Autore:
Thomas Mann
Editore:
Newton & Compton
Traduzione: Francesca
Ricci
Anno: 1993
Pagine: 272
Lessi Altezza reale per la prima volta a 18
anni durante una vacanza al mare. Tante cose sono cambiate da allora. Per
esempio, ora non prendo più il sole, per dire. Però è, comunque, bellissimo
riprendere in mano vecchi libri per rileggerli con nuovi occhi e, magari,
scoprire che – a distanza di vent’anni e più – un libro amato possa rivelarsi
deludente: non è questo il caso. Mann si rivela, ancora una volta, un grande
autore in grado di leggere e descrivere un’epoca in caduta.
Per legge e
per tradizione i figli della coppia regnante devono nascere nella fortezza di
Grimmburg. Ai primi di giugno, esattamente il giorno dopo pentecoste,
sessantadue colpi di cannone annunciano un lieto evento: la granduchessa Dorothea
ha dato alla luce, per la seconda volta, luce un principe. Il padre del
piccolo, avvisato telegraficamente, si precipita alla fortezza per ammirare il
nuovo nato. Pare sano, soprattutto rispetto al primogenito da sempre di salute
cagionevole, tranne che per quella piccola mano rattrappita e i medici,
chiamati ad esaminarlo, affermano trattarsi di un’atrofia incurabile. Ma dopo
la prima reazione si comprende come ci si debba abituare a quella malformazione
e, d’altronde, una zingara profetizzò la salvezza del regno ad opera di un
sovrano con una mano sola…
Come nei Buddenbrook anche in questa opera del
1909 Mann affronta il tema della decadenza, questa volta di una dinastia di un
piccolo regno, scandita dal ritmo lento delle vicende nelle quali muove i suoi
passi e con la mano atrofica rigorosamente celata agli sguardi altrui, Klaus
Heinrich, secondogenito, ma destinato a svolgere le funzioni del fratello, il
granduca, sempre afflitto da problemi di salute. Il regno è sommerso dai
debiti, le manovre economiche si son rivelate insoddisfacenti e le sale di
rappresentanza magistralmente simboleggiano, con le loro tende scolorite e
divorate dalle tarme, un crescente degrado che, comunque, non impedisce lo
svolgersi delle cerimonie di rito perché cosi dev’essere. Klaus è amabile nella sua ingenuità, nella
sua voglia di scoprire il mondo pur soffocato dall’isolamento e i suoi sforzi
volti a mescolarsi col mondo esterno risultano vani e fagocitati da ciò che
rappresenta: non può essere diverso da ciò che deve essere. Più che un essere
umano è un simbolo. E quando si lascia andare spogliandosi dei suoi panni non
gli è consentito muoversi liberamente perché tutti “pur senza indovinarla”
sentono la sovranità. E se la prima parte del romanzo lascia presagire una
decadenza tout court ci si dovrà
ricredere nell’ultima dove Mann ha dato un cambio di rotta al racconto regalandoci
il dolce sapore di una favola.
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