Eravamo tanto belli
Titolo: Jack & Alice
Autore: Jane Austen
Editore: Donzelli
Traduzione: Bianca Lazzaro
Pagine: 80
Genere: Romanzo
Scritto a 15 anni Jack & Alice è una favola cattiva,
amara e divertente. Un’opera immatura ancora, non perfetta, ma gradevole.
Pamydiddle, il gioviale Mister Johnson ha una voglia matta di deliziarsi:
per festeggiare il suo cinquantacinquesimo compleanno organizzerà, con
congruo anticipo, una festa in maschera alla quale saranno invitati tutti gli
amici e i familiari - ben pochi per la verità. Il giorno tanto atteso arriva, e
in quella sfilata di Domini e Sultane appare con il suo soprabito verde il bel
giovine Charles Adams, la cui maschera impersona il Sole. Certo che i suoi
occhi riescono comunque a dardeggiare raggi infinitamente più potenti di quelli
del luminoso astro. Egli è stato dotato da madre natura di bellezza sì
accecante al punto che nessuno può mirarlo in viso tranne, ovviamente, le
aquile. E la giovane Alice, tra un bicchiere di buon vino e l’altro, si
innamorerà perdutamente del signor Sonbellocomeilsole e anche di più. La
signorina si impegnerà per conquistare il cuore del suo innamorato, facendo
persino intercedere il suo caro genitore tramite corrispondenza epistolare.
Conquista difficile considerando che anche Lucy si innamora di Charles. Ma, a
quanto pare, Charles Adams ha altre mire…
Non sperate di trovarvi signorine Bennett o fascinosi mister Darcy. No, in Jack
& Alice c’è ben poco orgoglio e poco pregiudizio, molto sentimento –
per quanto effimero - e poca ragione. Le famose e ricercate signorine “a modo”
son ben poche in queste pagine. Una Jane Austen totalmente nuova dal punto di
vista narrativo e stilistico: ma per quanto lo stile sia ancora in itinere e
molto distante da quello che caratterizzerà le sue opere più famose, è indubbio
che la giovanissima Austen in questo romanzo breve dimostri la sua
straordinaria capacità di indagare a fondo nella psiche dei suoi personaggi e
di fornirci una disamina completa, e spesso satirica, dei meccanismi che
muovono gli ingranaggi di un data società. Una carrellata di ambigui
personaggi, simili a caricature, che paiono quasi anticipare in peius quelli
che saranno i protagonisti delle sue opere più riuscite. Un racconto che pare
quasi una favola. Una di quelle favole quasi fedriane solo che qui le virtù -
ben poche - e i vizi – molti, forse troppi - sono rappresentati da
esseri umani e non da animali. Vizi che, quasi a volerli evidenziare
maggiormente, sono indicati con lettere maiuscole. In effetti, anche le virtù sono
indicate con le lettere maiuscolo, ma non sono altrettanto convincenti.
Personaggi bizzarri, ipocriti, fondamentalmente vuoti, che affogano il tempo
nell’alcol e nel gioco d’azzardo. Questo è il magico regno della
superficialità, dei discorsi vacui, delle inutili tautologie decantate come se
fossero perle di saggezza o esperienze di vita di cui tener conto perché
presentate come insegnamenti di vita. Un libro divertentissimo, cattivo, una
presa in giro di usi e costumi di quella società apparentemente per bene, scritto
nel 1790 alla giovane età di quindici anni. Un racconto-favola che è uno
spasso, una storia da leggere e questa volta, anche, da guardare poiché la
narrazione è gradevolmente intervallata dai disegni di Andrea Joseph,
conterraneo della Austen, che firma con quest’opera il suo esordio letterario.
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