondo lui) figliastra di Tieta.
Alla fine gli eventi precipiteranno e quel castello sorretto dai fittizi pilastri del denaro e dell'ipocrisia inizierà a sgretolarsi lentamente.C'è tanto in quest'opera che l'autore ironicamente definisce romanzetto. E, ad esser sinceri, a volte c'è pure troppo tanto che la fine pare, in alcuni passi, allontanarsi anziché avvicinarsi.
C'è l'aroma del caffè, il profumo dei piatti che stimolano continuamente il palato, i succhi dei frutti tropicali maturi, i profumi delle spiagge e c'è la rappresentazione perfetta dei vizi e delle virtù dell'uomo. (Mi vien da domandarmi: ma quanto è brutto l'uomo?)
La descrizione realistista dell'essere umano e la sua insana tendenza a creare miti e a forgiare santi - quando fa comodo- salvo poi - sempre per comodità- abbattere con violenza il piedistallo nel quale il santo era stato religiosamente posato. E c'è il silenzio, la necessità di tacere per tornaconto personale, salvo poi sventolare bandiere di moralità nel momento in cui certe cose - divenute di dominio pubblico - non possono più essere occultate.
Che sia forse posseduta dal demonio?
O forse la bella ragazzina ama solo possedere e farsi possedere, senza che sia necessario chiamare in causa un ipotetico e, quantomeno dubbio, esorcista?
Sia come sia, Tieta disonora il buon nome della famiglia. E, causa la delazione della sua quasi divina sorella Perpetua, perpetuamente intenta a perpetuare l'arte della preghiera e a lucidare con le sue devote mani le perle del suo benedetto rosario, Tieta verrà cacciata via dalla famiglia e dal paese, con l'ausilio dei colpi di bastone del severo padre.
Ma si sa, certe macchie possono essere cancellate, soprattutto se il magico e infallibile smacchiatore di chiama Denaro. Denaro di Tieta, ovviamente. Perché quel denaro e gli onerosi regali che Tieta invierà ai suoi parenti nel corso degli anni, favoriscono un rapido passaggio dall'indegno status di puttana a quello di santa. La generosità di Tieta consentirà alle sue sorelle, delatrice compresa, e a suo padre di condurre una vita agiata. Tieta, figliola ripudiata, condividerà amorevolemente i proventi della sua attività di Sao Paolo con i suoi cari, in nome del legame di sangue. Ovviamente, tutti credono che la fortuna di Tieta, ormai divenuta rispettabile e finanche signora, derivi dal suo matrimonio con il commendatore del Papa - e scusate se è poco.
Chi mai potrebbe immaginare che la vecchia pastora di capre, Tieta d'Agreste - alias Madame Antoinette- gestisca, invece, un bordello? Di lusso, ma pur sempre bordello. Chi mai potrebbe immaginare che l'Agrestana redenta continui a fare, anche nella lontana città, ciò che sempre ha amato fare, ossia godere dei piaceri della vita, in posizione orizzontale (anche se non sempre, per la verità), con qualche focoso montone? Eh! le caprette perdono il pelo, ma non il vizio...
Eccola, dopo anni e anni, Tieta, non più pastorella, ma donna ormai vedova, torna ai profumi, alle voci e agli affetti del suo natio paesello con la sua "figliastra" Leonora, bella come il sole e ospite, anch'essa della lussuosa casa nella quale si pratica il mercimonio dei corpi, fatto quest'ultimo neanche degno di nota, visto che non sottoposto a divulgazione.
Nessuno potrebbe immaginarlo d'altronde ed è questo ciò che conta.
Suvvia, di fronte alla ricca vedova che importanza potrebbe avere un' indagine più approfondita sulla loro vita? Non è forse sufficiente sapere che la procace Tieta si di titolare di un negozio - non si sa bene di che - e che sia stata moglie del commendatore? Non basta questo per far concludere anzitempo le indagini a improvvisati p.m. agrestiani? Basta, eccome!
L'accoglienza sarà calorosa quasi quanto il sole che riscalda le strade non troppo perfette del paesino. Il poeta le dedicherà versi. Le sarà intitolata una strada. La beghina Perpetua, sempre accessoriata del divin rosario vede in Tieta il futuro dei suoi figli (Peto e Ricardo), lo stumento per una loro crescita, soprattutto economica. Subdolamente si muoverà nel realizzare il suo sogno approvato, ovviamente, dal suo dio: far adottare, almeno uno dei suoi figli, dalla cara e ricca zia. E Tieta, con cuore immenso, non attenderà l'emanazione di un provvedimento di adozione per dedicare, ai nipoti anima e corpo ai nipoti, soprattutto corpo nel caso di Ricardo. Piccolo e tenero Cardo, primogenito di Perpetua destinato dalla stessa alle sante vie del sacerdozio, immergerà cosi la sua vocazione nel corpo, pieno e sensuale, della zia che tornerà cosi a sentirsi la vecchi capretta dei vecchi tempi andati. Anche perchè per la Tieta procace e vogliosa i piaceri della carne sono infiniti come la bonta di dio e non hanno limiti né di sangue nè di età. Le sue pulsioni sessuali son torrenti in piena a fronte del quale non tengono gli argini della decenza o del buon nome della famiglia.
Insomma, Tieta al di là di questi peccatucci che rimangono confinati nel segreto divien la voce della saggezza. Anche quando si prospetta la possibilità di installare ad Agreste una fabbrica di Titanio avendo i furboni dirigenti - tra cui un italiano, guarda caso - avendo menato per il naso, il futuro sindaco del paese Sor Ascanio. Il quale, ingenuo come pochi, vede nella realizzazione di quel progetto la possibilità di eleversi e divenire qualcuno e, finalmente, sposare la bella candida e pura (secondo lui) figliastra di Tieta.
Alla fine gli eventi precipiteranno e quel castello sorretto dai fittizi pilastri del denaro e dell'ipocrisia inizierà a sgretolarsi lentamente.C'è tanto in quest'opera che l'autore ironicamente definisce romanzetto. E, ad esser sinceri, a volte c'è pure troppo tanto che la fine pare, in alcuni passi, allontanarsi anziché avvicinarsi.
C'è l'aroma del caffè, il profumo dei piatti che stimolano continuamente il palato, i succhi dei frutti tropicali maturi, i profumi delle spiagge e c'è la rappresentazione perfetta dei vizi e delle virtù dell'uomo. (Mi vien da domandarmi: ma quanto è brutto l'uomo?)
La descrizione realistista dell'essere umano e la sua insana tendenza a creare miti e a forgiare santi - quando fa comodo- salvo poi - sempre per comodità- abbattere con violenza il piedistallo nel quale il santo era stato religiosamente posato. E c'è il silenzio, la necessità di tacere per tornaconto personale, salvo poi sventolare bandiere di moralità nel momento in cui certe cose - divenute di dominio pubblico - non possono più essere occultate.
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mercoledì 26 novembre 2014
IL CIELO È DEI VIOLENTI - Flannery O' Connor. Pazza idea...
Editore: Einaudi
Anno: 2008
Pagine: 206
Traduzione: Ida Ombroni
“Lo zio di Francis Marion Tarwater era morto solo da mezza giornata quando il ragazzo si ubriacò troppo per finire la fossa, e un negro di nome Buford Munson, che era venuto a riempire una brocca, dovette terminare di scavarla e trascinarci il corpo, che era ancora seduto alla tavola della prima colazione, per dargli una sepoltura da cristiani, con le insegne del Salvatore sopra la testa e abbastanza terra perché i cani non lo scavassero fuori"
![]() |
Salvador Dalì, L'invenzione dei mostri |
Bastano poche pagine, pochissime a dire il vero, per comprendere come ci si trovi di fronte a una grande scrittrice. La scrittura della O’ Connor, credo fortemente, che non possa essere scissa da quella che è stata la sua vita, caratterizzata da un radicatissimo sentimento religioso e dalla malattia, il lupus eritematoso sistemico del quale era affetto anche il padre, che la portò ad una morte precoce e che lei visse sempre stoicamente, senza rifugiarsi in patetici atteggiamenti vittimistici, affermando quasi con candore “Non sono stata altrove che malata. In un certo senso la malattia è il luogo più istruttivo di un lungo viaggio in Europa”. Quindi, malattia come parte essenziale di se stessa, della propria natura, non una “nemica” e, spesso anzi, strumento indispensabile per interpretare e capire il mondo. Il cielo dei violenti (titolo originale The violent bear it away) il cui titolo prende il nome da una citazione evangelica è un crudo e intenso romanzo nel quale O’Connor fa calare in un’atmosfera atroce, venata di follia, il contrasto pressoché insanabile tra fede e pensiero razionale. Contrasto insanabile perché ci troviamo di fronte a due fanatismi uguali e diversi allo stesso tempo, rappresentati alla perfezione dal vecchio Tarwater, autoproclamatosi profeta, e dal maestro Ryber che del razionalismo puro ha fatto la sua ragione di vita. Parole dure, ruvide quelle della O’Connor, personaggi estremi e aberranti destinati a una costante e dolorosa non-salvezza o, al limite, a trovare la libertà in atti di violenza inaudita. Ambientato nell’America rurale degli anni ’60 il romanzo sfugge, comunque, a qualsivoglia e restrittiva collocazione temporale facendone un’opera senza tempo.
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