Ristagni
Titolo: Lo stradone
Autore: Francesco Pecoraro
Editore: Ponte Alle Grazie
Anno: 2019
Genere: Romanzo
Pagine: 443
Città di Dio. L’uomo ha oramai settant’anni e abita, da circa vent’anni, al
settimo piano di una palazzina, lì nello Stradone dove “la città fa una pausa”.
In quel frammetto di città dove insiste lo Stradone ci sono entità umane
diacroniche, tutte estranee tra di loro: vecchi come lui che si incontrano al
bar, il Porcacci, a bere un caffè che è sempre cattivo, dove ci si scambiano
poche parole o, al contrario, dove si possono dire stronzate per ore perché li,
al Porcacci nessuno te se ‘ncula, ed
è proprio questo il bello, alla fine. Ma c’è anche il tifo per ‘a squadra che pare quasi unirli questi estranei perché
essa assurge a “ultimo ente simbolico” che dà un senso di appartenenza con quel
suo avere “tacitamente la precedenza su tutto e tutti”. La facciata del suo
palazzo è esposta a nord, non prende mai il sole. E da lì il suo occhio vigile
e sensibile vede tutto, soprattutto vede ciò di cosa sono capaci gli incapaci,
vede come l’inerzia dell’amministrazione, la stupidità di tecnici-architetti-urbanisti
incida negativamente su una porzione di citta, o meglio di non-città. O forse
non è esattamente così: forse è vero che la città che si costruisce è un
prodotto collettivo: “la città demmerda è un’incerta auto-celebrante messa in
figura della gente demmerda che ci abita e la costruisce”. Ma tant’è. L’uomo,
l’anziano, il fallito, sta bene e sta male nello Stradone, incasellato nella
categoria degli Inutili o, meglio, dei Dannosi. Il Sistema gli ha concesso una
pausa pre-morte (morte, non trapasso, non scomparsa) con una pensione calcolata
ai tempi della socialdemocrazia…
Francesco Pecoraro, poeta, scrittore e architetto, è tornato, quest’anno,
in libreria dopo un intervallo di sei anni dall’uscita del suo precedente
romanzo, La vita in tempo di pace, che gli valse numerosi encomi dalla critica.
Lo Stradone, in primis, è un’opera,
con le sue 400 pagine e oltre, che affascina anche per il suo essere ibrida,
non essendo facile inserirla univocamente in una precisa categoria: è un
romanzo, ma anche un saggio, anche un memoriale. Manca lo schema tipico del
romanzo, del “raccontare una storia” con tutti i tipici elementi che una storia
dovrebbe avere. La vera protagonista è, alla fine, una voce, senza nome: voce
che proviene da un anziano, con i capelli diradati, guance infossate, pelle
ingiallita, un anziano come altri, come tutti gli anziani del mondo. Voce che
incessantemente parla, di sé, dei suoi fallimenti, dei suoi sogni di accademico
infranti, del suo inserimento in un Ministero, del suo inserirsi, poi, nel
partito socialista, della corruzione, dell’arresto. Ma è anche una voce che parla
di quella porzione di città nella quale si fabbricavano i mattoni per la
creazione della città di Dio. E che parla dell’oggi, dei “jeans falso
consumati. Falso strappati.” E delle “birre falso-artigianali”. E noi,
incantati, seguiamo quelle parole che ci portano al degrado, al Ristagno, a
quel senso di non-appartenenza costante. E vediamo quei vecchi, nello Stradone,
con i loro terribili giubbotti multi-tasche, che consumano la loro pensione raschiando
gratta&vinci, vediamo la loro solitudine e sentiamo anche le voci dei
fornaciari, con il loro peso di mattoni da 36 kg, e er Partito e la sindacalizzazione e Lenin in Italia e l’edilizia
con la sua necessaria speculazione e le case dell’IACP. Tutto vediamo e
sentiamo. Un’opera nuova, originale quella creata da Pecoraro anche per l’uso
sapiente di registri narrativi differenti, per il passaggio, sempre senza
sbavature, da linguaggi prettamente letterari, elevati, poetici, aulici talora,
all’uso di linguaggi tecnici o all’uso del romanesco o, anche, alla trasformazione
di lemmi onde ricavarne neologismi.
Articolo già pubblicato su Mangialibri
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