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giovedì 21 novembre 2013

L'INQUILINO DEL TERZO PIANO - Roland Topor

La malerba del vicino

Titolo: L'inquilino del terzo piano
Autore: Roland Topor
Editore: Bompiani
Anno: 2004
Pagine: 159
Genere: Romanzo
Traduzione: Giovanni Gandini

Partiamo dalle origini. È necessario chiarire come non ci si trovi di fronte alle solite beghe condominiali per infiltrazioni provenienti dal lastrico solare o alla pressante questione dell’esatta determinazione dei millesimi “all’uopo necessaria per la ripartizione delle spese per il cancello condominiale” come si legge nei tanto detestati verbali d’assemblea. Niente di tutto questo.
Il titolo dell’opera, in originale, è “Le locataire Chimérique” divenuto, in italiano, prima “L’inquilino stregato” e, infine, l’anonimo quanto insipido, “L’inquilino del terzo piano” . Insomma, i soliti limiti delle traduzioni. Andiamo oltre, oggi non sono in vena di polemiche.
Continuo, pertanto, per parlarvi di questo bellissimo romanzo. Un romanzo un po’ stregato, un po’ surreale, un po’ angosciante che mi ha dato quasi l’illusione di precipitare all’interno di un’agghiacciante spirale. E, in qualche modo, vi ho trovato le atmosfere di altri autori da me amati, come Kafka e, soprattutto, Buzzati.
Un romanzo quasi onirico, nel quale nulla è scontato, dove tutto può essere perfettamente reale o perfettamente allucinato o visionario. Una carrellata di Immagini che si riflettono, si distorcono e frantumano in una fittizia casa di specchi. Riflettendosi, si moltiplicano all’infinito fino a rendere ardua l’individuazione dell’immagine prima. Impossibile, anche ad un abile cercatore, reperirla in quell’ingorgo di riflessi.
Un libro che pare una pittura di Topor della quale possiede, indubbiamente, i colori. Ma anche uno specchio frantumato. Un libro costruito a “spire, O Voi Letterati e Critici passatemi il termine, che si restringono, lentamente, in arie cupe e surreali prive di una omologata ripartizione dei confini della lucidità e della follia. Lucidità e follia danzano sinuosamente in questo condominio tetro, sfumato e incongruo come i sogni stessi.
Il protagonista è un normale impiegato, Trelkovsky.
Sfrattato, su consiglio di un amico trova un nuovo appartamento precedentemente affittato alla misteriosa Simonetta Choule la quale, nel momento in cui lui conclude il contratto d’affitto, si trova in fin di vita all’ospedale per un tentativo di suicidio. A quanto pare, Simonetta si è lanciata nel vuoto dalla finestra della sua casa. Quella stessa finestra alla quale il nostro Trelkovsky si affaccerà spesso.
Per Trelkovsky, inizialmente, quell’appartamento appare come un segno divino. E’ ancora ignaro del fatto che dio non sia cosi buono e generoso. Dio o chi per lui.
Il protagonista, persona discreta ed educata, vivrà circondato da vicini che lo accuseranno, spesso e volentieri, di fare troppo baccano. Questi onnipresenti condomini, più simili a ombre che a uomini, diverranno la sua ossessione. Egli farà di tutto per evitare le loro lamentele: rinuncerà alle visite degli amici, alle visite delle donne fino a rinunciare alla sua vita, alla sua identità. Identità che nel corso degli eventi, mai troppo chiari, subisce delle lente trasformazioni. Flemmatiche e impercettibili, paragonabili allo stillicidio del rubinetto che, nelle sue tetre fantasticherie, Trelkovsky sente all’interno del suo appartamento (o forse no?).
E nel momento in cui i ladri si introducono nel suo appartamento ripulendoglielo, capisce. L’illuminazione! Lui è al centro di un complotto, illogico sembrerebbe, ordito dai suo vicini. Dalle riflessioni contorte e toccanti di Trelkovsky emerge come Simonetta Choule non si sia suicidata, ma sia stata indotta a farlo dagli inquilini i quali vorrebbero ripetere l’esperienza con lui. Così pare, ma ciò che sembra non sempre è ciò che è reale. Ciò che è sicuro è che il protagonista sarà assorbito in un tragico gorgo nel quale non vi sono vie d’uscita, né principali, né d’emergenza. Fino all’epilogo che, in qualche modo, chiarirà l’enigma, ma non lo farà in modo netto. Rimarranno dubbi e domande irrisolte.
La domanda fondamentale è: chi è davvero Trelkovsky? È uno o duplice? Se è uno, è folle, visionario soggetto ad allucinazioni o sono, invece, i vicini che, con magistrale sadismo, lo conducono in quel baratro? O, invece, egli è l’emblema della frammentazione dell’io?Egli rappresenta, contemporaneamente, ciò che concretamente è visibile e anche quella parte che si trova sempre al di là della normale percezione, ossia la parte sconosciuta di ognuno di noi? E’ l’inconscio che si libera da rigide catene e si vendica, crudelmente, di una lunga prigionia?Roland Topor (1938-1997) è un artista poliedrico dedicatosi alla scrittura, al disegno, alla scultura, al teatro e alla sceneggiatura. Ha collaborato a numerose riviste. È il fondatore, con Jodorowsky e Arrabal del movimento surrealista cd. Panico che prende il nome dal dio Pan, appunto un dio senza forma che provoca il terrore e il riso. Topor ha scritto anche “Alice nel paese delle lettere” ed. Nuovi Equilibri, “I seni più belli del mondo” Feltrinelli.
Segnalo il film “L’inquilino del terzo piano” diretto da Roman Polansky tratto, appunto, al romanzo.
Dedico queste parole belle o brutte che siano, a chi si ostina a portare i rasta a 40 anni incurante di tutto, a chi combatte la medicina tradizionale e ti ammorba con le sue battaglie anti-cortisone, a chi non vuole essere eccentrico a tutti i costi semplicemente perché è nato eccentrico.

P.s. Ogni riferimento a C. Z. Jodorowskyano convinto, mio caro Amico squilibrato, è puramente NON casuale.

Altri libri: 
Finzioni, Jorge Luis Borges
Il ladro del silenzio, Rawi Hage
Quello che è successo a Joana, Valério Romão

venerdì 8 novembre 2013

IL PRINCIPIO DEL DOLORE - Adam Haslett


Titolo: Il principio del dolore
Autore: Adam Haslett
Editore: Einaudi
Anno: 20016
Genere: Racconti
Pagine: 222
Traduzione: Giovanna Granato


Era nello scaffale della piccola biblioteca, incastrato tra i romanzi di Stephen King e quelli di Tom Clancy, Non so perché, ma ho subito pensato che fosse un libro diverso, finito lì, in quel ripiano, per errore. E spiccava. L'ho preso e la sua copertina quasi sfumata e il titolo mi hanno, immediatamente, indotto a prenderlo. Così, a pelle, sentivo che poteva essere un libro "giusto". A lettura ultimata, non posso che confermare quelle sensazioni da quinto senso e mezzo dylandoghiane che, solo ogni tanto, portano nella giusta direzione. A seguire, di conseguenza, il mio incanto di fronte a una scrittura ammaliante e pulita.
Fratello e sorella, ormai avanti con gli anni, apparecchiano elegantemente la tavola per l’arrivo di un ospite atteso da anni. Il tempo non ha affievolito quell’attesa che pare destinata a perpetuarsi in eterno. Altrove, in una casa lontana dal mondo, un medico ascolta la storia di una donna la cui mano è stata privata di quattro dita. Un ragazzo, ormai orfano, ansiosamente attende il suo amante e carnefice tra quelle quattro mura che non permettono più di distinguere l’amore dalla violenza...Nell'anno 2004 esce Il principio del dolore opera prima, finalista al Premio Pulitzer, dell’allora trentenne Adam Haslett che, in qualche modo, segnerà la sua fortuna letteraria.
L’opera consta di nove racconti. Storie di vuoti esistenziali, di attese, di dolore quel dolore a cui è negata ogni possibilità di cura. Perché è vero che a tutto c’è un rimedio, ma non a quel dolore marchiato a fuoco su quelle anime incolpevoli, impotenti, fragili e prive di appigli. Con uno stile asciutto, privo di fronzoli o superflue edulcorazioni, Haslett scandaglia, con estrema abilità, l’animo umano affrontando temi forti e soffermandosi, in particolare, sulla malattia mentale: gabbia per chi ne è affetto ma, spesso e soprattutto, per coloro che stanno vicini, figli o genitori che siano, a chi ne è portatore. E in quel covo d’amore prolifera l’incapacità di mutare le cose, di migliorarle, perché quel covo d’amore, quasi paradossalmente, diviene fonte di altro dolore che si trascina in spirali sempre più ampie e proiettate all’infinito. Una lettura che lascia un sapore decisamente acre poiché il peggio che il lettore si aspetta, pagina dopo pagina, sarà sempre superato da un peggio che andrà sempre al di là di ogni previsione già di per sé non rosea. Perché nessun limite è posto alla cattiveria della vita. O voi che leggete, abbandonate ogni speranza, la vita è cruda, dura, irta di ostacoli ma soprattutto è crudele. Ed è crudele a caso, sia con i buoni sia con i malvagi. Non basta e non serve pregare, non basta e non serve sperare.
E se, tendenzialmente, in ogni storia crudele c’è almeno un piccolo, piccolissimo, embrione di salvezza, almeno un abbozzo di felicità, un piccolo frammento di speranza, be’ non è sicuramente questo il caso.
E se in ogni storia che tratta di dolore c’è quasi sempre, velato o spudoratamente palese, un po’ di patetismo be’ non è, ancora una volta , questo il caso. Haslett, con le sue parole, lo sveste quel dolore per mostrarcelo nella sua più vera nudità.