martedì 15 luglio 2014

IL VINCITORE È SOLO - Paulo Coelho

Il vincitore è (un) bolo. Indigesto

Titolo: Il vincitore è solo
Autore: Paulo Coelho
Editore: Bompiani
Anno: 2009
Pagine: 448
Traduttore: Rita Desti








Ho iniziato con il piede sbagliato, lo riconosco e, ora, con il piede giusto mi ritrovo a sputare veleno verso questo romanzo a causa di una serie ordinata di reazioni a catena. Tutto è cominciato quando una mia amica mi ha prestato questo libro. Potevo ancora salvarmi, ma ho fatto l'errore di aprirlo. L'errore successivo è stato quello di continuare la lettura in base ad un mio astruso principio privo di qualsivoglia fondamento logico-razionale: terminare la lettura di ciò che inizio. Sempre. 
Si, lo so! Potrei sgarrare e astenermi dal rispettare questa insana regola confidando nella mancanza di torture o punizioni corporali. Ma non sgarro e, imperterrita, continuo. C’è qualcosa di patologico in questa sorta di autoflagellazione che mi impongo con costanza forse per qualcosa che non ho portato a termine in una vita precedente o, forse,nel mio passato… Mah, chissà… Per farla breve: ho terminato questo libro per riporlo nella scrivania in attesa di restituirlo alla mia amica vincendo la tentazione, forte devo dire, di lanciarlo dal balcone.
Cercherò di essere buona e di individuare almeno un lato positivo in questa mia traumatica esperienza ricorrendo alla mie riserve, peraltro non abbondanti, di ottimismo. Si, credo che la cosa migliore sia il vivace colore della copertina.
Coelho ci narra le vicende di un potente imprenditore russo che, come ogni russo che si rispetti, si chiama Igor. Anche io ho un nome russo ma non sono russa, i miei genitori non son stati attenti a quei “fondamentali” dettagli che ad uno scrittore preciso e attento, invece, non sfuggono (!).
Igor è bello, ricco, potente, insomma uno di quegli uomini che, come da copione potrebbe
 avere tutto ma così non è. C’è una grossa falla nella sua vita, una mancanza che gli toglie il respiro e questa mancanza si chiama Ewa. La sua ex fidanzata che lo ha lasciato e si è innamorata (si fa per dire) di uno stilista arabo che sarebbe rimasto solo un semplice arabo con la passione per i rammendi dei burqa se non avesse conosciuto un famoso sceicco. Quest’ultimo, per una serie di coincidenze, gli permette di studiare e di farlo entrare nel fatato mondo dell’alta moda europea. Le vie della Provvidenza divina sono infinite e assumono varie forme. È anche vero, ed è cosa risaputa, che le conoscenze e le giuste raccomandazioni sono utili. E Igor di fronte al desiderio della sua ex compagna di ricostruirsi una vita nella quale non è contemplata la sua presenza, lancia al cielo il suo possente NIET che, nella sua folle ossessione, lo porterà a distruggere altri mondi. Mondi intesi come persone la cui morte costituirà per Igor il modo di lanciare alla sua Ewa dei messaggi. In fondo Ewa è distratta, se cosi possiamo dire, sciocca femmina che non capisce come il suo rapporto con il russo faccia parte di un progetto stilato dall’ingegnere che sta in alto, che tutto vede e tutto ordina e nessuno può permettersi di disattenderlo. È Dio che, come ripetutamente afferma Igor, ha voluto quella unione: volontà del capo supremo e non si discute.
Tale ossessione amorosa colorata di pedanti richiami al divino porterà al fiorire di cadaveri eccellenti e meno eccellenti. In particolare, le tecniche di eliminazione apprestate da Igor non determineranno lo spargimento di grosse quantità di sangue poiché egli è un perfetto igienista e fa largo uso, senza mai lordare né il futuro cadavere né il luogo del delitto, di pratiche omicide avanzate e inusuali. Insomma, un amante della pulizia in tutti i sensi. E questo amore per la pulizia e per la bellezza delle sue vittime (che più che morte paiono addormentate) è perfettamente in linea con l’ambientazione del romanzo: Cannes. Luogo di apparenza, di bellezze, di perfezione ad ogni costo. Di immagine.Ovviamente l’attenzione dello scrittore- dotato di sensibilità fuori dal comune (!)- non poteva non soffermarsi su quel mondo ovattato, superficiale, ricco di pseudo-sentimenti effimeri come le unghie ricostruite, di diete, di conteggio maniacaldelle calorie, di extension, di sogni di gloria. Ed è proprio nella descrizione di questo mondo che mi è parso di individuare quasi una critica forzata, un tentativo affannoso di scardinare, eticamente, quel mondo ma di farlo per ottenere un riconoscimento. Insomma, non vorrei insinuare (ma anche si) ma ho avuto la fastidiosa sensazione che Coelho fustigatore dei costumi abbia navigato (a bordo di insicura zattera, mi pare) un terreno fertile al precipuo scopo di far emergere i suoi “puri” e tanto decantati principi religiosi, il suo esacerbato spiritualismo per lanciare un messaggio : “sto dalla parte dei buoni non sono uno di Cannes, IO!”
Un romanzo pesante, ripetitivo. I racconti che hanno ad oggetto le esperienze di vita delle modelle paiono strapparti da una delle tante riviste patinate sempre uguali a sé stesse. Niente di originale. Prolisso allo sfinimento, pareva che ogni periodo fosse stato allungato a mo’ di elastico per consentire alle parole di espandersi confusamente tra le pagine bianche e protrarre l’attesa di quel finale a sorpresa che non ha, di fatto,sorpreso nessuno. Dimenticando che le troppe parole annoiano e che gli elastici, per quanto resistenti, si spezzano. 
Una caterva di cose trite e ritrite e ritrite ancora seppur infarcite, artatamente, dai consueti richiami al suo dio, all’amore universale, alla perenne dicotomia spirito-corpo. Ogni tanto, qualche pillola di saggezza incapace di attrarre in quanto frutto di un cattivo miscuglio degli ingrediente e dall’abbondanza di toni fastidiosamente patetici.Domanda d’obbligo: La bruttezza è sempre soggettiva?
Grazie (si fa per dire) amica Chiara

martedì 8 luglio 2014

IL CRONISTA ERA ATTESO - Gianfranco Cambosu

Palcoscenici

Titolo: Il cronista era atteso
Autore: Gianfranco Cambosu
Editore: Parallelo 45
Anno: 2013
Genere: Romanzo noir
Pagine: 176



Per raccontare una storia, una bella storia, si può partire da destra o da sinistra. Non importa. Tant'è che si può anche partire dal basso, o meglio dalle parti basse come appunto ha fatto Gianfranco Cambosu ne Il cronista era atteso. Già perché la sua storia inizia proprio con un sedere. Precisamente dal "mappamondo rosa" della contestatrice sarda Sabrina Pittau su un palco di Piazza Di Ferrari a genova, nei giorni caldi del G8. A tale esibizione seguirà immediatamente il suo arresto. Da quell'immagine, rosa e tonda, partiranno una lunga serie di vicende, eterogenee quanto oscure e misteriose, nelle quali cercherà di districarsi il giornalista free-lance Antonio Serra, anch'egli sardo.

Cambosu ha costruito un noir fortemente articolato nel quale non ha inteso lasciare al lettore un attimo di tregua: un ricamo perfetto e intricato costruito pazientemente frase dopo frase. L'autore è - come dire - generoso ma con parsimonia in quanto, solo poco per volta e senza strappi, ci concede piccoli tasselli dei quali non è subito sicura la collocazione per arrivare, infine, a farci avere un quadro impeccabile in cui ogni cosa risulterà, di fatto, al suo giusto posto e condurci a un finale indubbiamente inaspettato.
L'intera vicenda si dipana, tranne un breve passaggio in terra sarda, in un contesto affascinante che pare nato per accoglierla benevolmente e farla germogliare: i carruggi di Genova.
Quelle vie vecchie e misteriose che hanno la capacità, al medesimo tempo, di condurre sia all'inferno sia al paradiso. Quelle stesse vie cantate da De Andrè. Quelle vie che son poesie. Ed è in quelle viuzze delle quali sembra quasi di sentire il profumo che si muove Antonio Serra tra speculazioni edilizie, compagnie teatrali al limite del surreale, emarginati. Perché, alla fine, son proprio gli emarginati che, silenziosamente, lottano per avere un posto in un palcoscenico che non sia il teatro, ma la vita stessa. Dimenticati come sono dal mondo e privati della loro stessa voce, in senso fisico e in senso metaforico.
Non cercate eroi in queste pagine: non li trovereste. Ci son solo persone, uomini che, giorno dopo giorno, si affannano o uomini che si impegnano - con mezzi spesso riprovevoli - a ottenere un posto in prima fila in un mondo che di bello ha ben poco o, ancora, uomini che la sera, in solitudine, si trovano a fare i conti con il loro passato, con un semplice nome che rappresentava, forse, l'amore. Quello vero.

Cambosu, ancora una volta, conferma la sua abilità nel raccontare e lo fa come se ogni volta stesse costruendo una ragnatela, senza mai esser scontato, senza mai annoiare.  E, soprattutto, conferma come non sia importante il punto di partenza di una storia in quanto ciò che conta è dove essa, pagina dopo pagina, ci conduce e ciò che ci lascia dentro.

Altri libri:
Bastardo posto, Remo Bassini
Il ladro del silenzio, Rawi Hage

lunedì 7 luglio 2014

FONTAMARA - Ignazio Silone

E poi più nulla

Titolo: Fontamara
Autore: Ignazio Silone
Editore: Mondadori
Anno: 1988
Pagine: 182


Son tornata sulle bellissime pagine di Fontamara dopo circa vent’anni . Un emozionante salto nel passato, un risentire profumi e sensazioni vecchie. Capita, però, che il vecchio e il nuovo si mescolino tra di loro e dalla loro unione nasca un sentimento molto vicino all’amarezza. È stato come percepire, oggi come ieri e forse come domani, quanto le cose, alcune cose, non siano destinate a mutare radicalmente. Spesso, nulla cambia. O cambia male.
I soprusi, pur mutando d’abito, a seconda del contesto storico o politico o sociale, rimangono in nuce identici. In eterno.
L’uomo è un lupo non nel momento in cui volge gli occhi allo specchio, ma nel momento in cui volge lo sguardo sui suoi simili. Vecchia massima e verità incontestabile.
Così i valori, se tali possono essere definiti, rimangono anch’essi immutati : sete di potere, di denaro, avidità che mostrano, incontrovertibilmente, la piccolezza di quel misero essere che è l’uomo.
Uomo essere dotato di…
Munito di…
Fornito di…
Superiore a... (sic)
Ma, in fondo, sempre pronto a sopprimere chi è più debole.
Altra verità dolorosa: l’incapacità, quasi innata, dei miseri di elevarsi, di riscattarsi, in quanto marchiati a fuoco con il simbolo indelebile della povertà. Nessun riscatto. Nessuna vittoria. Tutto è perduto.

Fontamara è un piccolo villaggio dell'Italia meridionale.
Un minuscolo puntino. Una piccola macchia d’inchiostro per i cartografi, ma un intero universo per i cafoni che ci vivono. Là c’è un mondo intero nel quale si dipanano vicende comuni a tutti gli esseri umani: nascite, morti, dolori, affanni, amori, lavoro, promesse, sogni.
Fontamara, da anni, da secoli, da sempre, è uguale a se stessa. La stessa pioggia, lo stesso vento, lo stesso cibo, la medesima miseria. E le ingiustizie.
Fontamarà è un universo a sé. Diverso dal resto del mondo. Isolato. Invisibile. Il ciclo vitale si muove sordo all'evoluzione, a qualsiasi tipo di evoluzione: scientifica, politica,economica, religiosa, sociale.
Paese invisibile in generale. Visibile in particolare. Le ingiustizie e i soprusi lo scorgono e lo catturano. È la sua condanna, da padre in figlio per giungere ai nipoti, ai figli dei nipoti e così via in una spirale della quale non si vede la fine.
E in questo microcosmo che pare dimenticato da Dio e da tutti i santi del paradiso, timidamente nascono, comunque, delle piccole fiammelle di ribellione. Nonostante nella gerarchia sociale i cafoni costituiscano l'ultimo anello della catena talmente distante dal primo che li rende, a dir poco, futili poiché , come Silone insegna
« In capo a tutti c'è Dio, padrone del cielo.
Questo ognuno lo sa.
Poi viene il principe di Torlonia, padrone della terra.
Poi vengono le guardie del principe.
Poi vengono i cani delle guardie del principe.
Poi, nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi, ancora nulla.
Poi vengono i cafoni.
E si può dire ch'è finito. »

E, nonostante, solo poco prima della fine ci siano questi miseri cafoni, germoglia l’idea e la voglia di ribellarsi a quel sistema che ha fatto dell’ingiustizia il suo manifesto programmatico.
Ai Fontamaresi viene tolta l’acqua necessaria per irrigare la loro fonte di sostentamento: la terra. Lì iniziano a lottare, a muoversi, a urlare, a volere un bene che ritengono di loro proprietà. Perché l’acqua è vita. Lottano per quella fondamentale risorsa naturale e raggiungono un accordo, grazie al sostegno del cosiddetto amico del popolo, un avvocato (che non fa onore alla categoria).
L'accordo, apparentemente, risulta equo. Maledetta ignoranza!
Infatti, l’acqua verrà ripartita con le seguenti modalità: tre quarti al ricco proprietario e gli altri tre quarti (?!)ai cafoni.
A questo ennesimo imbroglio ne seguiranno altri (l'acqua rimarrà di proprietà del ricco podestà " non per cinquant'anni ma per dieci lustri" - sic) che non impediranno, comunque, la presa di coscienza, seppur timida e non supportato da un adeguato sostrato culturale, dell’esistenza di diritti riconosciuti all’essere umano in quanto tale.
Presa di coscienza che culminerà, a titolo emblematico, con il sacrificio di Berardo Viola. Lo stile di Silone è semplice, essenziale, vicino alla lingua parlata. Infatti, lo scrittore abdica al suo ruolo di cronista, per far parlare i protagonisti, Giuvà, la moglie e il figlio che, da soli, divengono la voce di quel popolo che sono i cafoni di Fontamara.

martedì 17 giugno 2014

MI FIDO DI TE - Francesco Abate e Massimo Carlotto

FIDATI CHE TI CONVIENE

Titolo: Mi fido di te
Autori: Francesco Abate e Massimo Carlotto
Editore: Einaudi
Pagine: 195


Mi fido di te ove si narrano le vicende di Gigi Vianello che dopo aver fatto casini a manetta in Veneto e tradito il suo “salvatore” e quasi suocero, si trasferisce in Sardegna. Il caro Gigi, in terra sarda, trova la polletta da spennare, la bella Bianca, e rileva il ristorante appartenuto alla famiglia della giovin avicola per trasformarlo in un vero e proprio locale da gourmet (non di solo Cracco si vive). Gigi lo voleva a tutti costi quel ristorante perché aveva bisogno di una solida copertura per la sua attività quella vera, quella più redditizia: la distribuzione di prodotti alimentari sofisticati. Al giovine non mancano certo le capacità e l’ingegno, riuscirà infatti a costruire un meccanismo quasi impeccabile, ma qualcosa in quel meccanismo perfetto si incepperà e Gigi sarà trascinato nel fango anche se, fino all’ultimo, continuerà ad avere brillanti idee.
Il primo pensiero che mi è venuto dopo aver letto Mi fido di te è stato: “gente brutta scritta bene”. Già perché la carrellata di personaggi Nati dalla penna di Massimo Carlotto e Francesco Abate (che adoro, l’ho già detto?) sono estremamente negativi. Non ispirano certo picnic in campagne verdi e fiorellini da cogliere per regalare alla maestra. Sono personaggi, per intenderci che si fidano, come recita il titolo, perché costretti a farlo perché obbligati dagli eventi o, spesso, per la necessità di salvarsi la pelle. Forse perché inseriti in ambienti un tantino loschi o forse perché, gira e rigira, è l’essere umano, in fondo, a essere decisamente brutto. Di bruttura in bruttura il romanzo scorre piacevolmente, lo stile secco e diretto privo di orpelli rende la trama avvincente e nonostante le carognate, i tradimenti e le azioni illegali Gigi risulta estremamente simpatico (vieni qua “Oh, s’amigu”). Nella storia non manca l’ironia, in dosi abbondanti, che aggiunge un qualcosa di più a un romanzo che, in ogni caso, risulta ben costruito. Avviso: segue momento romantico. Ecco, mi son pure emozionata quando in scena è entrato Rudy Saporito del quale avevo già fatto la conoscenza ne “Il cattivo cronista” : fa sempre piacere rivedere i vecchi amici. Perché i personaggi di Abate son questo: sono o diventano nostri amici. Non li si dimentica. Quindi, anche se non lo dico mai, fidatevi di me: leggetelo.


Altri libri:
Il ladro del silenzio, Rawi Hage

martedì 3 giugno 2014

CAGLIARI IERI, OGGI E FORSE ANCHE DOMANI - AA.VV.

EPPUR SON VIVI

Titolo: Cagliari ieri, oggi e forse anche domani
Curatore: Antonello Ardu
Editore: Falco
Anno: 2014
Pagine:192


Sì, lo so, ho sempre detto che amavo gli scrittori. Quelli morti.
Tale affermazione potrebbe essere usata contro di me, adesso. Già, perché la Falco Editore, poco tempo fa, ha pubblicato un romanzo, Cagliari ieri, oggi e forse anche domani, nella cui copertina c’è pure il mio nome. A mia discolpa e per non apparire incoerente con la mia apocalittica affermazione volta, in un certo senso, all’eliminazione degli scrittori viventi potrei giustificarmi dicendo:
  1. in via principale: sì vabbè mica ho scritto un libro, ma solo un raccontino.
  2. In via subordinata: mica son scrittrice, ho solo messo per iscritto la storia di Mirko con la Kappa.
  3. In ogni caso: con vittoria di spese e onorari di causa.
Fatta questa premessa -a mero scopo cautelativo, s’intende- vi voglio parlare di questo progetto, nato dalla testa malefica di Antonello Ardu, (sì, lui è scrittore, in effetti, ha già scritto due romanzi: Il fattore K e Dossier Hoffmann). Tutto iniziò quando l’Ardu, in un assolato pomeriggio estivo, mi disse: “Ho in mente di scrivere un romanzo il cui protagonista è un conducente di un pullman che, per via del suo lavoro, ascolta tante storie e come ogni storia che si rispetti sente il bisogno di raccontarle a sua volta”. Cosi va con le storie: non devono stare ferme, è necessario che circolino e non cadano nell’oblio. Ovviamente, ho pensato fosse una bella idea. Un po’ meno bella mi è sembrata l’idea dell’Ardu esposta subito dopo, sempre sotto il sole cocente di quell’agosto cagliaritano: “Perché non scrivi un racconto, a tema libero, purché ambientato a Cagliari?”. E, ovviamente bis, gli risposi di no. Mi creava ansia l’idea di dover scrivere (poi dopo tutte le affermazioni sugli scrittori morti e così via non sarebbe stato molto edificante scrivere a mia volta, salvo volermi praticare l’eutanasia per amor proprio). Insomma, il mio è stato un no categorico. E, poiché, io non cambio mai idea (!?) dopo qualche giorno ho pensato a quel racconto che avrei, forse, potuto scrivere, e ho detto, prima a me stessa, “Sì, va bene lo scrivo”. E così fu, ho fatto nascere un bambino un po’ speciale, Mirko, che viveva nella zona di San Benedetto alla quale son legata da ricordi dolci. L’ho inviato, così per coerenza con la mia incoerenza.
Successivamente, altre nove persone hanno inviato i loro racconti ad Antonello e lui, con metodo certosino appreso non si sa dove, li ha uniti ad una storia-romanzo principale che è divenuta il contenitore. Tale romanzo è un viaggio nella malattia del piccolo Giaime, nell’ amore, in un futuro, il 2037, immediatamente successivo alla terza guerra nucleare. Come ha fatto il nostro eroe a inserire i dieci racconti così diversi per temi e per stili nella vicenda di Giaime? Ha usato un espediente alquanto affascinante: quei singoli racconti sono diventati le storie che il nonno ogni sera raccontava al nipote. Ogni sera un racconto diverso. Ogni sera un quartiere diverso di Cagliari. E così il piccolo e sofferente Giaime ha conosciuto il mio Mirko, il Salvatore Murgia di Marco Corda con i suoi occhiali speciali, la trentanovenne e misteriosa Clara di Francesca Marrocu, Il gatto Sartorio custode del cimitero di Giulia Manunta, ha conosciuto quel folle provvedimento che ha impedito ai gruppi dilettanti di suonare di Igor Lampis, ha fatto un tuffo nel passato con le storie di Villanova di Luigi Alfonso, ha conosciuto il nuovo sistema elettorale di Consuelo Melis, il gattaro di Antonello, ha conosciuto uno strano virus nato dalla penna di Antonello Ardu e di Marco Corda, il ritmo musicale degli anni ‘80 di Francesco Fiabane, si è immerso nel lontano 533 D.C. nel quartiere di Castello descritto da Fabio Marcello.
Ecco, al di là della storia principale, della malattia, dei temi alquanto forti, al di là dello scenario post-bellico, al di là di un futuro prossimo non molto allettante le storie, le vere care storie salvano, avendo – indubbiamente - un effetto benefico. Per Giaime innanzitutto, ma anche per il nonno, Carule, che le custodisce nell’unico modo in cui esse devono essere custodite: raccontandole. Perché il posto delle storie non è uno scrigno chiuso, ma la libertà. E, adesso, guardando quella copertina con quel pullman impresso posso dire di essere contenta di aver partecipato a questo progetto.
Per amore di precisione, aggiungo di esser contenta nonostante i nonostante seguenti:
  • Nonostante n. 1. Pour parler, è stato detto che avessimo pagato la pubblicazione. Niente di più falso, la Falco Editore ha creduto nel nostro progetto e, vi assicuro, come sia ancora possibile credere in qualcosa senza chiedere soldi in cambio (lo so, è strano; ma capita). Questo è importante precisarlo perché se è vero che sono spesso incoerente è anche vero che non transigo sull’editoria a pagamento che ritengo un vero e proprio furto.
  • Nonostante n. 2. La copertina con il pullman londinese che c’entra? In effetti non c’entra visto che è un pullman indiano. La fantasia, la fantasia manca.
  • Nonostante n. 3. Se vi hanno pubblicato avevate conoscenze. Anzi, buone conoscenze. Per quanto mi riguarda conosco molto bene la mia famiglia, in particolare mia madre prepara ottimi culurgiones e, vi assicuro, non ha contatti con il mondo dell’editoria (a proposito, non ha ancora finito di leggere il libro pur essendo stata la prima acquirente).


mercoledì 2 aprile 2014

LA GUERRA DEI ROSES - Warren Adler


                                                                MATRIMONI VELENOSI                                                                                                                   Titolo: La guerra dei Roses
Autore: Warren Adler
Editore: Sperling & Kupfer, 1990
Pagine: 241
Romanzo

Come dire: lasciate ogni speranza o voi che volete coniugarvi e ricordatevi sempre di Barbara e Jonathan Rose. 
Jonathan e Barbara si conobbero a un’asta di oggetti d’antiquariato e fu amore. Incandescente, intenso, passionale. Da quell’incontro al matrimonio il passo fu breve. Poi arrivò il successo di lui, una casa bellissima stracolma di oggetti preziosi per i quali non persero la passione, due figli, belle macchine, bei vestiti. Questo quadretto ovattato sembrava perfetto e quasi confermare, giorno per giorno, quel “per sempre” pronunciato il giorno delle nozze. E quando tutto sembrava sicuro, quando quel vincolo sembrava consolidato succede qualcosa. Lui, finisce in ospedale, pensa già alla morte e attende sua moglie. Lui non morirà, ma Barbara non arriva. “Non mi importava” gli dirà qualche giorno dopo la sua cara mogliettina. E da quel giorno nulla sarà più come prima…


Leggendo questo libro non ho potuto fare a meno di avere dinnanzi agli occhi i fotogrammi –visti e rivisti - del film omonimo, che sicuramente è riuscito, ancor più del romanzo, a raccontare, con catastrofiche immagini, la disfatta di un matrimonio, il dissolversi di sentimenti che parevano saldi, il susseguirsi di cadute in basso in un circolo vizioso fatto di ripicche, di piccole e grandi vendette, il venir meno di legami che si frantumano, spesso insieme con le porcellane, senza possibilità di rimedio. Non un grande romanzo, sia chiaro; Adler ha un limite: non riesce a offrire al lettore il quadro di una coppia “normale”, perché Jonathan e Barbara Rose sono una coppia ricca da far schifo, troppo lontana dalle esperienze quotidiane di ognuno di noi. Non tutti, ovviamente, possono permettersi una Ferrari in garage e, a dire il vero, questo sottolineare l’abbondanza, il lusso, il benessere eccessivo dei protagonisti, in ogni punto della storia, pare addirittura esasperato. Ma siamo negli anni ottanta, gli anni degli eccessi, degli yuppies e, in fondo, le esagerazioni ci stanno. E infastidiscono, soprattutto in quelle parti della narrazione nelle quali quasi ci si dimentica si star leggendo un romanzo e ci si ritrova catapultati in qualcosa che pare più una rivista di arredamento. Ma, nonostante tutto, si coglie una verità di fondo che, in tutta la sua crudeltà, è applicabile a tutti i matrimoni anche a quelli tra poveri cristi che combattono per arrivare a fine mese: i divorzi fanno emergere il lato peggiore delle persone, il più delle volte si rasenta la follia a prescindere, quindi, dalla classe sociale di appartenenza e dalla dichiarazione dei redditi. In particolare, quando un amore si consuma è come avesse la capacità di lavar via tutto il passato e trascinasse con sé, come un torrente in piena, quelle belle cose che lo hanno reso, appunto, un amore. La fine di un amore, esattamente come una guerra e, forse ancor di più, impietosamente trasforma tutto in cenere, in cumuli di odio e frammenti di cuori che un tempo battevano all’unisono.

lunedì 10 marzo 2014

IL MALINTESO - Irène Némirovsky

STRUGGERSI D'AMORE

Titolo: Il malinteso
Autore: Irene Némirowsky
Editore: Adelphi
Anno: 2010
Genere. Romanzo
Traduttore: Marina Di Leo
Pagine:  190


Ci sono autori 'intoccabili' e se osi parlarne male si scatena il putiferio. Infatti, con questo mia recensione il putiferio si scatenò. Ne sono uscita viva per miracolo. Ma ce l'ho fatta. D'altronde se l'autrice non mi smuove qualcosa dentro che posso farci? E dico questo dopo aver letto altri suoi romanzi. Fucilatemi pure.


Primi del Novecento. Yves Harteloup, classe 1890, è un nuovo povero. L’eredità scarna di suo padre lo ha costretto, ahilui, a trovarsi un impiego e a condurre una vita  parsimoniosa. L’unico lusso che può concedersi è quello di godersi alcune settimane di vacanza presso le spiagge di Hendaye. Luogo a lui molto caro poiché che da bambino vi trascorreva l’estate. Ma quelli erano altri tempi. Tempi nei quali esistevano persone che potevano permettersi di non fare nulla. I bei tempi dell’assenza di preoccupazioni. È durante le sue vacanze che una bimba, Francette, gli lancia pugni di sabbia in viso. Adorabile Francette! Figlia della bella Denise. Complice il sole tra i tamerici o i pugni di sabbia, tra Yves e Denise scocca la scintilla dell’amore. Finite le romantiche vacanze torneranno a Parigi. Continueranno a vedersi. Ma ripiombato nella sua realtà, Yves dovrà fare i conti con la sua vita e con i pochi mezzi a disposizione. Denise si strugge d’amore. E piange, piange, piange. Tves si scontra con la necessità di pagare i debiti e arrivare a fine mese. E mentre Denise continua a pretendere un amore rigorosamente “in smoking” Yves si impegna a trovare soluzioni…


Apparso in rivista nel 1926, Il malinteso è il primo romanzo della allora ventitreenne Irène Némirovsky. Si intravede uno stile ancora immaturo che troverà pieno compimento negli scritti successivi, che consacreranno la scrittrice al grande pubblico. Una storia semplice, struggente, fatta di attese. Di parole non dette, di “ti amo” mancanti. Mancanti, almeno da parte di Yves. Di amore egoista. Interessanti gli spunti contenuti in questo romanzo che, purtroppo, non sono stati approfonditi: interessante vedere, anzi solo intravedere, la nuova realtà sociale caratterizzata dall’emergere di nuove classi sociali. Interessante il nuovo concetto di lavoro, quel concetto comune a tutti noi mortali. Certo, temi interessanti. Peccato che in questo romanzo siano stati solo accennati e, poi, crudelmente soffocati per lasciare spazio ad uno scenario melodrammatico nel quale si muovono i protagonisti. Il tutto si perde nelle lacrime, spesso inutili, di Denise e nell’abbondanza quasi ossessiva di aggettivi che appesantiscono il percorso di lettura. Rosa che più rosa non si può. Certo, però, la Némirovsky non è una sconosciuta. È amatissima dal grande pubblico. Pertanto è quasi d’obbligo “salvare” il suo primo romanzo e farlo salire, in qualche modo, su un piedistallo perché si sta parlando di lei. Nella nota finale, Olivier Philipponnat ha quasi l’impressione che nel “cielo d’agosto” di Hendaye scoppierà, esattamente come una bomba, il patto di non aggressione tra la Russia e la Germania, che farà venir meno le speranze della scrittrice di ottenere la cittadinanza francese. Pura fantasia, ovviamente visto che il romanzo è di qualche anno – solo quindici - prima di quel famoso patto. Certo, sarebbe stato bello questo riferimento! Bello, ma impossibile.  O “pura illusione” come lo definisce lo stesso Philipponnat. Insomma, forse ne Il malinteso non ci sono tutti 

quei richiami a una realtà politica o storica, né c’è una critica a quella società fittizia fatta di belle parole e di amori da manuale come vogliono farci credere gli estimatori della scrittrice. Perlomeno, non è così scontato trovarci tutti questi significati e questi sottotesti. Prendiamolo piuttosto per quello che è: un romanzo d’amore. Ma scritto, e il nome conta, dalla Némirovsky. Niente più di questo. Un peccato di gioventù, forse.