martedì 3 giugno 2014

CAGLIARI IERI, OGGI E FORSE ANCHE DOMANI - AA.VV.

EPPUR SON VIVI

Titolo: Cagliari ieri, oggi e forse anche domani
Curatore: Antonello Ardu
Editore: Falco
Anno: 2014
Pagine:192


Sì, lo so, ho sempre detto che amavo gli scrittori. Quelli morti.
Tale affermazione potrebbe essere usata contro di me, adesso. Già, perché la Falco Editore, poco tempo fa, ha pubblicato un romanzo, Cagliari ieri, oggi e forse anche domani, nella cui copertina c’è pure il mio nome. A mia discolpa e per non apparire incoerente con la mia apocalittica affermazione volta, in un certo senso, all’eliminazione degli scrittori viventi potrei giustificarmi dicendo:
  1. in via principale: sì vabbè mica ho scritto un libro, ma solo un raccontino.
  2. In via subordinata: mica son scrittrice, ho solo messo per iscritto la storia di Mirko con la Kappa.
  3. In ogni caso: con vittoria di spese e onorari di causa.
Fatta questa premessa -a mero scopo cautelativo, s’intende- vi voglio parlare di questo progetto, nato dalla testa malefica di Antonello Ardu, (sì, lui è scrittore, in effetti, ha già scritto due romanzi: Il fattore K e Dossier Hoffmann). Tutto iniziò quando l’Ardu, in un assolato pomeriggio estivo, mi disse: “Ho in mente di scrivere un romanzo il cui protagonista è un conducente di un pullman che, per via del suo lavoro, ascolta tante storie e come ogni storia che si rispetti sente il bisogno di raccontarle a sua volta”. Cosi va con le storie: non devono stare ferme, è necessario che circolino e non cadano nell’oblio. Ovviamente, ho pensato fosse una bella idea. Un po’ meno bella mi è sembrata l’idea dell’Ardu esposta subito dopo, sempre sotto il sole cocente di quell’agosto cagliaritano: “Perché non scrivi un racconto, a tema libero, purché ambientato a Cagliari?”. E, ovviamente bis, gli risposi di no. Mi creava ansia l’idea di dover scrivere (poi dopo tutte le affermazioni sugli scrittori morti e così via non sarebbe stato molto edificante scrivere a mia volta, salvo volermi praticare l’eutanasia per amor proprio). Insomma, il mio è stato un no categorico. E, poiché, io non cambio mai idea (!?) dopo qualche giorno ho pensato a quel racconto che avrei, forse, potuto scrivere, e ho detto, prima a me stessa, “Sì, va bene lo scrivo”. E così fu, ho fatto nascere un bambino un po’ speciale, Mirko, che viveva nella zona di San Benedetto alla quale son legata da ricordi dolci. L’ho inviato, così per coerenza con la mia incoerenza.
Successivamente, altre nove persone hanno inviato i loro racconti ad Antonello e lui, con metodo certosino appreso non si sa dove, li ha uniti ad una storia-romanzo principale che è divenuta il contenitore. Tale romanzo è un viaggio nella malattia del piccolo Giaime, nell’ amore, in un futuro, il 2037, immediatamente successivo alla terza guerra nucleare. Come ha fatto il nostro eroe a inserire i dieci racconti così diversi per temi e per stili nella vicenda di Giaime? Ha usato un espediente alquanto affascinante: quei singoli racconti sono diventati le storie che il nonno ogni sera raccontava al nipote. Ogni sera un racconto diverso. Ogni sera un quartiere diverso di Cagliari. E così il piccolo e sofferente Giaime ha conosciuto il mio Mirko, il Salvatore Murgia di Marco Corda con i suoi occhiali speciali, la trentanovenne e misteriosa Clara di Francesca Marrocu, Il gatto Sartorio custode del cimitero di Giulia Manunta, ha conosciuto quel folle provvedimento che ha impedito ai gruppi dilettanti di suonare di Igor Lampis, ha fatto un tuffo nel passato con le storie di Villanova di Luigi Alfonso, ha conosciuto il nuovo sistema elettorale di Consuelo Melis, il gattaro di Antonello, ha conosciuto uno strano virus nato dalla penna di Antonello Ardu e di Marco Corda, il ritmo musicale degli anni ‘80 di Francesco Fiabane, si è immerso nel lontano 533 D.C. nel quartiere di Castello descritto da Fabio Marcello.
Ecco, al di là della storia principale, della malattia, dei temi alquanto forti, al di là dello scenario post-bellico, al di là di un futuro prossimo non molto allettante le storie, le vere care storie salvano, avendo – indubbiamente - un effetto benefico. Per Giaime innanzitutto, ma anche per il nonno, Carule, che le custodisce nell’unico modo in cui esse devono essere custodite: raccontandole. Perché il posto delle storie non è uno scrigno chiuso, ma la libertà. E, adesso, guardando quella copertina con quel pullman impresso posso dire di essere contenta di aver partecipato a questo progetto.
Per amore di precisione, aggiungo di esser contenta nonostante i nonostante seguenti:
  • Nonostante n. 1. Pour parler, è stato detto che avessimo pagato la pubblicazione. Niente di più falso, la Falco Editore ha creduto nel nostro progetto e, vi assicuro, come sia ancora possibile credere in qualcosa senza chiedere soldi in cambio (lo so, è strano; ma capita). Questo è importante precisarlo perché se è vero che sono spesso incoerente è anche vero che non transigo sull’editoria a pagamento che ritengo un vero e proprio furto.
  • Nonostante n. 2. La copertina con il pullman londinese che c’entra? In effetti non c’entra visto che è un pullman indiano. La fantasia, la fantasia manca.
  • Nonostante n. 3. Se vi hanno pubblicato avevate conoscenze. Anzi, buone conoscenze. Per quanto mi riguarda conosco molto bene la mia famiglia, in particolare mia madre prepara ottimi culurgiones e, vi assicuro, non ha contatti con il mondo dell’editoria (a proposito, non ha ancora finito di leggere il libro pur essendo stata la prima acquirente).


mercoledì 2 aprile 2014

LA GUERRA DEI ROSES - Warren Adler


                                                                MATRIMONI VELENOSI                                                                                                                   Titolo: La guerra dei Roses
Autore: Warren Adler
Editore: Sperling & Kupfer, 1990
Pagine: 241
Romanzo

Come dire: lasciate ogni speranza o voi che volete coniugarvi e ricordatevi sempre di Barbara e Jonathan Rose. 
Jonathan e Barbara si conobbero a un’asta di oggetti d’antiquariato e fu amore. Incandescente, intenso, passionale. Da quell’incontro al matrimonio il passo fu breve. Poi arrivò il successo di lui, una casa bellissima stracolma di oggetti preziosi per i quali non persero la passione, due figli, belle macchine, bei vestiti. Questo quadretto ovattato sembrava perfetto e quasi confermare, giorno per giorno, quel “per sempre” pronunciato il giorno delle nozze. E quando tutto sembrava sicuro, quando quel vincolo sembrava consolidato succede qualcosa. Lui, finisce in ospedale, pensa già alla morte e attende sua moglie. Lui non morirà, ma Barbara non arriva. “Non mi importava” gli dirà qualche giorno dopo la sua cara mogliettina. E da quel giorno nulla sarà più come prima…


Leggendo questo libro non ho potuto fare a meno di avere dinnanzi agli occhi i fotogrammi –visti e rivisti - del film omonimo, che sicuramente è riuscito, ancor più del romanzo, a raccontare, con catastrofiche immagini, la disfatta di un matrimonio, il dissolversi di sentimenti che parevano saldi, il susseguirsi di cadute in basso in un circolo vizioso fatto di ripicche, di piccole e grandi vendette, il venir meno di legami che si frantumano, spesso insieme con le porcellane, senza possibilità di rimedio. Non un grande romanzo, sia chiaro; Adler ha un limite: non riesce a offrire al lettore il quadro di una coppia “normale”, perché Jonathan e Barbara Rose sono una coppia ricca da far schifo, troppo lontana dalle esperienze quotidiane di ognuno di noi. Non tutti, ovviamente, possono permettersi una Ferrari in garage e, a dire il vero, questo sottolineare l’abbondanza, il lusso, il benessere eccessivo dei protagonisti, in ogni punto della storia, pare addirittura esasperato. Ma siamo negli anni ottanta, gli anni degli eccessi, degli yuppies e, in fondo, le esagerazioni ci stanno. E infastidiscono, soprattutto in quelle parti della narrazione nelle quali quasi ci si dimentica si star leggendo un romanzo e ci si ritrova catapultati in qualcosa che pare più una rivista di arredamento. Ma, nonostante tutto, si coglie una verità di fondo che, in tutta la sua crudeltà, è applicabile a tutti i matrimoni anche a quelli tra poveri cristi che combattono per arrivare a fine mese: i divorzi fanno emergere il lato peggiore delle persone, il più delle volte si rasenta la follia a prescindere, quindi, dalla classe sociale di appartenenza e dalla dichiarazione dei redditi. In particolare, quando un amore si consuma è come avesse la capacità di lavar via tutto il passato e trascinasse con sé, come un torrente in piena, quelle belle cose che lo hanno reso, appunto, un amore. La fine di un amore, esattamente come una guerra e, forse ancor di più, impietosamente trasforma tutto in cenere, in cumuli di odio e frammenti di cuori che un tempo battevano all’unisono.

lunedì 10 marzo 2014

IL MALINTESO - Irène Némirovsky

STRUGGERSI D'AMORE

Titolo: Il malinteso
Autore: Irene Némirowsky
Editore: Adelphi
Anno: 2010
Genere. Romanzo
Traduttore: Marina Di Leo
Pagine:  190


Ci sono autori 'intoccabili' e se osi parlarne male si scatena il putiferio. Infatti, con questo mia recensione il putiferio si scatenò. Ne sono uscita viva per miracolo. Ma ce l'ho fatta. D'altronde se l'autrice non mi smuove qualcosa dentro che posso farci? E dico questo dopo aver letto altri suoi romanzi. Fucilatemi pure.


Primi del Novecento. Yves Harteloup, classe 1890, è un nuovo povero. L’eredità scarna di suo padre lo ha costretto, ahilui, a trovarsi un impiego e a condurre una vita  parsimoniosa. L’unico lusso che può concedersi è quello di godersi alcune settimane di vacanza presso le spiagge di Hendaye. Luogo a lui molto caro poiché che da bambino vi trascorreva l’estate. Ma quelli erano altri tempi. Tempi nei quali esistevano persone che potevano permettersi di non fare nulla. I bei tempi dell’assenza di preoccupazioni. È durante le sue vacanze che una bimba, Francette, gli lancia pugni di sabbia in viso. Adorabile Francette! Figlia della bella Denise. Complice il sole tra i tamerici o i pugni di sabbia, tra Yves e Denise scocca la scintilla dell’amore. Finite le romantiche vacanze torneranno a Parigi. Continueranno a vedersi. Ma ripiombato nella sua realtà, Yves dovrà fare i conti con la sua vita e con i pochi mezzi a disposizione. Denise si strugge d’amore. E piange, piange, piange. Tves si scontra con la necessità di pagare i debiti e arrivare a fine mese. E mentre Denise continua a pretendere un amore rigorosamente “in smoking” Yves si impegna a trovare soluzioni…


Apparso in rivista nel 1926, Il malinteso è il primo romanzo della allora ventitreenne Irène Némirovsky. Si intravede uno stile ancora immaturo che troverà pieno compimento negli scritti successivi, che consacreranno la scrittrice al grande pubblico. Una storia semplice, struggente, fatta di attese. Di parole non dette, di “ti amo” mancanti. Mancanti, almeno da parte di Yves. Di amore egoista. Interessanti gli spunti contenuti in questo romanzo che, purtroppo, non sono stati approfonditi: interessante vedere, anzi solo intravedere, la nuova realtà sociale caratterizzata dall’emergere di nuove classi sociali. Interessante il nuovo concetto di lavoro, quel concetto comune a tutti noi mortali. Certo, temi interessanti. Peccato che in questo romanzo siano stati solo accennati e, poi, crudelmente soffocati per lasciare spazio ad uno scenario melodrammatico nel quale si muovono i protagonisti. Il tutto si perde nelle lacrime, spesso inutili, di Denise e nell’abbondanza quasi ossessiva di aggettivi che appesantiscono il percorso di lettura. Rosa che più rosa non si può. Certo, però, la Némirovsky non è una sconosciuta. È amatissima dal grande pubblico. Pertanto è quasi d’obbligo “salvare” il suo primo romanzo e farlo salire, in qualche modo, su un piedistallo perché si sta parlando di lei. Nella nota finale, Olivier Philipponnat ha quasi l’impressione che nel “cielo d’agosto” di Hendaye scoppierà, esattamente come una bomba, il patto di non aggressione tra la Russia e la Germania, che farà venir meno le speranze della scrittrice di ottenere la cittadinanza francese. Pura fantasia, ovviamente visto che il romanzo è di qualche anno – solo quindici - prima di quel famoso patto. Certo, sarebbe stato bello questo riferimento! Bello, ma impossibile.  O “pura illusione” come lo definisce lo stesso Philipponnat. Insomma, forse ne Il malinteso non ci sono tutti 

quei richiami a una realtà politica o storica, né c’è una critica a quella società fittizia fatta di belle parole e di amori da manuale come vogliono farci credere gli estimatori della scrittrice. Perlomeno, non è così scontato trovarci tutti questi significati e questi sottotesti. Prendiamolo piuttosto per quello che è: un romanzo d’amore. Ma scritto, e il nome conta, dalla Némirovsky. Niente più di questo. Un peccato di gioventù, forse. 

lunedì 24 febbraio 2014

IL GIORNO DELLA TARTARUGA - Pier Bruno Cosso

UN TEMPO FU UN ANIMALE CHE CORREVA A TESTA IN GIÙ
Titolo: Il giorno della tartaruga
Autore: Pier Bruno Cosso
Editore: Parallelo 45
Pagine: 170





Ci sono libri che arrivano nel nostro comodino a seguito di una scelta, di  un martellante "Lo voglio, lo voglio, lo voglio" che si ha bisogno di far tacere., quasi come un amore che dev'essere consumato. Poi, ci sono libri che giungono a noi per caso o per una lunga serie di coincidenze, come questo, appunto.
Il giorno della tartaruga , primo romanzo dello scrittore sassarese, edito da Parallelo 45, sempre per quella lunga serie di coincidenze, ci si può trovare a presentarlo in libreria. Insomma, tutto può accadere come, del resto, il romanzo ci insegna.  Può infatti succedere che, un giorno qualunque del 2010, Lucio Zucca, protagonista di questa insolita storia, esca la mattina presto sbattendo la porta dopo l'ennesimo litigio con la moglie. Sale sulla sua Golf e percorre la strada ben nota che da Sassari lo condurrà a Benetutti. Poi, tutto si ferma o, meglio, si ribalta esattamente come quella tartaruga che, casualmente, incontra in strada. A partire da quel momento  la vita di Lucio torna indietro di 25 anni e si troverà catapultato nel 1985. Già, gli anni di Madonna, dei Duran Duran e di tante altre belle ed esagerate cose che io ho conosciuto bene immersa com'ero nel blu elettrico e nel rosa shocking. Certo tornare indietro nel tempo è quantomeno destabilizzante. O forse no? Forse perché, per dirla proustianamente, in quel tempo perduto e/o ritrovato  il nostro Lucio, incontra la bella Asia che gli contagia il morbo della vita che lui, indurito dal cinismo,  pare abbia abbandonato? Forse in "quell'adesso" può fare delle scelte, può dire cose che non ha detto per timore, per quel continuo rimandare che appartiene un po' a tutti noi. Forse quel 1985 è salvifico e regala un'opportunità?
Con una scrittura pulita, priva di fronzoli, Cosso ci regala una storia nella quale grazie alla fusione tra reale e surreale la dimensione quasi onirica non la si vorrebbe abbandonare: è lì in quel mondo sospeso che avrei voluto restare, forse perché lì mi sembrava tutto possibile. È anche un libro che regala speranza, a modo suo, ma lo fa. Infatti, in un mondo come quello di Lucio, che credo sia anche il nostro, dominato da avidità, menzogna, dove gli avvoltoi nascono e si moltiplicano si riesce -comunque- a trovare un piccolo spazio per la purezza, un punto fermo cui aggrapparsi per "ripulirsi" in una prospettiva di rinascita. E se il cinismo, l'avidità, il vuoto di esistenze permeano la storia, non mancano anche momenti di profonda tenerezza che, ancora una volta sono salvifici. Uno tra tutti l'incontro tra Lucio e  il padre, il padre di 25 anni prima avvolto nel suo "cardigan amaranto" fatto dalle mani di chi lo amava.
Credo che il romanzo, alla fin fine, possa essere interpretato anche come un invito: un invito a cogliere i momenti che, spesso, lasciamo correr via credendo di poterli recuperare il giorno dopo o quello dopo ancora; ancora, un invito a lasciarsi andare perché non viviamo solo di doveri, ma anche di sogni e di desideri. Forse, anche l'invito a non attendere grossi capovolgimenti per cambiare le cose. Forse tutte queste cose insieme.

Altri libri:
Pierre, Nello Rubattu

mercoledì 15 gennaio 2014

IL LADRO DEL SILENZIO - Rawi Hage

Senza speranza

Titolo: Il ladro del silenzio
Autore: Rawi Hage
Editore: Garzanti
Anno: 2011
Genere: Romanzo
Pagine: 350
Traduzione: Serena Lauzi

Perché la vita, spesso, è angoscia. Angoscia che si nutre di se stessa, che ci consuma e non ci regala nient'altro: né speranza, né sogni.

Siamo in Canada. A Montréal. Lui, inquieto, si aggira per le strade di quella gelida e innevata città. Lui ama Shohreh, anche se non si fida dei suoi sentimenti. Certo, le donne gli provocano sensazioni talmente forti da causare nel suo corpo anomale metamorfosi: basta infatti una caviglia femminile perché i suoi denti divengano aguzzi e la schiena si ingobbisca. Basta così poco. Per fortuna, forse, c’è la terapista con la quale parlare. Con la quale poter confessare finanche che, da bambino, lui è stato un insetto. Sì, per l’esattezza, uno scarafaggio. E gli scarafaggi, in effetti, sono gli inquilini abituali del suo appartamento i quali, indisturbati, girovagano tra stoviglie ammucchiate sul lavello e maleodoranti. I soldi stanno finendo, lo stomaco inizia a lamentarsi: è necessario trovare, al più presto, un lavoro. Ma prima è forse meglio andare a cercare, tra le gelide strade canadesi, Reza, il musicista iraniano-gran bastardo, che gli deve restituire ancora i suoi quaranta dollari. Certo, nella sua terra, il Libano, era tutto diverso. Certo, in Libano c’era la sua adorata sorella…
Dopo il grande successo di critica e i numerosi premi vinti con il suo primo romanzo Come la rabbia al vento, Rawi Hage, scrittore libanese, ora emigrato in America, ci offre con Il ladro del silenzio un romanzo forte, duro, velenoso. Tutto incentrato sulla figura di un gruppo di emigrati mediorientali in Canada, nel gelido Canada. Forse troppo freddo per il loro sangue. È un romanzo nel quale tutto pare sfaldarsi, a iniziare da quei miseri appartamenti che ricordano, in qualche modo, gli ambienti bukowskiani dei tempi peggiori, quelli in cui, per usare le sue stesse parole, “Ognuno di noi ha i suoi inferni, si sa. Ma io ero in testa, di tre lunghezze sugli inseguitori”. Si sfaldano i sogni, le speranze, la vita e le vite. Poi, riaffiora il passato e con esso i dolori e pubblici e privati. Le parole di Hage sono terribili  in quanto non lasciano spazio alla speranza -  se non, forse, nella storia d’amore -  perché anch’essa è troppo umana e tutto ciò che è umano pare non possa far parte, se non a costo di forzature, di quest’opera. Insomma, Hage ci regala una storia che lascia nel lettore una sorta di angoscia e a ciò, indubbiamente, contribuisce, e non in misura marginale, lo stile che, in molti punti della narrazione, tende ad essere decisamente lento e prolisso quasi a voler amplificare quel già drastico quadro, tutto e solo umano, di degrado e di sofferenza. 

Altri libri:
Bastardo posto, Remo Bassini
Girl gang, Ashley Little

giovedì 21 novembre 2013

L'INQUILINO DEL TERZO PIANO - Roland Topor

La malerba del vicino

Titolo: L'inquilino del terzo piano
Autore: Roland Topor
Editore: Bompiani
Anno: 2004
Pagine: 159
Genere: Romanzo
Traduzione: Giovanni Gandini

Partiamo dalle origini. È necessario chiarire come non ci si trovi di fronte alle solite beghe condominiali per infiltrazioni provenienti dal lastrico solare o alla pressante questione dell’esatta determinazione dei millesimi “all’uopo necessaria per la ripartizione delle spese per il cancello condominiale” come si legge nei tanto detestati verbali d’assemblea. Niente di tutto questo.
Il titolo dell’opera, in originale, è “Le locataire Chimérique” divenuto, in italiano, prima “L’inquilino stregato” e, infine, l’anonimo quanto insipido, “L’inquilino del terzo piano” . Insomma, i soliti limiti delle traduzioni. Andiamo oltre, oggi non sono in vena di polemiche.
Continuo, pertanto, per parlarvi di questo bellissimo romanzo. Un romanzo un po’ stregato, un po’ surreale, un po’ angosciante che mi ha dato quasi l’illusione di precipitare all’interno di un’agghiacciante spirale. E, in qualche modo, vi ho trovato le atmosfere di altri autori da me amati, come Kafka e, soprattutto, Buzzati.
Un romanzo quasi onirico, nel quale nulla è scontato, dove tutto può essere perfettamente reale o perfettamente allucinato o visionario. Una carrellata di Immagini che si riflettono, si distorcono e frantumano in una fittizia casa di specchi. Riflettendosi, si moltiplicano all’infinito fino a rendere ardua l’individuazione dell’immagine prima. Impossibile, anche ad un abile cercatore, reperirla in quell’ingorgo di riflessi.
Un libro che pare una pittura di Topor della quale possiede, indubbiamente, i colori. Ma anche uno specchio frantumato. Un libro costruito a “spire, O Voi Letterati e Critici passatemi il termine, che si restringono, lentamente, in arie cupe e surreali prive di una omologata ripartizione dei confini della lucidità e della follia. Lucidità e follia danzano sinuosamente in questo condominio tetro, sfumato e incongruo come i sogni stessi.
Il protagonista è un normale impiegato, Trelkovsky.
Sfrattato, su consiglio di un amico trova un nuovo appartamento precedentemente affittato alla misteriosa Simonetta Choule la quale, nel momento in cui lui conclude il contratto d’affitto, si trova in fin di vita all’ospedale per un tentativo di suicidio. A quanto pare, Simonetta si è lanciata nel vuoto dalla finestra della sua casa. Quella stessa finestra alla quale il nostro Trelkovsky si affaccerà spesso.
Per Trelkovsky, inizialmente, quell’appartamento appare come un segno divino. E’ ancora ignaro del fatto che dio non sia cosi buono e generoso. Dio o chi per lui.
Il protagonista, persona discreta ed educata, vivrà circondato da vicini che lo accuseranno, spesso e volentieri, di fare troppo baccano. Questi onnipresenti condomini, più simili a ombre che a uomini, diverranno la sua ossessione. Egli farà di tutto per evitare le loro lamentele: rinuncerà alle visite degli amici, alle visite delle donne fino a rinunciare alla sua vita, alla sua identità. Identità che nel corso degli eventi, mai troppo chiari, subisce delle lente trasformazioni. Flemmatiche e impercettibili, paragonabili allo stillicidio del rubinetto che, nelle sue tetre fantasticherie, Trelkovsky sente all’interno del suo appartamento (o forse no?).
E nel momento in cui i ladri si introducono nel suo appartamento ripulendoglielo, capisce. L’illuminazione! Lui è al centro di un complotto, illogico sembrerebbe, ordito dai suo vicini. Dalle riflessioni contorte e toccanti di Trelkovsky emerge come Simonetta Choule non si sia suicidata, ma sia stata indotta a farlo dagli inquilini i quali vorrebbero ripetere l’esperienza con lui. Così pare, ma ciò che sembra non sempre è ciò che è reale. Ciò che è sicuro è che il protagonista sarà assorbito in un tragico gorgo nel quale non vi sono vie d’uscita, né principali, né d’emergenza. Fino all’epilogo che, in qualche modo, chiarirà l’enigma, ma non lo farà in modo netto. Rimarranno dubbi e domande irrisolte.
La domanda fondamentale è: chi è davvero Trelkovsky? È uno o duplice? Se è uno, è folle, visionario soggetto ad allucinazioni o sono, invece, i vicini che, con magistrale sadismo, lo conducono in quel baratro? O, invece, egli è l’emblema della frammentazione dell’io?Egli rappresenta, contemporaneamente, ciò che concretamente è visibile e anche quella parte che si trova sempre al di là della normale percezione, ossia la parte sconosciuta di ognuno di noi? E’ l’inconscio che si libera da rigide catene e si vendica, crudelmente, di una lunga prigionia?Roland Topor (1938-1997) è un artista poliedrico dedicatosi alla scrittura, al disegno, alla scultura, al teatro e alla sceneggiatura. Ha collaborato a numerose riviste. È il fondatore, con Jodorowsky e Arrabal del movimento surrealista cd. Panico che prende il nome dal dio Pan, appunto un dio senza forma che provoca il terrore e il riso. Topor ha scritto anche “Alice nel paese delle lettere” ed. Nuovi Equilibri, “I seni più belli del mondo” Feltrinelli.
Segnalo il film “L’inquilino del terzo piano” diretto da Roman Polansky tratto, appunto, al romanzo.
Dedico queste parole belle o brutte che siano, a chi si ostina a portare i rasta a 40 anni incurante di tutto, a chi combatte la medicina tradizionale e ti ammorba con le sue battaglie anti-cortisone, a chi non vuole essere eccentrico a tutti i costi semplicemente perché è nato eccentrico.

P.s. Ogni riferimento a C. Z. Jodorowskyano convinto, mio caro Amico squilibrato, è puramente NON casuale.

Altri libri: 
Finzioni, Jorge Luis Borges
Il ladro del silenzio, Rawi Hage
Quello che è successo a Joana, Valério Romão

venerdì 8 novembre 2013

IL PRINCIPIO DEL DOLORE - Adam Haslett


Titolo: Il principio del dolore
Autore: Adam Haslett
Editore: Einaudi
Anno: 20016
Genere: Racconti
Pagine: 222
Traduzione: Giovanna Granato


Era nello scaffale della piccola biblioteca, incastrato tra i romanzi di Stephen King e quelli di Tom Clancy, Non so perché, ma ho subito pensato che fosse un libro diverso, finito lì, in quel ripiano, per errore. E spiccava. L'ho preso e la sua copertina quasi sfumata e il titolo mi hanno, immediatamente, indotto a prenderlo. Così, a pelle, sentivo che poteva essere un libro "giusto". A lettura ultimata, non posso che confermare quelle sensazioni da quinto senso e mezzo dylandoghiane che, solo ogni tanto, portano nella giusta direzione. A seguire, di conseguenza, il mio incanto di fronte a una scrittura ammaliante e pulita.
Fratello e sorella, ormai avanti con gli anni, apparecchiano elegantemente la tavola per l’arrivo di un ospite atteso da anni. Il tempo non ha affievolito quell’attesa che pare destinata a perpetuarsi in eterno. Altrove, in una casa lontana dal mondo, un medico ascolta la storia di una donna la cui mano è stata privata di quattro dita. Un ragazzo, ormai orfano, ansiosamente attende il suo amante e carnefice tra quelle quattro mura che non permettono più di distinguere l’amore dalla violenza...Nell'anno 2004 esce Il principio del dolore opera prima, finalista al Premio Pulitzer, dell’allora trentenne Adam Haslett che, in qualche modo, segnerà la sua fortuna letteraria.
L’opera consta di nove racconti. Storie di vuoti esistenziali, di attese, di dolore quel dolore a cui è negata ogni possibilità di cura. Perché è vero che a tutto c’è un rimedio, ma non a quel dolore marchiato a fuoco su quelle anime incolpevoli, impotenti, fragili e prive di appigli. Con uno stile asciutto, privo di fronzoli o superflue edulcorazioni, Haslett scandaglia, con estrema abilità, l’animo umano affrontando temi forti e soffermandosi, in particolare, sulla malattia mentale: gabbia per chi ne è affetto ma, spesso e soprattutto, per coloro che stanno vicini, figli o genitori che siano, a chi ne è portatore. E in quel covo d’amore prolifera l’incapacità di mutare le cose, di migliorarle, perché quel covo d’amore, quasi paradossalmente, diviene fonte di altro dolore che si trascina in spirali sempre più ampie e proiettate all’infinito. Una lettura che lascia un sapore decisamente acre poiché il peggio che il lettore si aspetta, pagina dopo pagina, sarà sempre superato da un peggio che andrà sempre al di là di ogni previsione già di per sé non rosea. Perché nessun limite è posto alla cattiveria della vita. O voi che leggete, abbandonate ogni speranza, la vita è cruda, dura, irta di ostacoli ma soprattutto è crudele. Ed è crudele a caso, sia con i buoni sia con i malvagi. Non basta e non serve pregare, non basta e non serve sperare.
E se, tendenzialmente, in ogni storia crudele c’è almeno un piccolo, piccolissimo, embrione di salvezza, almeno un abbozzo di felicità, un piccolo frammento di speranza, be’ non è sicuramente questo il caso.
E se in ogni storia che tratta di dolore c’è quasi sempre, velato o spudoratamente palese, un po’ di patetismo be’ non è, ancora una volta , questo il caso. Haslett, con le sue parole, lo sveste quel dolore per mostrarcelo nella sua più vera nudità.