lunedì 10 marzo 2014

IL MALINTESO - Irène Némirovsky

STRUGGERSI D'AMORE

Titolo: Il malinteso
Autore: Irene Némirowsky
Editore: Adelphi
Anno: 2010
Genere. Romanzo
Traduttore: Marina Di Leo
Pagine:  190


Ci sono autori 'intoccabili' e se osi parlarne male si scatena il putiferio. Infatti, con questo mia recensione il putiferio si scatenò. Ne sono uscita viva per miracolo. Ma ce l'ho fatta. D'altronde se l'autrice non mi smuove qualcosa dentro che posso farci? E dico questo dopo aver letto altri suoi romanzi. Fucilatemi pure.


Primi del Novecento. Yves Harteloup, classe 1890, è un nuovo povero. L’eredità scarna di suo padre lo ha costretto, ahilui, a trovarsi un impiego e a condurre una vita  parsimoniosa. L’unico lusso che può concedersi è quello di godersi alcune settimane di vacanza presso le spiagge di Hendaye. Luogo a lui molto caro poiché che da bambino vi trascorreva l’estate. Ma quelli erano altri tempi. Tempi nei quali esistevano persone che potevano permettersi di non fare nulla. I bei tempi dell’assenza di preoccupazioni. È durante le sue vacanze che una bimba, Francette, gli lancia pugni di sabbia in viso. Adorabile Francette! Figlia della bella Denise. Complice il sole tra i tamerici o i pugni di sabbia, tra Yves e Denise scocca la scintilla dell’amore. Finite le romantiche vacanze torneranno a Parigi. Continueranno a vedersi. Ma ripiombato nella sua realtà, Yves dovrà fare i conti con la sua vita e con i pochi mezzi a disposizione. Denise si strugge d’amore. E piange, piange, piange. Tves si scontra con la necessità di pagare i debiti e arrivare a fine mese. E mentre Denise continua a pretendere un amore rigorosamente “in smoking” Yves si impegna a trovare soluzioni…


Apparso in rivista nel 1926, Il malinteso è il primo romanzo della allora ventitreenne Irène Némirovsky. Si intravede uno stile ancora immaturo che troverà pieno compimento negli scritti successivi, che consacreranno la scrittrice al grande pubblico. Una storia semplice, struggente, fatta di attese. Di parole non dette, di “ti amo” mancanti. Mancanti, almeno da parte di Yves. Di amore egoista. Interessanti gli spunti contenuti in questo romanzo che, purtroppo, non sono stati approfonditi: interessante vedere, anzi solo intravedere, la nuova realtà sociale caratterizzata dall’emergere di nuove classi sociali. Interessante il nuovo concetto di lavoro, quel concetto comune a tutti noi mortali. Certo, temi interessanti. Peccato che in questo romanzo siano stati solo accennati e, poi, crudelmente soffocati per lasciare spazio ad uno scenario melodrammatico nel quale si muovono i protagonisti. Il tutto si perde nelle lacrime, spesso inutili, di Denise e nell’abbondanza quasi ossessiva di aggettivi che appesantiscono il percorso di lettura. Rosa che più rosa non si può. Certo, però, la Némirovsky non è una sconosciuta. È amatissima dal grande pubblico. Pertanto è quasi d’obbligo “salvare” il suo primo romanzo e farlo salire, in qualche modo, su un piedistallo perché si sta parlando di lei. Nella nota finale, Olivier Philipponnat ha quasi l’impressione che nel “cielo d’agosto” di Hendaye scoppierà, esattamente come una bomba, il patto di non aggressione tra la Russia e la Germania, che farà venir meno le speranze della scrittrice di ottenere la cittadinanza francese. Pura fantasia, ovviamente visto che il romanzo è di qualche anno – solo quindici - prima di quel famoso patto. Certo, sarebbe stato bello questo riferimento! Bello, ma impossibile.  O “pura illusione” come lo definisce lo stesso Philipponnat. Insomma, forse ne Il malinteso non ci sono tutti 

quei richiami a una realtà politica o storica, né c’è una critica a quella società fittizia fatta di belle parole e di amori da manuale come vogliono farci credere gli estimatori della scrittrice. Perlomeno, non è così scontato trovarci tutti questi significati e questi sottotesti. Prendiamolo piuttosto per quello che è: un romanzo d’amore. Ma scritto, e il nome conta, dalla Némirovsky. Niente più di questo. Un peccato di gioventù, forse. 

lunedì 24 febbraio 2014

IL GIORNO DELLA TARTARUGA - Pier Bruno Cosso

UN TEMPO FU UN ANIMALE CHE CORREVA A TESTA IN GIÙ
Titolo: Il giorno della tartaruga
Autore: Pier Bruno Cosso
Editore: Parallelo 45
Pagine: 170





Ci sono libri che arrivano nel nostro comodino a seguito di una scelta, di  un martellante "Lo voglio, lo voglio, lo voglio" che si ha bisogno di far tacere., quasi come un amore che dev'essere consumato. Poi, ci sono libri che giungono a noi per caso o per una lunga serie di coincidenze, come questo, appunto.
Il giorno della tartaruga , primo romanzo dello scrittore sassarese, edito da Parallelo 45, sempre per quella lunga serie di coincidenze, ci si può trovare a presentarlo in libreria. Insomma, tutto può accadere come, del resto, il romanzo ci insegna.  Può infatti succedere che, un giorno qualunque del 2010, Lucio Zucca, protagonista di questa insolita storia, esca la mattina presto sbattendo la porta dopo l'ennesimo litigio con la moglie. Sale sulla sua Golf e percorre la strada ben nota che da Sassari lo condurrà a Benetutti. Poi, tutto si ferma o, meglio, si ribalta esattamente come quella tartaruga che, casualmente, incontra in strada. A partire da quel momento  la vita di Lucio torna indietro di 25 anni e si troverà catapultato nel 1985. Già, gli anni di Madonna, dei Duran Duran e di tante altre belle ed esagerate cose che io ho conosciuto bene immersa com'ero nel blu elettrico e nel rosa shocking. Certo tornare indietro nel tempo è quantomeno destabilizzante. O forse no? Forse perché, per dirla proustianamente, in quel tempo perduto e/o ritrovato  il nostro Lucio, incontra la bella Asia che gli contagia il morbo della vita che lui, indurito dal cinismo,  pare abbia abbandonato? Forse in "quell'adesso" può fare delle scelte, può dire cose che non ha detto per timore, per quel continuo rimandare che appartiene un po' a tutti noi. Forse quel 1985 è salvifico e regala un'opportunità?
Con una scrittura pulita, priva di fronzoli, Cosso ci regala una storia nella quale grazie alla fusione tra reale e surreale la dimensione quasi onirica non la si vorrebbe abbandonare: è lì in quel mondo sospeso che avrei voluto restare, forse perché lì mi sembrava tutto possibile. È anche un libro che regala speranza, a modo suo, ma lo fa. Infatti, in un mondo come quello di Lucio, che credo sia anche il nostro, dominato da avidità, menzogna, dove gli avvoltoi nascono e si moltiplicano si riesce -comunque- a trovare un piccolo spazio per la purezza, un punto fermo cui aggrapparsi per "ripulirsi" in una prospettiva di rinascita. E se il cinismo, l'avidità, il vuoto di esistenze permeano la storia, non mancano anche momenti di profonda tenerezza che, ancora una volta sono salvifici. Uno tra tutti l'incontro tra Lucio e  il padre, il padre di 25 anni prima avvolto nel suo "cardigan amaranto" fatto dalle mani di chi lo amava.
Credo che il romanzo, alla fin fine, possa essere interpretato anche come un invito: un invito a cogliere i momenti che, spesso, lasciamo correr via credendo di poterli recuperare il giorno dopo o quello dopo ancora; ancora, un invito a lasciarsi andare perché non viviamo solo di doveri, ma anche di sogni e di desideri. Forse, anche l'invito a non attendere grossi capovolgimenti per cambiare le cose. Forse tutte queste cose insieme.

Altri libri:
Pierre, Nello Rubattu

mercoledì 15 gennaio 2014

IL LADRO DEL SILENZIO - Rawi Hage

Senza speranza

Titolo: Il ladro del silenzio
Autore: Rawi Hage
Editore: Garzanti
Anno: 2011
Genere: Romanzo
Pagine: 350
Traduzione: Serena Lauzi

Perché la vita, spesso, è angoscia. Angoscia che si nutre di se stessa, che ci consuma e non ci regala nient'altro: né speranza, né sogni.

Siamo in Canada. A Montréal. Lui, inquieto, si aggira per le strade di quella gelida e innevata città. Lui ama Shohreh, anche se non si fida dei suoi sentimenti. Certo, le donne gli provocano sensazioni talmente forti da causare nel suo corpo anomale metamorfosi: basta infatti una caviglia femminile perché i suoi denti divengano aguzzi e la schiena si ingobbisca. Basta così poco. Per fortuna, forse, c’è la terapista con la quale parlare. Con la quale poter confessare finanche che, da bambino, lui è stato un insetto. Sì, per l’esattezza, uno scarafaggio. E gli scarafaggi, in effetti, sono gli inquilini abituali del suo appartamento i quali, indisturbati, girovagano tra stoviglie ammucchiate sul lavello e maleodoranti. I soldi stanno finendo, lo stomaco inizia a lamentarsi: è necessario trovare, al più presto, un lavoro. Ma prima è forse meglio andare a cercare, tra le gelide strade canadesi, Reza, il musicista iraniano-gran bastardo, che gli deve restituire ancora i suoi quaranta dollari. Certo, nella sua terra, il Libano, era tutto diverso. Certo, in Libano c’era la sua adorata sorella…
Dopo il grande successo di critica e i numerosi premi vinti con il suo primo romanzo Come la rabbia al vento, Rawi Hage, scrittore libanese, ora emigrato in America, ci offre con Il ladro del silenzio un romanzo forte, duro, velenoso. Tutto incentrato sulla figura di un gruppo di emigrati mediorientali in Canada, nel gelido Canada. Forse troppo freddo per il loro sangue. È un romanzo nel quale tutto pare sfaldarsi, a iniziare da quei miseri appartamenti che ricordano, in qualche modo, gli ambienti bukowskiani dei tempi peggiori, quelli in cui, per usare le sue stesse parole, “Ognuno di noi ha i suoi inferni, si sa. Ma io ero in testa, di tre lunghezze sugli inseguitori”. Si sfaldano i sogni, le speranze, la vita e le vite. Poi, riaffiora il passato e con esso i dolori e pubblici e privati. Le parole di Hage sono terribili  in quanto non lasciano spazio alla speranza -  se non, forse, nella storia d’amore -  perché anch’essa è troppo umana e tutto ciò che è umano pare non possa far parte, se non a costo di forzature, di quest’opera. Insomma, Hage ci regala una storia che lascia nel lettore una sorta di angoscia e a ciò, indubbiamente, contribuisce, e non in misura marginale, lo stile che, in molti punti della narrazione, tende ad essere decisamente lento e prolisso quasi a voler amplificare quel già drastico quadro, tutto e solo umano, di degrado e di sofferenza. 

Altri libri:
Bastardo posto, Remo Bassini
Girl gang, Ashley Little

giovedì 21 novembre 2013

L'INQUILINO DEL TERZO PIANO - Roland Topor

La malerba del vicino

Titolo: L'inquilino del terzo piano
Autore: Roland Topor
Editore: Bompiani
Anno: 2004
Pagine: 159
Genere: Romanzo
Traduzione: Giovanni Gandini

Partiamo dalle origini. È necessario chiarire come non ci si trovi di fronte alle solite beghe condominiali per infiltrazioni provenienti dal lastrico solare o alla pressante questione dell’esatta determinazione dei millesimi “all’uopo necessaria per la ripartizione delle spese per il cancello condominiale” come si legge nei tanto detestati verbali d’assemblea. Niente di tutto questo.
Il titolo dell’opera, in originale, è “Le locataire Chimérique” divenuto, in italiano, prima “L’inquilino stregato” e, infine, l’anonimo quanto insipido, “L’inquilino del terzo piano” . Insomma, i soliti limiti delle traduzioni. Andiamo oltre, oggi non sono in vena di polemiche.
Continuo, pertanto, per parlarvi di questo bellissimo romanzo. Un romanzo un po’ stregato, un po’ surreale, un po’ angosciante che mi ha dato quasi l’illusione di precipitare all’interno di un’agghiacciante spirale. E, in qualche modo, vi ho trovato le atmosfere di altri autori da me amati, come Kafka e, soprattutto, Buzzati.
Un romanzo quasi onirico, nel quale nulla è scontato, dove tutto può essere perfettamente reale o perfettamente allucinato o visionario. Una carrellata di Immagini che si riflettono, si distorcono e frantumano in una fittizia casa di specchi. Riflettendosi, si moltiplicano all’infinito fino a rendere ardua l’individuazione dell’immagine prima. Impossibile, anche ad un abile cercatore, reperirla in quell’ingorgo di riflessi.
Un libro che pare una pittura di Topor della quale possiede, indubbiamente, i colori. Ma anche uno specchio frantumato. Un libro costruito a “spire, O Voi Letterati e Critici passatemi il termine, che si restringono, lentamente, in arie cupe e surreali prive di una omologata ripartizione dei confini della lucidità e della follia. Lucidità e follia danzano sinuosamente in questo condominio tetro, sfumato e incongruo come i sogni stessi.
Il protagonista è un normale impiegato, Trelkovsky.
Sfrattato, su consiglio di un amico trova un nuovo appartamento precedentemente affittato alla misteriosa Simonetta Choule la quale, nel momento in cui lui conclude il contratto d’affitto, si trova in fin di vita all’ospedale per un tentativo di suicidio. A quanto pare, Simonetta si è lanciata nel vuoto dalla finestra della sua casa. Quella stessa finestra alla quale il nostro Trelkovsky si affaccerà spesso.
Per Trelkovsky, inizialmente, quell’appartamento appare come un segno divino. E’ ancora ignaro del fatto che dio non sia cosi buono e generoso. Dio o chi per lui.
Il protagonista, persona discreta ed educata, vivrà circondato da vicini che lo accuseranno, spesso e volentieri, di fare troppo baccano. Questi onnipresenti condomini, più simili a ombre che a uomini, diverranno la sua ossessione. Egli farà di tutto per evitare le loro lamentele: rinuncerà alle visite degli amici, alle visite delle donne fino a rinunciare alla sua vita, alla sua identità. Identità che nel corso degli eventi, mai troppo chiari, subisce delle lente trasformazioni. Flemmatiche e impercettibili, paragonabili allo stillicidio del rubinetto che, nelle sue tetre fantasticherie, Trelkovsky sente all’interno del suo appartamento (o forse no?).
E nel momento in cui i ladri si introducono nel suo appartamento ripulendoglielo, capisce. L’illuminazione! Lui è al centro di un complotto, illogico sembrerebbe, ordito dai suo vicini. Dalle riflessioni contorte e toccanti di Trelkovsky emerge come Simonetta Choule non si sia suicidata, ma sia stata indotta a farlo dagli inquilini i quali vorrebbero ripetere l’esperienza con lui. Così pare, ma ciò che sembra non sempre è ciò che è reale. Ciò che è sicuro è che il protagonista sarà assorbito in un tragico gorgo nel quale non vi sono vie d’uscita, né principali, né d’emergenza. Fino all’epilogo che, in qualche modo, chiarirà l’enigma, ma non lo farà in modo netto. Rimarranno dubbi e domande irrisolte.
La domanda fondamentale è: chi è davvero Trelkovsky? È uno o duplice? Se è uno, è folle, visionario soggetto ad allucinazioni o sono, invece, i vicini che, con magistrale sadismo, lo conducono in quel baratro? O, invece, egli è l’emblema della frammentazione dell’io?Egli rappresenta, contemporaneamente, ciò che concretamente è visibile e anche quella parte che si trova sempre al di là della normale percezione, ossia la parte sconosciuta di ognuno di noi? E’ l’inconscio che si libera da rigide catene e si vendica, crudelmente, di una lunga prigionia?Roland Topor (1938-1997) è un artista poliedrico dedicatosi alla scrittura, al disegno, alla scultura, al teatro e alla sceneggiatura. Ha collaborato a numerose riviste. È il fondatore, con Jodorowsky e Arrabal del movimento surrealista cd. Panico che prende il nome dal dio Pan, appunto un dio senza forma che provoca il terrore e il riso. Topor ha scritto anche “Alice nel paese delle lettere” ed. Nuovi Equilibri, “I seni più belli del mondo” Feltrinelli.
Segnalo il film “L’inquilino del terzo piano” diretto da Roman Polansky tratto, appunto, al romanzo.
Dedico queste parole belle o brutte che siano, a chi si ostina a portare i rasta a 40 anni incurante di tutto, a chi combatte la medicina tradizionale e ti ammorba con le sue battaglie anti-cortisone, a chi non vuole essere eccentrico a tutti i costi semplicemente perché è nato eccentrico.

P.s. Ogni riferimento a C. Z. Jodorowskyano convinto, mio caro Amico squilibrato, è puramente NON casuale.

Altri libri: 
Finzioni, Jorge Luis Borges
Il ladro del silenzio, Rawi Hage
Quello che è successo a Joana, Valério Romão

venerdì 8 novembre 2013

IL PRINCIPIO DEL DOLORE - Adam Haslett


Titolo: Il principio del dolore
Autore: Adam Haslett
Editore: Einaudi
Anno: 20016
Genere: Racconti
Pagine: 222
Traduzione: Giovanna Granato


Era nello scaffale della piccola biblioteca, incastrato tra i romanzi di Stephen King e quelli di Tom Clancy, Non so perché, ma ho subito pensato che fosse un libro diverso, finito lì, in quel ripiano, per errore. E spiccava. L'ho preso e la sua copertina quasi sfumata e il titolo mi hanno, immediatamente, indotto a prenderlo. Così, a pelle, sentivo che poteva essere un libro "giusto". A lettura ultimata, non posso che confermare quelle sensazioni da quinto senso e mezzo dylandoghiane che, solo ogni tanto, portano nella giusta direzione. A seguire, di conseguenza, il mio incanto di fronte a una scrittura ammaliante e pulita.
Fratello e sorella, ormai avanti con gli anni, apparecchiano elegantemente la tavola per l’arrivo di un ospite atteso da anni. Il tempo non ha affievolito quell’attesa che pare destinata a perpetuarsi in eterno. Altrove, in una casa lontana dal mondo, un medico ascolta la storia di una donna la cui mano è stata privata di quattro dita. Un ragazzo, ormai orfano, ansiosamente attende il suo amante e carnefice tra quelle quattro mura che non permettono più di distinguere l’amore dalla violenza...Nell'anno 2004 esce Il principio del dolore opera prima, finalista al Premio Pulitzer, dell’allora trentenne Adam Haslett che, in qualche modo, segnerà la sua fortuna letteraria.
L’opera consta di nove racconti. Storie di vuoti esistenziali, di attese, di dolore quel dolore a cui è negata ogni possibilità di cura. Perché è vero che a tutto c’è un rimedio, ma non a quel dolore marchiato a fuoco su quelle anime incolpevoli, impotenti, fragili e prive di appigli. Con uno stile asciutto, privo di fronzoli o superflue edulcorazioni, Haslett scandaglia, con estrema abilità, l’animo umano affrontando temi forti e soffermandosi, in particolare, sulla malattia mentale: gabbia per chi ne è affetto ma, spesso e soprattutto, per coloro che stanno vicini, figli o genitori che siano, a chi ne è portatore. E in quel covo d’amore prolifera l’incapacità di mutare le cose, di migliorarle, perché quel covo d’amore, quasi paradossalmente, diviene fonte di altro dolore che si trascina in spirali sempre più ampie e proiettate all’infinito. Una lettura che lascia un sapore decisamente acre poiché il peggio che il lettore si aspetta, pagina dopo pagina, sarà sempre superato da un peggio che andrà sempre al di là di ogni previsione già di per sé non rosea. Perché nessun limite è posto alla cattiveria della vita. O voi che leggete, abbandonate ogni speranza, la vita è cruda, dura, irta di ostacoli ma soprattutto è crudele. Ed è crudele a caso, sia con i buoni sia con i malvagi. Non basta e non serve pregare, non basta e non serve sperare.
E se, tendenzialmente, in ogni storia crudele c’è almeno un piccolo, piccolissimo, embrione di salvezza, almeno un abbozzo di felicità, un piccolo frammento di speranza, be’ non è sicuramente questo il caso.
E se in ogni storia che tratta di dolore c’è quasi sempre, velato o spudoratamente palese, un po’ di patetismo be’ non è, ancora una volta , questo il caso. Haslett, con le sue parole, lo sveste quel dolore per mostrarcelo nella sua più vera nudità.

giovedì 31 ottobre 2013

LA MARCIA DI RADETZKY - Joseph Roth

Basta trottare, signor Trotta
Titolo: La marcia di Radetzky
Autore: Joseph Roth
Editore: Adelphi
Anno: 1996
Pagine: 424
Genere: Romanzo
Traduzione: Laura Terreni, Luciano Foà


Bellissimo romanzo all'aroma di decadenza e accompagnato, con cadenze regolari, dalla marcia che dona il titolo all'opera.
Una decrizione dettagliata e malinconica della fine dell'Impero asburgico.
Roth insegna come si possa parlare di storia, senza ricorrere ad una didascalica narrazione di eventi, ma semplicemte attraverso la compiuta analisi della psicologia dei personaggi.
La storia siamo noi, disse qualcuno e le nostre illusioni e delusioni aggiungo io.
Tutto ruota intorno alla figura, destinata a comparire nei libri di lettura delle scuole dei giovani austriaci, del caro signor Trotta eroe di Solferino.
Non un eroe qualunque, ma colui che salvò, in tale battaglia, la vita all'imperatore. E il valore di tale gesto è destinato ad aumentare esponenzialmente poichè non stiamo parlando di un normale imperatore, ma di quell'Imperatore il cui potere deriva direttamente da Dio!
Un onore incommensurabile per suo figlio Franz e per suo nipote, Joseph Carl.
Ma come ogni onore che si rispetti c'è anche il peso di quel tributo. D'altronde il distintivo dell'Ordine di Maria Teresa pesa.
Già. Quel nonno, coccolato dall'imperatore, quel nonno eroe, quel nonno finito sui libri di storia (con una versione dei fatti peraltro modificata "a fini prettamente didattici) costituirà sempre per Carl la pietra di paragone e il parametro per misurare la sua inettitudine a fronte di cotanto uomo che ricevette, in una botta sola, la medaglia e il titolo nobiliare.
Roth delinea in modo magistrale ques'epoca di transizione nella quale si assiste al mutare degli equilibri socio-politici, al mutare dei valori, delle idee e al nascere di termini totalmente nuovi come "rivoluzione", come "sciopero". Addirittura, si scopre l'esistenza di nuove nazioni, grandissima scoperta per chi, come Trotta, aveva sempre creduto che il mondo e tutto il mondo fosse solo l'Austria protetta dalla mano di Dio.
E c'è in Franz Trotta la cieca ostinazione a non voler vedere questo mutamento e continua donchischiottescamente, a crogliolarsi nel suo mondo, straiandosi nella bambagia di ricordi che, in qualche modo, lo proteggono. Senza quasi mai temere di essere anacronistico.
Perché lui è figlio dell'eroe di Solferino, perché lui omette la parola rivoluzione dagli atti pubblici come se fosse un obbrobrio grammaticale, perché l'Imperatore si ricorda dei Trotta!!! E non vede che quell'Imperatore, ormai vecchio, è preoccupato solo di asciugarsi le goccioline d'acqua che cadono dal suo naso e vanno a confondersi nel bianco candido dei suoi baffi.
E, nel frattempo, suo figlio Carl Joseph, il sottotenente in tempo di pace, trascorre il suo tempo con le belle donne, dilapida il patrimonio nel gioco d'azzardo, chiede ripetutamente prestiti.
Rischia l'espulsione dall'esercito (che per lui non sarebbe tanto male), ma non sia mai! Il nipote dell'eroe di Solferino.
Bisogna, fino alla fine, salvare l'onore dei Trotta e con esso il buon nome della patria di quella patria che esiste nell'album dei ricordi ormai scoloriti del sottoprefetto. Insomma loro sono i Trotta!
Loro e l'imperatore son quasi una cosa unica. L'imperatore, infatti, li salverà anche stavolta causa il famoso debito di vita contratto nei campi insanguinati di Solferino.
Certo salverà Carl dall'ingnominia, anche se oramai, vecchio ammuffito con sulla pelle lo stesso colore del tramonto del suo impero, ha qualche confusione...confonde l'eroe di Solferino con il sottoprefetto e poi con il sottotenente. Ma che importa? Son passati tanti anni e oramai lui è vecchio. Lui è la storia, la geografia, lui è la vita: è Dio.
Roth ci offre una pregnante analisi psicologica di personaggi pieni di amarezza, di delusione forse la stessa provata dall'autore per la caduta dell'Impero. Caduta che non determinò soltanto un mutamento meramente giuridico-costituzionale ma stravolse il suo mondo con i tutti i valori nei quali fermamente credeva e ai quali si aggrappava come un naufrago ad una zattera.

Altri libri:
La signorina Else, Arthur Schnitlzer

mercoledì 10 luglio 2013

LE HO MAI RACCONTATO DEL VENTO DEL NORD - Daniel Glattauer

 Per errore ti scrivo

Titolo: Le ho mai raccontato del vento del nord
Autore: Daniel Glattauer
Editore: Feltrinelli
Pagine: 192
Genere: Romanzo epistolare
Traduzione: Leonella Basiglini



Quel che segue non è una recensione, ma una lettera, giusto per non allontanarmi dallo spirito del romanzo. Una lettera a un'amica virtuale.

Titolo della lettera (in rima): Cara Farinola pensavo m'avessi lanciato una sola.

Cara Farinola, 
visto il titolo, ho pensato - almeno un po’ - che Le ho mai raccontato del vento del nord fosse una di quelle melense storie d’amore del tipo, per intenderci, “E lui la guardò negli occhi per arrivare alla sua anima, un brivido scosse tutto il suo corpo; la baciò con passione e così l’avrebbe baciata per il resto dei suoi giorni”. Ma anche la copertina con quella chioma svolazzante al vento – del nord, suppongo - non mi convinceva per niente. Già anche quella chioma mi faceva pensare a un “E vissero felici e contenti e si sposarono ed ebbero tre figli (uno più bello dell’altro, naturalmente) e alla veneranda età di centocinquant’anni si guardavano negli occhi come la prima volta”.
Per farla breve, come già ti ho spiegato, la mia mente si rifiutava categoricamente di acquistarlo perché con il romanzo rosa non ho un buon rapporto, anzi mi fanno proprio incazzare quegli amori che, solitamente, vi trovo descritti. E ti giuro che tutti ci hanno provato regalandomi vagonate di Sparks e similari. Certo, mia cara, tu non me l’hai regalato, l’hai solo consigliato. Potevo non tenere conto del consiglio, ma mi son detta: "Perché no?" E lettura fu. Mi sono immersa in questa raccolta di mail tra due perfetti sconosciuti che iniziano a scriversi per via di un errore. Lei è Emmi, lui Leo. Loro sono fiumi di parole sgorganti da gelide tastiere. Loro creano un mondo distante e diverso da quello normale. Un mondo isolato di cui, forse, avevano bisogno entrambi, Un mondo al quale si aggrappano nonostante la mancanza di appigli solidi in uno schermo di un pc. Un romanzo epistolare moderno che, mail dopo mail, mi ha incuriosito e rapito facendo sperare, talora, che quell’amore non rimanesse solo nei confini di quelle mail e talora, al contrario, che rimanesse puro e non consumato. Poi, tutto può accadere, come di fatto accade. E ho pensato che di questo, solo di questo, spesso si ha bisogno: di parole. A patto che qualcuno le legga. A patto che qualcuno ci risponda. Per non sentirci soli, forse. Per non sentirci aridi, forse.
Ora concludo con codesta epistola ringraziandoti, amica virtuale, per il tuo consiglio visto che mi ha regalato qualche ora piacevole di bella scrittura senza, però, farmi sguazzare nel miele.

Altri libri:
L'amore necessario, Nadia Fusini
Per lettera, Iselin C. Hermann