mercoledì 11 settembre 2019

VIVERE CON I LIBRI - Alberto Manguel

Amore

Titolo: Vivere con i libri
Autore: Alberto Manguel
Editore: Einaudi
Anno: 2018
Genere: Saggio letteratura
Traduzione: Duccio Sacchi
Pagine: 128

La sua ultima biblioteca, composta da trentacinquemila volumi, si trovava in Francia, a sud della Loira, in un granaio adibito appunto a biblioteca all’interno di una antica canonica in pietra. Erroneamente aveva pensato come, una volta sistemati i libri, anche lui avrebbe trovato il proprio posto: i fatti, invece, lo smentirono quando dovette abbandonare la Francia per trasferirsi in America e, di conseguenza, imballare di nuovo quei libri e fare una selezione. La biblioteca francese ospitò i suoi libri per quindici anni e fu organizzata in base a mere “esigenze e pregiudizi personali”. In quegli scaffali non mancavano anche i libri brutti che, appunto, conservava qualora gli fosse servito un esempio di libro brutto! Nella sua vita ha sempre avuto una biblioteca personale. La prima, a due, tre anni, era una mensola affissa sopra il suo letto, a Tel Aviv, poi a Buenos Aires, in età adolescenziale, e a Londra, a Milano, a Tahiti. Ma cos’è, in fondo, una biblioteca? Indubbiamente, un luogo di memoria e ogni volta che, dalle casse, si estraggono i libri si crea un rituale di rimemorazione, in quel momento si evocano, per dirla con Benjamin “non pensieri, ma immagini, ricordi”. Al contrario, mettere i libri negli scatoloni è un esercizio di oblio. Le biblioteche contengono pezzi noi, sono autobiografiche e, imballarle, in qualche modo, significa redigere il necrologio di noi stessi…

Alberto Manguel, scrittore e bibliotecario argentino nonché lettore e amico di Borges, racconta, in queste gradevoli pagine, di quel momento della sua vita in cui si è trovato, causa l’ennesimo trasloco, a dover lasciare la Francia e, quindi, a dover imballare i numerosi volumi della sua biblioteca che credeva, una volta tanto, definitiva. Troviamo il suo universo tutto incentrato su un incommensurabile amore per i libri strumenti fondamentali strumenti di conoscenza del mondo. Manguel parla di se, della sua infanzia, della sua devozione alle biblioteche che, nel corso degli anni, ha costruito, della sua ritrosia a prestare i libri, delle modalità di catalogazione dei libri improntate a criteri del tutto personali, confessa la sua predilezione per la sezione dedicata ai dizionari che, come per tutti quelli della sua generazione, sono stati, in fase giovanile, oggetti magici sia perché, in essi, era contenuta la totalità del linguaggio comune sia perché essi contenevano una risposta a ogni domanda. Un’ode alla biblioteca che si traduce, di fatto, in una appassionata dichiarazione d’amore eterno alla parola scritta, a quei volumi contenenti sempre “promesse di conforto” ma anche possibilità di conversazioni illuminanti intervallata da piacevoli digressioni ruotanti sempre intorno al mondo delle lettere, della scrittura e degli scrittori.


lunedì 9 settembre 2019

IL PARTIGIANO EDMOND - Aharon Appelfeld

Corri, Edmond

Titolo: Il partigiano Edmond
Autore: Aharon Appelfeld
Editore: Guanda
Anno: 2017
Genere: Romanzo
Pagine: 332
Traduzione: Elena Loewenthal


Ucraina. Edmond è un ragazzo di diciassette anni, è scampato alla deportazione: non ha mai preso quel treno che lo attendeva per il viaggio verso la morte. In stazione con lui, suo padre e sua madre. Sente ancora le loro voci che lo incitavano, con decisione, a scappare via. Lui li ascoltò: li lasciò lì, per salvarsi, senza mai prendere quel treno. Ed è finito sulle colline, con il gruppo dei partigiani comandati da Kamil, uomo allenato alla guerra di pochi contro molti. Colline desolate, prive di boschi e, loro, i partigiani hanno imparato a nascondersi, a strisciare per terra. Ma quelle colline ben presto verranno abbandonate, Il comandante ha deciso di cambiare zona, andranno in un posto pieno d’acqua e paludi. E avanzano, lentamente, ma con costanza e solo di notte perché il giorno “non sta dalla loro parte e, alla fine, hanno imparato ad apprezzare le tenebre”. I giorni passano, Edmond pensa al fatto che, solo un anno prima, era seduto sui banchi di scuola. Bravo negli studi, follemente innamorato di Anastasia e, ora, invece la sua giornata inizia puntualmente alle sei del mattino, scandita dalle solite attività: corsa, ginnastica, colazione e, naturalmente, esercitazioni…

Aharon Appelfeld, come è noto, è scrittore ebraico che conobbe, da giovane, l’orrore dei campi di concentramento: deportato riuscì a salvarsi, fuggendo. E in queste pagine, cariche di sofferenza e di umanità, ci racconta, le giornate di un gruppo di partigiani. Non sono grandi eroi gli uomini, i giovani, i comandanti, raccontati dallo scrittore ebraico, ma uomini che, incessantemente, lottano non solo con il grande e ingiusto nemico tedesco, ma anche con se stessi: con le loro paure, con i crolli emotivi che, spesso, prendono il sopravvento, con i rimorsi (loro si sono, alla fine salvati, ma gli altri sono saliti su quei maledetti treni per un viaggio senza ritorno). Uomini spaventati, ma al tempo stesso animanti da elevati ideali, dal desiderio di proteggere i più deboli “a volte è come se lo scopo della nostra vita fosse vegliare su coloro che non sono in grado di badare a se stessi”: è questo il loro principale dovere, una cosa naturale che non merita riconoscimenti o medaglie, “faccio quello che devo fare. Il dovere non è da considerarsi un atto nobile”, dirà uno dei partigiani. Con una scrittura lineare Apperfeld ci regala una sorta di diario di una guerra nella guerra ricca di sofferenza, per l’inverno duro e rigido, per le piccole sconfitte, per la fame, per la depressione che incupisce gli animi, animi provati, ma anche ricchi di umanità, di solidarietà e di senso di fratellanza che riescono a germogliare anche in quei terreni resi aridi dalla ferocia e dalla follia dell’uomo.

sabato 7 settembre 2019

MARESCIALLE E LIBERTINI - Alberto Arbasino

Mondi 

Titolo: Marescialle e libertini
Autore: Alberto Arbasino
Editore: Adelphi
Anno: 2004
Genere: Saggio musica
Pagine: 479

Settembre 1951. Non era stato possibile partecipare alla prima veneziana del Rake’s Progress di Stravinskij e ciò sia perché i soldi, dopo le vacanze a Positano, erano davvero pochi e sia perché era necessario studiare per gli esami universitari. E, comunque, a dire il vero, le recensioni erano tutte molto titubanti… A Venezia nel 1955 si tenne la prima “storica e fantasmagorica” de L’Angelo di fuoco di Prokofiev, fu un grande successo, il pubblico ne fu incantanto senza dubbio… Prima che il Muro divenisse una realtà, e una metafora anche, la Berlino del dopoguerra era, al tempo stesso, divertente e tragica. Nonostante i bombardamenti e la distruzione quella città tornava a risplendere, a dispetto di tutto, come capitale che riusciva a ospitare spettacoli sensazionali. Tra quei teatri rabberciati, tra quelle rovine splendevano, come fiori nel deserto, i miti del novecento: la contessa mozartiana e Fiordiligi, ma anche la prima rappresentazione scenica, al Thaeter Des Wensten del Moses und Aron di Schonberg…

Alberto Arbasino intellettuale, saggista, scrittore (autodefinitosi “estemporaneo”), giornalista nonché critico musicale e teatrale in queste densissime pagine ripercorre i suoi ricordi musicali degli anni cinquanta, in particolare, soffermandosi, ma non solo, sulle prime storiche, quella di Prokofiev, per esempio. Marescialle e libertini è un’opera complessa, di non facile lettura in quanto articolata su più livelli dalla quale emerge l’immensa e enciclopedica conoscenza dell’autore. Se il tema di fondo è la musica, è ben vero come il medesimo si dirami, poi, in altri direzioni, verso altre mete, altri mondi. Infatti vi troviamo quel forte intreccio tra musica e letteratura, ma anche il quadro della società dell’epoca, il dipinto degli spettatori che, talora affascinati, assistevano alle rappresentazioni, finanche la descrizione minuziosa del loro abbigliamento. Pagine che, indubbiamente, arricchiscono, e, soprattutto, stimolano a ricerche ulteriori perché caratterizzate, come è nello stile proprio di Arbasino, da infiniti e continui rimandi ad altre materie, ad altri argomenti. Insomma, si entra, con la lettura, in un gradevole e affascinante mondo che è quello della musica con la sensazione di trovarsi all’interno di un mondo labirintico nel quale non esistono vicoli ciechi, ma solo nuove strade di conoscenza da percorrere. Il tutto ad infinitum.


giovedì 5 settembre 2019

IL PRIMO UOMO CATTIVO - Miranda July

L'essenza del rosso

Titolo: Il primo uomo cattico
Autrice: July Miranda
Editore: Feltrinelli
Anno: 2016
Genere: Romanzo
Traduzione: Silvia Rota Speri
Pagine: 261

Cheryl Glickman ha quarantatré anni e, da circa trent’anni, il Globus hystericus la tormenta. Un bel giorno decide, su consiglio del suo collega di lavoro Phillip, di consultare il Dottor Jens Broyard, cromoterapeuta. Entra in sala d’aspetto e, in cuor suo, spera di trovarci anche il “suo” – quasi o forse, suo – Phillip ma nulla, lui non c’è. La delusione è grande, per un attimo Cheryl pensa pure di tornarsene a casa, ma rimane: anche senza il “suo” – o quasi o forse, suo – Phillip. Il medico le consegna un flaconcino di vetro con su scritto “rosso”, l’essenza del rosso: la cura per il suo Globus. Appena esce dall’ambulatorio chiama subito Phillip e realizza come sia la prima volta che lo chiama e, nonostante l’imbarazzo, gli mostra un po’ di ardore dicendogli, dopo averlo ringraziato per averle consigliato il medico, “Se ami il rischio fammi un fischio”. Forse Phillip non ha bene colto il segno di quell’ardore che lei voleva rappresentare e, ad ogni buon conto, lui riaggancia. Questa storia di dimostrare l’ardore le era stata consigliata dal suo capo dell’Open Palm, l’associazione no-profit che si occupa di distribuzione di dvd di fitness, nella quale Cheryl lavora “come se fosse nel consiglio di amministrazione”. Quel capo che qualche tempo dopo chiede a Cheryl di ospitare in casa Clee,la sua adorata figliola. Cheryl ancora non sa che l’ingresso di quella figliola altrui nella sua vita cambierà le sue abitudini…

Miranda July, musicista, artista, regista e anche scrittrice statunitense, ha creato con Il primo uomo cattivo un personaggio strampalato, un po’ naif, che si barcamena tra manie e ossessioni – ad esempio, il rigoroso e personalizzato ordine che regna nella sua casa – e tra sogni (erotici e/o sentimentali) e realtà. Intorno a lei una serie di personaggi anch’essi particolari, eufemisticamente parlando: tra tutti Phillip, per il quale la nostra Cheryl nutre un grande sentimento amoroso, ma lui non riesce a cogliere, impegnato com’è a conquistare una adolescente. Poi c’è Clee con la quale Cheryl inizierà una convivenza forzata che porterà alla nascita di un rapporto assai originale, inusuale anch’esso: in un primo momento sarà la violenza – tecnicamente, botte da orbi – a caratterizzare il loro rapporto che, pian piano, si trasformerà. Non mancheranno neanche i figli dei fiori e neanche le riflessioni intorno alla maternità. Insomma, la July non ci fa mancare nulla in questo romanzo divertente e tenero al tempo stesso, ma che – vuoi per la pluralità di argomenti trattati, vuoi per una costruzione caotica forse non supportata da uno stile eccelso – manca di organicità e si sente il peso, in qualche modo, della sovrabbondanza di elementi che, pagina dopo pagina, diventa quasi soffocante. Una curiosità: l’autrice, in un sito, ha posto in vendita cinquanta degli oggetti presenti nel romanzo. Non manca, naturalmente, l’essenza del rosso al prezzo di 159,48 dollari!

Articolo già pubblicato su Mangialibri

giovedì 29 agosto 2019

IL NOSTRO PRIMO, SOLENNE, STRANISSIMO NATALE SENZA DI LEI - Franco Stelzer

 Cucinar ratti

Titolo: Il nostro primo, solenne stranissimo natale senza di lei
Autore: Franco Stelzer
Editore: Einaudi
Anno: 2003
Genere: romanzo
Pagine: 126 


Era il primo Natale che trascorrevano senza di lei. Entrarono con quel grosso tacchino, con un rametto di rosmarino infilzato nel buco del culo, con le cosce ornate da ciuffetti di carta, bellamente adagiato su un vassoio colmo di patate. Così lo presentarono alla tavolata dei parenti. Ma quel tacchino, dal prominente ventre, non era ben cotto, anzi era proprio crudo… Avevano la loro postazione: un buco aperto, faticosamente, in un pannello. E, con desiderio, attraverso quell’ingegnoso foro, osservavano le imprese erotiche della loro zia. C’era l’emozione, ma anche la paura di essere scoperti che, sicuramente, avrebbe comportato, l’immediato loro trasferimento in un collegio o in un istituto penale! Ma quel giorno in quell’alcova succedeva qualcosa di nuovo: la zia urlo, al suo uomo, “basta!”. E lui, lo spione, ebbe, per la prima volta, un pensiero filosofico: tutto finisce… Problema: come si cucina un ratto? Lo si lascia prima in salamoia? O lo si griglia fresco, fresco? Bisogna impanarlo? Suo zio riteneva che i ratti fossero buoni in tutti i modi…Dopo lunghe trattative con i proprietari presero in affitto la casa al mare. Rispolverarono le stoviglie, fu fatta la spese e si passò alla distribuzione delle stanze. A lui toccò lo zio e, dal suo leggero odore di colonia, il ragazzo comprese come, in quella settimana, sarebbe accaduto qualcosa di interessante…
Franco Stelzer affida alla voce e agli occhi dei bambini il compito di narrarci nove storie per dipingerci il loro mondo. Un mondo variegato e ricco nel quale trovano spazio emozioni, sentimenti diversi, ilarità, stupore, curiosità. Ci sono bambini che acquistano e cucinano un tacchino “per salvare la loro solitudine”, per riempire il vuoto di quel primo Natale senza un affetto. Bambini che si pongono grandi e piccole domande: come il capo fa la pipì. Bambini che danno voce a ricordi comuni a tutti: un panino in spiaggia, la sabbia sulle mutande. Quei ricordi, insomma, che hanno carattere universale esattamente come quel momento, quasi inevitabile, nel quale amaramente si comprende come certe cose non potranno più ritornare, alcune persone ci lasceranno, certi sapori – anno dopo anno – saranno sempre diversi. Perché tutto finirà travolto da una cappa di nebbia, tutto si offuscherà nell’esatto momento in cui si comprenderà come ogni cosa è destinata a finire. E rimarrà, sempre e comunque, quel filo di nostalgia a ricordarci che quel passato, fatto di nonni, di zie eroticamente attive o di zii che si mangiavano topi, è davvero esistito e, in parallelo, cresca il numero dei Natali con sempre più “senza”.


martedì 27 agosto 2019

LO STRADONE - Francesco Pecoraro

Ristagni

Titolo: Lo stradone
Autore: Francesco Pecoraro
Editore: Ponte Alle Grazie
Anno: 2019
Genere: Romanzo
Pagine: 443

Città di Dio. L’uomo ha oramai settant’anni e abita, da circa vent’anni, al settimo piano di una palazzina, lì nello Stradone dove “la città fa una pausa”. In quel frammetto di città dove insiste lo Stradone ci sono entità umane diacroniche, tutte estranee tra di loro: vecchi come lui che si incontrano al bar, il Porcacci, a bere un caffè che è sempre cattivo, dove ci si scambiano poche parole o, al contrario, dove si possono dire stronzate per ore perché li, al Porcacci nessuno te se ‘ncula, ed è proprio questo il bello, alla fine. Ma c’è anche il tifo per ‘a squadra  che pare quasi unirli questi estranei perché essa assurge a “ultimo ente simbolico” che dà un senso di appartenenza con quel suo avere “tacitamente la precedenza su tutto e tutti”. La facciata del suo palazzo è esposta a nord, non prende mai il sole. E da lì il suo occhio vigile e sensibile vede tutto, soprattutto vede ciò di cosa sono capaci gli incapaci, vede come l’inerzia dell’amministrazione, la stupidità di tecnici-architetti-urbanisti incida negativamente su una porzione di citta, o meglio di non-città. O forse non è esattamente così: forse è vero che la città che si costruisce è un prodotto collettivo: “la città demmerda è un’incerta auto-celebrante messa in figura della gente demmerda che ci abita e la costruisce”. Ma tant’è. L’uomo, l’anziano, il fallito, sta bene e sta male nello Stradone, incasellato nella categoria degli Inutili o, meglio, dei Dannosi. Il Sistema gli ha concesso una pausa pre-morte (morte, non trapasso, non scomparsa) con una pensione calcolata ai tempi della socialdemocrazia…
Francesco Pecoraro, poeta, scrittore e architetto, è tornato, quest’anno, in libreria dopo un intervallo di sei anni dall’uscita del suo precedente romanzo, La vita in tempo di pace, che gli valse numerosi encomi dalla critica. Lo Stradone, in primis, è un’opera, con le sue 400 pagine e oltre, che affascina anche per il suo essere ibrida, non essendo facile inserirla univocamente in una precisa categoria: è un romanzo, ma anche un saggio, anche un memoriale. Manca lo schema tipico del romanzo, del “raccontare una storia” con tutti i tipici elementi che una storia dovrebbe avere. La vera protagonista è, alla fine, una voce, senza nome: voce che proviene da un anziano, con i capelli diradati, guance infossate, pelle ingiallita, un anziano come altri, come tutti gli anziani del mondo. Voce che incessantemente parla, di sé, dei suoi fallimenti, dei suoi sogni di accademico infranti, del suo inserimento in un Ministero, del suo inserirsi, poi, nel partito socialista, della corruzione, dell’arresto. Ma è anche una voce che parla di quella porzione di città nella quale si fabbricavano i mattoni per la creazione della città di Dio. E che parla dell’oggi, dei “jeans falso consumati. Falso strappati.” E delle “birre falso-artigianali”. E noi, incantati, seguiamo quelle parole che ci portano al degrado, al Ristagno, a quel senso di non-appartenenza costante. E vediamo quei vecchi, nello Stradone, con i loro terribili giubbotti multi-tasche, che consumano la loro pensione raschiando gratta&vinci, vediamo la loro solitudine e sentiamo anche le voci dei fornaciari, con il loro peso di mattoni da 36 kg, e er Partito e la sindacalizzazione e Lenin in Italia e l’edilizia con la sua necessaria speculazione e le case dell’IACP. Tutto vediamo e sentiamo. Un’opera nuova, originale quella creata da Pecoraro anche per l’uso sapiente di registri narrativi differenti, per il passaggio, sempre senza sbavature, da linguaggi prettamente letterari, elevati, poetici, aulici talora, all’uso di linguaggi tecnici o all’uso del romanesco o, anche, alla trasformazione di lemmi onde ricavarne neologismi.

Articolo già pubblicato su Mangialibri


venerdì 23 agosto 2019

SEMPRE CARO - Marcello Fois

Titolo: Sempre caro
Autore: Marcello Fois
Editore: Einaudi
Anno: 2015
Genere: Romanzo
Pagine: 100

Si diceva che Bustianu, dopo pranzo, stesse andando a fare una passeggiata: il “sempre caro”. Così la chiamava, proprio come la poesia di Leopardi. E con “sempre caro” egli non intendeva il colle, intendeva proprio prendersi un po’ di fresco in altura e godersi il panorama. Si diceva che Bustianu fosse pensieroso e ciò poteva solo significare che avesse tra le mani una causa complessa e che, pare, non volgesse al meglio. Stava difendendo un giovane, Zenobi, bello come il sole che si era messo nei guai: accusato di aver derubato degli agnelli per poi rivenderseli. E nulla, quella causa non andava proprio bene, dato che il giovine si era dato alla latitanza. E, no, ripeteva zia Rosina, madre di Zenobi, che non poteva aver fatto una cosa simile suo figlio: lei lo conosceva bene. E poi, c’era anche la storia di Sisinnia, bella come una madonnina, e pare che tra lei e il giovane latitante ci fosse del tenero. E pare ancora che il padre di lei, della madonnina, fosse pure contento di quella simpatia tra i due. E allora, perché Zenobi avrebbe dovuto rubare gli agnelli proprio a Casula Pès, padre di Sisinnia? Perché?...

Sempre caro fa parte del progetto letterario di Marcello Fois mirante a creare una saga con personaggio fisso e di cui costituisce il primo volume, seguito da Sangue dal cielo e L’altro mondo, tutti editi da Einaudi. Il protagonista Bustianu trova la sua origine in un personaggio realmente esistito: il grande avvocato, poeta e intellettuale nuorese Sebastiano Satta. La storia raccontata rispecchia lo schema tipico del giallo: delitto-indagine- individuazione del colpevole, ma si arricchisce di nuovi elementi tanto da potersi indubbiamente definire un giallo atipico che fuoriesce da quelli che sono i rigidi confini di tale genere. Un romanzo di più ampio respiro quindi, innovativo sia per l’impianto narrativo sia, e soprattutto, per lo stile e per l’uso attento e originale della lingua utilizzata dall’autore. In primis, risulta strutturata su più voci che si alternano senza sovrapporsi: un primo narratore che ci presenta Bustianu; Bustianu stesso che ci racconta la storia dal suo punto di vista e, infine, un terzo narratore. Voci con tre registri narrativi diversi e che, talora, attingendo all’oralità, tessono un romanzo intricato, poetico, con bellissime descrizioni che restituiscono immagini di paesaggi agresti, ma anche riflessioni sulla società sarda dell’ottocento, sul ruolo-missione dell’avvocato, sul concetto di giustizia. Su tutto domina la lingua utilizzata da Fois: si passa da interi periodi in sardo a singoli lemmi e anche, traduzioni letterali in italiano, di modi di dire o espressioni tipicamente sarde. Un romanzo sui generis come lo definisce Camilleri nella prefazione che, nel concentrarsi sul concetto di lingua dell’autore, richiama, a proposito, le parole di Sergio Atzeni: “quando cerco una parola che abbia un suono diverso, che porti a una specificazione più precisa, uso il sardo. Credo che questo sia il contributo che ogni etnia regionale dovrebbe portare”.